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Posts Tagged ‘dittatura’

(due poesie di Alejandra Pizarnik (1936-1972) dalla raccolta “Árbol de Diana”, trad. Maria G. Di Rienzo. Alejandra faceva parte di una famiglia ebrea ucraina in fuga dal nazismo e nacque in Argentina. A partire dall’adolescenza cominciò ad averi problemi con la propria immagine – si sentiva orribilmente “brutta” – e divenne assuefatta alle amfetamine nel tentativo di rendere il proprio corpo rispondente ai canoni di “bellezza” femminile. E’ morta suicida. Nonostante ciò, i suoi lavori riflettono costantemente lo spirito sfrontato e indomabile che aveva mostrato sin da bambina. Durante la dittatura in Argentina la lettura delle sue poesie era proibita. Un documentario sulla vita di Alejandra, del 2013, è visibile in lingua spagnola e sottotitoli in inglese qui: https://vimeo.com/62036418 )

ed mell - dust rose

(23, senza titolo)

Uno sguardo dal tombino

può diventare una visione del mondo

La ribellione consiste nell’osservare una rosa

sino a che i tuoi occhi si riducono in polvere

(Orologio)

Signora piccolissima

inquilina nel cuore di un uccello

esce all’alba per pronunciare una sola sillaba

NO

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Se vuoi un’immagine del futuro, immagina uno stivale che calpesta un volto umano – per sempre. (George Orwell, “1984”)

incivili

Da Repubblica, oggi: “Questa mattina a Bettola alla Festa della Bortellina (specialità culinaria piacentina, ndr) abbiamo anche arrestato la Rachete (refuso della scrivente, ndr) con un finto Salvini (cartonato)”. Lo scrive sulla sua bacheca di Facebook la deputata della Lega Elena Murelli allegando alcune foto e un breve video in cui si vede una finta capitana della Sea Watch Carola Rackete impersonata da un figurante con parrucca bionda che viene gettata a terra e poi arrestata da un finto Salvini (con felpa e maschera del leader del Carroccio), che si avvicina all’arrestata dicendole “ti abbiamo preso eh?”, sotto gli occhi di una finta Merkel con una ridicola gonnellina gialla che si avvicina per mettere un piede in testa alla finta Rackete. Nel video la parlamentare piacentina assiste divertita alla gag avvenuta a Bettola, nel Piacentino (paese di nascita di Pier Luigi Bersani) accanto al senatore leghista Pietro Pisani, poi entrambi posano per alcune foto ricordo con i figuranti.”

Se (al cittadino comune) gli si consentisse di avere contatti con stranieri, scoprirebbe che sono persone come lui e che la maggior parte di quanto gli è stato detto di loro è pura menzogna. (op. cit.)

se questo è un sindaco

Da Repubblica, oggi: “A calcioni nel suo paese”: a Gallarate sindaco leghista scrive post contro un tunisino, ma era la vittima del reato. Un 60enne italiano con problemi psichici incendia l’auto di un tunisino, ma il sindaco inverte la notizia e scrive un post contro quest’ultimo. (…)

A distanza di qualche ora – ma questa volta dal suo profilo privato, il sindaco ha scritto un lungo post attaccando chi aveva fatto notare il suo errore e i giornali (ancora una volta in stile Salvini), come se l’errore commesso fosse di poco conto: “Ho riconosciuto che ho letto male una notizia e dopo aver scritto un post sbagliato l’ho rimosso in 6 minuti. E che succede? Apriti cielo, le opposizioni ferragostane, più attente a seguirmi su Facebook che alle loro vacanze, non vedevano l’ora di potermi attaccare…haters di professione idem…ma il clou lo raggiunge la carta stracciata che delle notizie false, dei finti scoop a pagamento ci campa che mi condanna per aver scritto un post errato (cancellato dopo 6 minuti, con l’ammissione di aver sbagliato). (…)”

Il potere non è un mezzo, è un fine. Non si stabilisce una dittatura nell’intento di salvaguardare una rivoluzione; ma si fa una rivoluzione nell’intento di stabilire una dittatura. Il fine della persecuzione è la persecuzione. Il fine della tortura è la tortura. Il fine del potere è il potere. (op. cit.)

“Nineteen Eighty-Four” – “1984” di George Orwell fu pubblicato nel 1949. E’ la visione di un futuro distopico in cui uno stato totalitario ha il controllo assoluto su ogni azione e persino sul pensiero della popolazione: il Grande Fratello vi guarda e ha pieni poteri. Se non l’avete ancora letto, ve lo consiglio caldamente.

Maria G. Di Rienzo

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Hanno aspettato tutta la notte fuori dal palazzo del Parlamento, con i fazzoletti verdi divenuti il simbolo di questo travolgente movimento femminista, in decine di migliaia. Attendevano l’esito di un dibattito alla Camera, durato venti ore, che sono state le loro oceaniche manifestazioni a creare: la legge che permette l’interruzione volontaria di gravidanza, in Argentina, nelle prime 14 settimane ha passato il primo scoglio ed è stata approvata con 129 voti contro 125.

argentina donne

Le attiviste sanno che sarà difficile ottenere lo stesso risultato in Senato, ma reclamano giustamente questo momento come una grande vittoria – hanno generato uno spostamento nell’opinione pubblica impensabile solo pochi anni prima.

Gran parte del merito organizzativo va a “Ni Una Menos”, che ha avuto inizio nel 2015 proprio in Argentina come risposta alla violenza di genere e si è diffuso in tutta l’America Latina, ed è stato in grado di saldare alleanze con gruppi che vanno dalla “Campagna Nazionale per il diritto all’aborto legale, sicuro e libero” a “Cattolici per il diritto di decidere”.

“Ciò prova che l’occupazione degli spazi pubblici da parte delle donne ha risultati positivi. – ha detto Alejandra Naftal alla stampa – Le donne che si mobilitarono contro la dittatura quarant’anni fa, come le Madri e le Nonne di Plaza de Mayo, hanno aperto la strada a questo potente movimento delle donne.” Alejandra dirige il Museo Esma, una ex base navale in cui 5.000 persone furono assassinate durante la dittatura in Argentina (1976 – 1983). Le donne di cui parla sventolavano fazzoletti bianchi, chiedendo la verità sui crimini del regime: oggi sventolano fazzoletti verdi, chiedendo la fine dei crimini contro loro stesse.

argentina 4 giugno 2018

Maria G. Di Rienzo

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posto di blocco

Per recensirlo mi basterebbe una frase: “E’ uno dei film più belli che io abbia mai visto.”, ma non gli renderebbe giustizia e riconoscimento: cose che le vittime del massacro di Gwanju (Corea del Sud, 18-27 maggio 1980) di cui il film tratta non hanno ancora pienamente ricevuto. Ma la pellicola, da quando è uscita nel paese d’origine il 2 agosto 2017, ha superato tutte le aspettative in brevissimo tempo, per tre settimane consecutive è stata in testa al box office diventando il 10° film più visto in Corea ed è la produzione che concorrerà agli Oscar nella sezione “Miglior film in lingua straniera”.

Si tratta di “Un tassista” (택시운전사), del regista Jang Hoon, che ora è online con sottotitoli in inglese e il titolo “A taxi driver”. Si basa sulla vera storia del giornalista tedesco Jürgen Hinzpeter, scomparso l’anno scorso a 79 anni, e del tassista Kim Sa-bok (morto di cancro nel 1984) che lo portò a Gwanju durante le sollevazioni per la democrazia.

All’epoca il governo della Corea del Sud era una dittatura militare con a capo Chun Doo-hwan, che aveva preso il potere nel 1979. Chun dichiarò la legge marziale per l’intera nazione, chiuse le università e il Parlamento, fece arrestare i leader dell’opposizione e operò una stretta censura sui mezzi di comunicazione. Le proteste contro il regime, per lo più organizzate e guidate dagli studenti universitari e liceali, erano soffocate con estrema violenza. Il 18 maggio la popolazione di Gwanju scese in massa nelle strade e i soldati aprirono il fuoco. La cittadina fu circondata da posti di blocco e resa irraggiungibile: persino le linee telefoniche furono tagliate. Nessuno all’esterno sapeva cosa stesse accadendo. Le voci sulla sollevazione e sull’impossibilità di documentarla raggiunsero il giornalista Hinzpeter a Tokyo: il giorno dopo prese un volo per Seul e fra mille pericoli condivisi con il tassista che guidava per lui filmò ciò che è visibile ancora oggi in strazianti montaggi documentari. In effetti, la pellicola ha ricreato fedelmente alcune delle sequenze riprese da Hinzpeter (che mi sono tornate in mente durante la visione con effetto “colpo al cuore”).

gwanju maggio 1980

(Gwanju, maggio 1980)

Il film si apre presentandoci il sig. Kim di Seul – l’attore Song Kang-ho in una delle sue migliori performance – tassista indipendente, vedovo con una figlioletta 11enne e poco propenso a occuparsi di altro che non sia il racimolare i soldi per l’affitto arretrato. Quando apprende per caso che uno straniero pagherebbe una cifra considerevole per un viaggio di andata e ritorno prima del coprifuoco a Gwanju, “ruba” l’incarico al tassista designato giungendo all’appuntamento prima di lui. Il ruolo del giornalista che lo ingaggia è ricoperto in modo altrettanto superbo dall’attore tedesco Thomas Kretschmann, ma nessuno dei co-protagonisti fallisce nel renderci i propri personaggi e parte del merito va senz’altro alla sceneggiatrice Um Yoo-na, che ha saputo disegnare umanità a tutto tondo anche per quelli che incontriamo di sfuggita o per poche battute.

Una volta a Gwanju, il tassista è costretto a riconsiderare il proprio disinteresse per la politica: non è solo la telecamera di Jürgen Hinzpeter, sono i suoi occhi a vedere i soldati massacrare giovani e vecchi a bastonate, sparare su una folla inerme e poi prendere di mira chi tenta di soccorrere i feriti (la cifra finale degli assassinati non è ufficiale, le stime arrivano a circa 2.000 persone). Sebbene, scosso in ogni fibra e preoccupato per la figlia rimasta sola, dapprima abbandoni la situazione, una volta tornato a Seul da solo non riuscirà a restarci. Non passerà neppure da casa prima di dirigersi di nuovo a Gwanju. Il film ha molte scene memorabili, ma a me resterà impressa per sempre quella apparentemente banale della telefonata che il tassista fa alla sua bambina prima di tornare al fianco di Hinzpeter: “Papà ha lasciato indietro un cliente. – le dice cercando di trattenere le lacrime – Qualcuno che ha davvero bisogno di prendere il mio taxi.”

Ne ha davvero bisogno perché il filmato delle atrocità perpetrate a Gwanju deve raggiungere l’esterno, come promesso allo studente che i due là incontrano e che poi ritroveranno cadavere all’ospedale, come promesso ai tassisti della cittadina che – fatto storico – si mettono di mezzo fra la linea di fuoco e i dimostranti per permettere la rimozione dei feriti, come promesso alla folla di cittadini che li ha accolti e festeggiati e ha offerto loro cibo, sorrisi, ringraziamenti e applausi.

“Dietro a un ospedale – ebbe a scrivere il vero Jürgen Hinzpeter – parenti e amici mi mostravano le loro persone care, aprendo parecchie delle bare che giacevano là in file e file. Mai nella mia vita, neppure filmando in Vietnam, avevo visto una cosa del genere.”

E alla fine, nella realtà e nella fiction, il filmato riesce a passare l’ispezione doganale: è nascosto in una grossa scatola di biscotti avvolta in carta dorata e addobbata con fiocchi verdi come in uso per i regali di nozze. Un oggetto così vistoso da passare inosservato, una delle piccole efficaci commoventi astuzie che i protagonisti usano durante tutto il film per sfuggire a una violenza feroce e persistente, per sopravvivere e testimoniare. Maria G. Di Rienzo

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