
Per recensirlo mi basterebbe una frase: “E’ uno dei film più belli che io abbia mai visto.”, ma non gli renderebbe giustizia e riconoscimento: cose che le vittime del massacro di Gwanju (Corea del Sud, 18-27 maggio 1980) di cui il film tratta non hanno ancora pienamente ricevuto. Ma la pellicola, da quando è uscita nel paese d’origine il 2 agosto 2017, ha superato tutte le aspettative in brevissimo tempo, per tre settimane consecutive è stata in testa al box office diventando il 10° film più visto in Corea ed è la produzione che concorrerà agli Oscar nella sezione “Miglior film in lingua straniera”.
Si tratta di “Un tassista” (택시운전사), del regista Jang Hoon, che ora è online con sottotitoli in inglese e il titolo “A taxi driver”. Si basa sulla vera storia del giornalista tedesco Jürgen Hinzpeter, scomparso l’anno scorso a 79 anni, e del tassista Kim Sa-bok (morto di cancro nel 1984) che lo portò a Gwanju durante le sollevazioni per la democrazia.
All’epoca il governo della Corea del Sud era una dittatura militare con a capo Chun Doo-hwan, che aveva preso il potere nel 1979. Chun dichiarò la legge marziale per l’intera nazione, chiuse le università e il Parlamento, fece arrestare i leader dell’opposizione e operò una stretta censura sui mezzi di comunicazione. Le proteste contro il regime, per lo più organizzate e guidate dagli studenti universitari e liceali, erano soffocate con estrema violenza. Il 18 maggio la popolazione di Gwanju scese in massa nelle strade e i soldati aprirono il fuoco. La cittadina fu circondata da posti di blocco e resa irraggiungibile: persino le linee telefoniche furono tagliate. Nessuno all’esterno sapeva cosa stesse accadendo. Le voci sulla sollevazione e sull’impossibilità di documentarla raggiunsero il giornalista Hinzpeter a Tokyo: il giorno dopo prese un volo per Seul e fra mille pericoli condivisi con il tassista che guidava per lui filmò ciò che è visibile ancora oggi in strazianti montaggi documentari. In effetti, la pellicola ha ricreato fedelmente alcune delle sequenze riprese da Hinzpeter (che mi sono tornate in mente durante la visione con effetto “colpo al cuore”).

(Gwanju, maggio 1980)
Il film si apre presentandoci il sig. Kim di Seul – l’attore Song Kang-ho in una delle sue migliori performance – tassista indipendente, vedovo con una figlioletta 11enne e poco propenso a occuparsi di altro che non sia il racimolare i soldi per l’affitto arretrato. Quando apprende per caso che uno straniero pagherebbe una cifra considerevole per un viaggio di andata e ritorno prima del coprifuoco a Gwanju, “ruba” l’incarico al tassista designato giungendo all’appuntamento prima di lui. Il ruolo del giornalista che lo ingaggia è ricoperto in modo altrettanto superbo dall’attore tedesco Thomas Kretschmann, ma nessuno dei co-protagonisti fallisce nel renderci i propri personaggi e parte del merito va senz’altro alla sceneggiatrice Um Yoo-na, che ha saputo disegnare umanità a tutto tondo anche per quelli che incontriamo di sfuggita o per poche battute.
Una volta a Gwanju, il tassista è costretto a riconsiderare il proprio disinteresse per la politica: non è solo la telecamera di Jürgen Hinzpeter, sono i suoi occhi a vedere i soldati massacrare giovani e vecchi a bastonate, sparare su una folla inerme e poi prendere di mira chi tenta di soccorrere i feriti (la cifra finale degli assassinati non è ufficiale, le stime arrivano a circa 2.000 persone). Sebbene, scosso in ogni fibra e preoccupato per la figlia rimasta sola, dapprima abbandoni la situazione, una volta tornato a Seul da solo non riuscirà a restarci. Non passerà neppure da casa prima di dirigersi di nuovo a Gwanju. Il film ha molte scene memorabili, ma a me resterà impressa per sempre quella apparentemente banale della telefonata che il tassista fa alla sua bambina prima di tornare al fianco di Hinzpeter: “Papà ha lasciato indietro un cliente. – le dice cercando di trattenere le lacrime – Qualcuno che ha davvero bisogno di prendere il mio taxi.”
Ne ha davvero bisogno perché il filmato delle atrocità perpetrate a Gwanju deve raggiungere l’esterno, come promesso allo studente che i due là incontrano e che poi ritroveranno cadavere all’ospedale, come promesso ai tassisti della cittadina che – fatto storico – si mettono di mezzo fra la linea di fuoco e i dimostranti per permettere la rimozione dei feriti, come promesso alla folla di cittadini che li ha accolti e festeggiati e ha offerto loro cibo, sorrisi, ringraziamenti e applausi.
“Dietro a un ospedale – ebbe a scrivere il vero Jürgen Hinzpeter – parenti e amici mi mostravano le loro persone care, aprendo parecchie delle bare che giacevano là in file e file. Mai nella mia vita, neppure filmando in Vietnam, avevo visto una cosa del genere.”
E alla fine, nella realtà e nella fiction, il filmato riesce a passare l’ispezione doganale: è nascosto in una grossa scatola di biscotti avvolta in carta dorata e addobbata con fiocchi verdi come in uso per i regali di nozze. Un oggetto così vistoso da passare inosservato, una delle piccole efficaci commoventi astuzie che i protagonisti usano durante tutto il film per sfuggire a una violenza feroce e persistente, per sopravvivere e testimoniare. Maria G. Di Rienzo
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