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Posts Tagged ‘codice di abbigliamento’

“Come può una persona a cui è stato insegnato che le orchidee sono solo bianche compiere una scelta seria fra orchidee bianche e orchidee di altri colori? Come può una persona a cui non è mai stato neppure insegnato che esistono orchidee di altri colori compiere del tutto una scelta per esse?”

Maryam Lee

Così scrive Maryam Lee (in immagine), malese, attivista per i diritti delle donne, nel libro “Unveiling Choice” ove spiega la sua scelta di non indossare l’hijab. Non lo considera un problema in sé, mettendolo in relazione a situazioni e contesti, ma trova assai problematiche “le condizioni sociali che costringono le donne a metterlo o toglierlo”. E’ inoltre convinta che “le donne musulmane, con fazzoletto o senza (…) devono convenire che il loro nemico comune sono uomini ipocriti che continuano a dire alle donne cosa mettersi addosso.”

Maryam in questo momento è indagata dalle autorità religiose (Jabatan Agama Islam Selangor) per possibile violazione dell’articolo di legge che criminalizza “ogni persona la quale tramite parole in grado di essere udite o lette o viste in disegno, tramite segni o altre forme di rappresentazione visibili o in grado di essere viste in ogni altra maniera: (a) insulti o rechi disprezzo alla religione islamica (…)”.

Se l’indagine condurrà a una denuncia e la denuncia a una condanna, la scrittrice può ricevere una multa di 1.080 euro o tre anni di prigione – o entrambi, la cosa sembra dipendere dall’umore dei giudici.

“Unveiling Choice” – “Scelta di svelamento” è stato pubblicato all’inizio di quest’anno e già l’evento pubblico organizzato per il suo lancio fu indagato dal Dipartimento per gli Affari Religiosi. Donne, femministe, gruppi della società civile stanno protestando per l’intimidazione diretta a Maryam Lee, citando nelle loro dichiarazioni numerosi casi simili.

MAJU – Malaysian Action for Justice and Unity, associazione apolitica pro diritti umani, sostiene che siano proprio le autorità religiose a insultare l’Islam, dandone un’immagine fatta di costrizioni e imposizioni: “L’Islam è una religione di discernimento e permette le differenze di opinione (…) Quest’azione (contro la scrittrice) umilia e insulta l’essenza stessa dell’Islam.”

Unveiling Choice cover

Spero ovviamente che le accuse contro Maryam siano lasciate cadere. La sto immaginando fra molti anni, in un’occasione festiva e attorniata da amici e parenti, con una nipotina che le chiede: “Ma per cosa ce l’avevano con il tuo primo libro, nonna?” “Non ci crederai, tesoro, ma ci sono persone che odiano le orchidee e ancora di più le donne che ne parlano.”

Maria G. Di Rienzo

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Coincidenze bizzarre:

– il 21 giugno, ieri, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha festeggiato benissimo il centenario durante la sua 108^ Conferenza, mettendo ai voti e vedendo approvate Convenzione su lotta a molestie e violenza sul luogo di lavoro (legalmente vincolante per gli stati), Raccomandazioni relative (consigli e guida su come farlo, non vincolanti) e la Dichiarazione sul futuro del Lavoro, che mette gli esseri umani e i loro diritti umani al centro del discorso. La Convenzione entrerà in vigore dopo 12 mesi dalla ratifica da parte delle singole nazioni, fra cui l’Italia.

Sull’approvazione della Convenzione, la dirigente dell’Organizzazione Manuela Tomei (Workquality Department) ha detto: “Senza rispetto, non c’è dignità al lavoro e, senza dignità, non c’è giustizia sociale. E’ la prima volta che una Convenzione e delle Raccomandazioni su violenza e molestie nel mondo del lavoro sono adottate. Ora abbiamo una definizione condivisa di violenza e molestie. Sappiamo cosa dev’essere fatto per prevenirle e affrontarle e da chi. Speriamo che questi nuovi standard ci guidino nel futuro del lavoro che vogliamo vedere.”

– sempre il 21 giugno rimbalza qua e là sui quotidiani il nuovo regolamento per la polizia locale di Cittadella (Padova), comune governato dalla Lega. Il focus delle prescrizioni dovrebbe essere “la sicurezza” – naturalmente intesa in senso salviniano – e in effetti esse prevedono assetti antisommossa, maschere antigas ecc., ma l’imposizione di un lunghissimo, dettagliato e spesso ridicolo codice di abbigliamento per le vigili (1) non sembra incastrarsi bene nel quadro.

Prima di entrare nei dettagli, ecco la dichiarazione al proposito del comandante dei vigili di Cittadella, Samuele Grandin: “I nostri agenti sono tenuti ad avere un aspetto consono. Siamo forze dell’ordine a tutti gli effetti, per cui vige un principio militaresco. Chi sceglie questo lavoro deve capire che non siamo un’armata Brancaleone, e per chi non si adegua scatteranno i procedimenti disciplinari.” Nel presentare il nuovo regolamento ai consiglieri comunali (costui) ha insistito molto sull’importanza della forma fisica e sulla necessità di mettere in campo misure adeguate anche in funzione antiterrorismo.”

La polizia municipale, in Italia, è un corpo a ordinamento civile, i corpi di polizia a ordinamento militare sono guardia di finanza e carabinieri, per cui i principi militareschi (propri cioè dei militari – dizionario della lingua italiana docet) con i vigili non hanno nulla a che fare. Molto militaresca, per contro – per estensione, spregiativo, sempre citando il dizionario – appare la minaccia di sanzioni per chi dovesse obiettare.

Tornando alle prescrizioni per ottenere un aspetto consono a non si sa cosa, “tra i requisiti per l’accesso, sia di maschi sia di femmine, è prevista una “distribuzione del pannicolo adiposo” che rispecchi una forma armonica, con tanto di percentuali di massa magra e massa grassa per maschi e femmine”. Sarebbe interessante, al proposito, sapere chi ha definito l’armonia (Leibniz e le sue monadi?) e quale autorità scientifica, in base a quali studi / ricerche, ha definito le percentuali. Inoltre: il personale già in servizio che non potesse o non volesse raggiungere gli standard indicati nel nuovo regolamento sarà licenziato?

Comunque, se ai vigili di sesso maschile si ordina di curare barba e baffi e di non portare basette a punta (?), le vigili hanno una lista di prescrizioni assai più lunga che norma: colore, forma, lunghezza dei capelli (per esempio la lunghezza di un’eventuale frangia “non deve eccedere al di sotto delle sopracciglia”) e accessori per gli stessi (“di dimensioni ridotte e di colore tale da risultare poco appariscenti”); cosmetici (“tenui”, “smalto per unghie trasparente”); gioielli (orecchini solo se non pendenti e sempre in coppia, fra gli anelli sono permessi solo la fede e quello di fidanzamento: e se lo stato civile conferma la prima, non è noto come si verificherà che il secondo corrisponda a una relazione sentimentale ufficiale); capi di abbigliamento, dai collant “tinta carne o beige” da indossare “sia d’inverno che d’estate, salvo specifiche e temporanee autorizzazioni da parte del medico competente” alla coppia mutande/reggiseno nei medesimi colori (obbligatoria “con ogni tipo di uniforme”).

La Convenzione citata all’inizio definisce violenza e molestie come comportamenti e pratiche che “mirano a, o risultano in, o potrebbero risultare in: danno fisico, psicologico, sessuale ed economico”; ciò “può costituire una violazione o un abuso dei diritti umani” ed è “una minaccia per le pari opportunità, inaccettabile e incompatibile con un lavoro decente”.

La sessualizzazione e l’oggettivazione delle lavoratrici, spinta sino a normare il colore delle loro mutande, temo ricada nella suddetta descrizione. E francamente non riesco a vedere i benefici che i collant obbligatori (anche se le vigili indossano pantaloni?) porteranno alle misure antiterrorismo.

Però, sapete, c’è anche chi ha chiuso un articolo al proposito così:

“Del resto l’attenzione di Cittadella alla sicurezza ha una storia antica, racchiusa com’è fin dal Medioevo dalla cinta muraria fatta erigere da Ezzelino per favorire la colonizzazione del territorio verso Treviso, ancor oggi perfettamente conservata.” (Repubblica, 21 giugno – la parola evidenziata, nel testo, l’ho sostituita io. L’originale era probabilmente un refuso: amor. O forse no. Resta il fatto che con la palese discriminazione sessista subita dalle vigili non c’entra una beata mazza.)

Maria G. Di Rienzo

(1) La parola “vigile” termina in “e”. E’ uno di quei casi in cui basta modificare l’articolo per indicare il sesso a cui ci si riferisce, senza ricorrere al suffisso spregiativo “essa”.

Linguiste/i e studiose/i spiegano come e perché da almeno un ventennio perciò, in caso non stia bene a qualcuno, questo qualcuno può fare le sue ricerche e persino piazzare una petizione su Change.org, ma è inutile che chieda a me di modificare le mie scelte. Es claro?

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yumi

Quando, la settimana scorsa, Yumi Ishikawa – in immagine – ha ottenuto attenzione internazionale per la sua campagna contro i codici di abbigliamento imposti alle donne sul lavoro (in particolare contro l’obbligo di indossare scarpe con i tacchi in determinati ambienti), ha dovuto affrontare in sequenza tutti gli stadi del rigetto che ogni rivendicazione simile da parte femminile, in qualsiasi zona del pianeta, guadagna ormai a prescindere. I due fattori determinanti per questo sono l’ignoranza quasi totale delle condizioni in cui vivono le donne “comuni” (cancellate da pettegolezzi infiniti sulle celebrità, sfilate di modelle silenti e parate di vallette mute, sfide “erotiche” fra influencer sul web e così via) e l’incapacità manifesta di collegare i diversi tipi di discriminazione sessista al quadro che li comprende.

1. Gli uomini in posizione di potere non ascoltano, neppure se gli presentate ventimila firme a sostegno del vostro reclamo (il che significa che almeno ventimila altre lavoratrici si sentono come voi e ciò dovrebbe, in teoria, valere un minimo di discussione). Il Ministro del Lavoro giapponese, Takumi Nemoto, ritiene che l’obbligare le donne a indossare scarpe con i tacchi sia “accettato socialmente come necessario e appropriato a livello occupazionale”. La salute e la sicurezza di chi lavora? Sì sì, devono essere protette ma sapete, ha aggiunto il Ministro, “i lavori variano”.

2. In effetti, dei danni che subite non frega un piffero a nessuno, nemmeno quando quel che testimoniate è ovvio: stare in piedi per ore e ore sui tacchi fa male. Ishikawa ha scritto del dolore ai piedi, dei problemi alla schiena, della difficoltà a muoversi, dell’impossibilità di correre qualora si palesi un pericolo ecc. Ma le aziende (consigli d’amministrazione a schiacciante maggioranza maschile) e i clienti uomini sono più felici se vedono una donna sorridere a denti stretti mentre ondeggia sui tacchi e si rovina la spina dorsale, persino quando come Ishikawa lavora a tempo determinato in una cappella funeraria (la 32enne è attrice e scrittrice).

3. Molti di questi uomini sono così oltraggiati dal fatto che abbiate aperto bocca da prodursi immediatamente nell’assalto online – e il relativo anonimato permette loro di mostrare esattamente quanto sono incivili – perciò Ishikawa è stata sommersa da insulti sessisti. Persino le cose più blande che le sono state dette sono così stupide da far piangere: “Perché tanto chiasso? Se devi parlarne fallo con i tuoi datori di lavoro.”, “E gli uomini allora? Non devono mettere le cravatte?”, “Ho letto che alle donne piace il senso di magia e femminilità che acquistano sui tacchi alti”.

Traduzione: Stai zitta, e comunque è un problema tuo, non tentare di mostrarne le radici sociali. Gli uomini soffrono, stanno peggio e non si lamentano. Sei una vera donna, o cosa?

Un minimo di approfondimento: a) Non sono giunti dati sui danni alla salute provocati dalla cravatta ai colli degli uomini, ignoriamo anche quanti ci si siano effettivamente strozzati e siano passati dalla cappella funeraria di cui sopra – id est, non avendo prove a sostegno, questa roba resta una ridicola lagna per quanto sia perfettamente vero che le cravatte non dovrebbero essere imposte. Perché invece di prendervela con Yumi Ishikawa non date inizio alla vostra campagna in merito?

b) Storicamente, le scarpe col tacco hanno fatto il loro debutto nel 16° secolo, ai piedi degli uomini della cavalleria persiana, prima di migrare agli eserciti europei e alle corti reali pure europee: confesso di dubitare fortemente che i cavalieri le indossassero per sentirsi magici e femminili.

4. Ma ci sono pure donne offese dalla vostra visibilità. Da quelle che manco hanno letto la vostra petizione (Ishikawa aveva chiarito a priori di non aver nulla contro le scarpe alte in sé, ma solo contro l’obbligo di indossarle – non avrebbe dovuto essere necessario, tuttavia l’andazzo attuale ci costringe persino a scusarci continuamente di esistere) e vi chiedono perché volete proibire loro di scegliere, alle immancabili “benaltriste”: la nazione ha problemi più gravi, vi dicono costoro, della trivialità che avete sollevato. E che il Giappone con le donne abbia davvero problemi è assodato – nella lista mondiale dell’eguaglianza di genere si piazza al 110° posto su 149 paesi. Il divario sui salari segna il 25,7% in meno per le donne a parità di mansioni. Quattro società su cinque di quelle quotate in borsa non hanno donne nei loro consigli d’amministrazione. Durante la recente abdicazione dell’imperatore Akihito alle donne non è stato permesso entrare nella sala della cerimonia. L’anno scorso nove facoltà di medicina hanno ammesso di truccare gli esami d’ammissione per escludere le candidate donne. L’11 giugno u.s. le donne erano in piazza a protestare contro il verdetto del tribunale che ha assolto il padre stupratore seriale della propria figlia 19enne: i giudici hanno detto che anche se “il sesso era non consensuale” non era possibile “provare che lei avesse resistito”. La nazione permette l’oggettivazione sessuale delle minorenni con il giro d’affari detto “joshi kosei”, ovvero la fornitura di “servizi” da parte di giovani donne in uniformi scolastiche.

Tokyo distretto Akihabara

(Controllo di polizia dell’età di un gruppo di esse)

La prostituzione richiesta alle ragazze in uniforme è nascosta da offerte di riflessologia plantare e di massaggi vari, sessioni fotografiche e “laboratori” in cui le giovani offrono visione delle loro mutande mentre fanno origami o creano oggetti con perline. Ufficialmente i clienti non devono toccarle, ma quelli che non vogliono masturbarsi a casa possono non ufficialmente ottenere di più. Le ragazze che finiscono in questo giro sono, com’è ovvio, le più povere e quelle la cui autostima è stata distrutta dall’infinito assalto dei messaggi sessisti loro diretti.

Cosa lega insieme tutto questo? La discriminazione di genere figlia del patriarcato, punto e basta. Ecco perché i tacchi obbligatori sul lavoro contro cui Ishikawa protesta non possono essere esclusi dalla lotta per i diritti umani delle donne. Sono una delle tante facce della violenza, quella che ama mascherarsi da “bellezza”.

Maria G. Di Rienzo

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(“I did it for my daughter, says woman arrested for headscarf protest in Iran”, di Emily Wither per Reuters, 14 febbraio 2019, trad. Maria G. Di Rienzo.)

azam

Il cuore di Azam Jangravi (in immagine sopra) batteva forte quando si arrampicò sulla cabina di un trasformatore elettrico, nell’animata Via della Rivoluzione a Teheran, un anno fa. Sollevò in aria il suo foulard e lo sventolò sopra la testa.

Si formò una folla. Alcune persone le urlavano di scendere. Lei sapeva fin dall’inizio che sarebbe stata arrestata. Ma lo ha fatto comunque, dice, per cambiare il paese a beneficio della sua figlioletta di otto anni.

“Ripetevo a me stessa: Viana non dovrebbe crescere nelle stesse condizioni in cui questo paese ha fatto crescere te.“, ha ricordato Jangravi questa settimana, durante un’intervista nell’appartamento di una località segreta fuori dall’Iran, ove sta attendendo notizie sulla sua richiesta di asilo.

“Continuavo a dirmi: Puoi farcela, puoi farcela. – ha dichiarato – Provavo la sensazione di un potere molto speciale. Era come se non fossi più del genere secondario.”

Dopo la protesta fu arrestata, licenziata dal suo lavoro in un istituto di ricerca e condannata a tre anni di prigione per aver “promosso l’indecenza” e aver “volontariamente violato la legge islamica”. Il tribunale minacciò di sottrarle la figlia, ma lei riuscì a fuggire dall’Iran – con Viana – prima di entrare in prigione: “Ho trovato un contrabbandiere (ndt. che fa uscire persone dal paese) con molta difficoltà. E’ successo tutto assai velocemente, ho lasciato dietro di me la mia vita, la mia casa, la mia automobile.”

disegno

Mentre parla, Viana fa dei disegni (in immagine sopra). Mostrano sua madre mentre sventola in aria l’hijab bianco. Sin dalla rivoluzione islamica in Iran, il cui quarantennale si dà questa settimana, alle donne è stato ordinato di coprirsi le teste per il bene del decoro. Le donne che contravvengono sono pubblicamente ammonite, multate o arrestate.

Jangravi è una delle almeno 39 donne arrestate lo scorso anno in relazione alle proteste sull’hijab, secondo Amnesty International che dice come altre 55 persone siano state imprigionate per il loro lavoro sui diritti delle donne, incluse donne che hanno tentato illegalmente di entrare negli stadi delle partite di calcio e avvocate che difendono le donne. Le autorità si spingono a “limiti estremi e assurdi per fermare le campagne (ndt. delle donne). – dice la ricercatrice di AI per l’Iran Mansoureh Mills – Fanno cose come il perquisire le case in cerca di spillette con su scritto Sono contro l’hijab forzato.” Le spillette sono parte dello sforzo continuato per mettere in luce la questione del fazzoletto, assieme alla campagna che vede le donne indossare hijab bianchi di mercoledì.

Jangravi ricorda ciò che le raccontava sua madre della vita prima della rivoluzione: “Mi disse che la rivoluzione aveva causato un grande ammontare di sessismo e che donne e uomini erano stati separati a forza.”

E’ stata ispirata ad agire dopo che altre due donne erano state arrestate per proteste simili sulla medesima strada. “Ovviamente non ci aspettiamo che chiunque si arrampichi sulla piattaforma in Via della Rivoluzione. – ha detto – Ma questo consente alle nostre voci di essere udite nel mondo intero. Ciò che noi “ragazze” abbiamo fatto è stato il rendere questo movimento qualcosa che continua a andare avanti.”

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(Estratto dalla prefazione di Roxane Gay a “Dress Like a Woman: Working Women and What They Wore” – “Vestirsi da donna: lavoratrici e quel che indossano”, Abrams Books, 2018. Trad. Maria G. Di Rienzo.)

woman working 1943

Regolamentare come le donne si vestono, dentro o fuori dal posto di lavoro, non è nulla di nuovo. Nella Grecia antica un gruppo incaricato di magistrati, gynaikonomoi o “controllori delle donne”, si assicurava che le donne vestissero “in maniera appropriata” e decideva quanto dovessero spendere per i loro abiti. Le severe – e obbligatorie – regole erano stabilite per ricordare alle donne il loro posto nella società greca.

Nei millenni successivi non è cambiato molto. Durante la Storia, gli uomini hanno controllato i corpi delle donne e il loro abbigliamento tramite le strutture sociali e le leggi. I datori di lavoro hanno a lungo imposto codici di abbigliamento per le donne nei luoghi di lavoro, chiedendo per esempio che le donne indossassero tacchi alti, calze fine, trucco e vestiti o gonne di una lunghezza appropriata ma “femminile” e attraente. I datori di lavoro hanno anche deciso come le donne dovevano portare i capelli.

Agli inizi del 20° secolo, le donne cominciarono a entrare in massa nella forza lavoro. Ma solo le donne che lavoravano nelle fabbriche, nelle fattorie o che svolgevano altre forme di lavoro manuale avevano la possibilità di indossare indumenti come i pantaloni. Le donne che lavoravano negli uffici dovevano indossare le gonne, le scarpe con il tacco e la bigiotteria relative al loro sesso. Questa divisione sarebbe continuata sino agli anni ’70, quando l’influenza della rivoluzione sessuale lasciò il proprio segno. Sebbene le donne dovessero ancora conformarsi ai costumi sociali, ora avevano la possibilità di considerare il proprio conforto e il proprio stile personale in quello che indossavano nei luoghi di lavoro. Durante gli anni ’80 e i primi anni ’90, le donne spesso portavano completi giacca-pantaloni come i loro colleghi maschi.

Alle donne della Reale polizia equestre canadese è stato permesso indossare completi con pantaloni solo nel 2012. Nel 2017, il codice d’abbigliamento del Congresso degli Usa ancora bandiva alle donne – membri del personale e visitatrici, come le giornaliste – l’uso di magliette senza maniche. Una giornalista fu persino allontanata da un locale all’esterno della Camera perché il suo abito, che le lasciava le braccia scoperte, fu giudicato “inappropriato”.

Il femminismo ha ottenuto notevoli risultati e, oggi, ciò che le donne indossano al lavoro è vario quanto i compiti che le donne svolgono. Nel 2010, banca svizzera UBS si trovò al centro di uno scandalo quando girò voce delle 44 pagine del suo codice d’abbigliamento, colmo di linee guida su come applicarsi il trucco, sul mantenere ben curate le unghie dei piedi per evitare di stracciare le calze fine, sull’evitare scarpe strette che potrebbero causare alle donne l’avere “sorrisi tirati” e sull’indossare biancheria intima del colore della pelle, così che gli indumenti intimi restino discreti e e non diventino “spettacolo”.

Sebbene la maggior parte dei datori di lavoro abbia codici di abbigliamento anche per gli uomini, che richiedono loro di indossare completi e cravatte, tagliarsi bene capelli e barba e così via, questi codici simboleggiano un concetto di professionalità, piuttosto che le aspettative culturali sulla mascolinità. Come per molte altre cose, le regole sono diverse per le donne. Vestirsi da donna è vestirsi in modi prescritti che esaltano un rigoroso marchio di femminilità e ristorano lo sguardo maschile. Vestirsi da donna suggerisce che le donne sono meri elementi decorativi del posto di lavoro. Vestirsi da donna è ignorare che le donne hanno nozioni indipendenti e differenti sul modo in cui vogliono presentarsi al mondo.

Io non sono mai stata brava a vestirmi da donna. Ho smesso di indossare abiti quando avevo 12 anni. Sono alta un metro e novanta, perciò se dovessi mettere i tacchi troneggerei sulle altre persone più di quanto già faccio. Uso cosmetici solo se proprio devo perché, per qualche ragione, non ho mai davvero imparato a farlo. E, da quando avevo 19 anni, ho cominciato a farmi fare tatuaggi sulle braccia in basso e in alto, il che è non è proprio il segno della femminilità tradizionale.

Durante i miei vent’anni ho avuto una serie di impieghi occasionali e quel che indossavo per lavorare è spaziato dai pigiami (quando lavoravo da casa) ai jeans con maglietta nera (quando ho lavorato come barista).

Verso la fine dei miei vent’anni sono entrata nei luoghi di lavoro tradizionali e ho indossato camicie a maniche lunghe e abiti che speravo trasmettessero la mia competenza e professionalità. E, sempre, mi sono sentita fuori posto perché non ero vestita – e non volevo vestirmi – come una donna nel senso che ci aspettava da me.

Alla scuola di specializzazione ho dato per scontato che, quando divenni insegnante, avrei dovuto indossare completi per lavorare, che dovevo avere l’aspetto di una laureata, di qualcuno qualificato a gestire una classe. Ho presto compreso che non c’era un aspetto standard per questo ruolo. Avevo colleghi che insegnavano con magliette sporche e jeans macchiati di pittura. Erano, come vi sarete aspettati, uomini che sapevano come la loro autorità non sarebbe stata messa in discussione comunque si vestissero. Le mie colleghe femmine, per la maggior parte più giovani e più minute, indossavano sempre bluse eleganti e giacche, perché sapevano che la loro autorità sarebbe stata messa in discussione in virtù del loro genere, della loro statura e delle loro scelte di abbigliamento.

Come donna alta, di costituzione imponente e sulla quarantina, generalmente insegno in jeans e camicie a maniche lunghe, a volte in magliette che non valgono il loro prezzo. Io indosso abiti che mi permettono di sentirmi a mio agio e sicura di me. Questo è il modo in cui scelgo di vestirmi come una donna.

Sono sempre stata consapevole che la libertà di indossare in maggioranza quel che voglio è stata influenzata, in larga parte, dalle donne che hanno lavorato prima di me – donne che attraverso la Storia si sono rifiutate di permettere che le loro ambizioni fossero limitate da idee ristrette su cosa significhi vestirsi da donna. L’abbigliamento si è trasformato mentre si trasformavano i ruoli delle donne nella società contemporanea.

A volte, vestirsi da donna significa indossare un completo giacca-pantaloni; altre volte, significa indossare una muta subacquea, o una tuta da lavoro, o un camice da laboratorio o un’uniforme di polizia. Vestirsi da donna significa indossare qualsiasi cosa una donna giudichi appropriata e necessaria per fare il proprio lavoro.

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Ci vorranno circa 10 giorni per esaminare la richiesta di asilo della 18enne saudita Rahaf Mohammed Alqunun (in immagine).

rahaf

A salvarla dal rimpatrio forzato dalla Thailandia, ove si trova attualmente, è stato il suo adamantino coraggio unito a una massiccia campagna a suo favore sui social media. Il video in cui si barrica nella stanza d’albergo a Bangkok, chiedendo fermamente la protezione dell’Alto Commissariato NU per i Rifugiati, ha fatto il giro del mondo. Sul suo account Twitter ce n’è un altro, che val la pena vedere pur se brevissimo: mostra il rappresentante saudita a Bangkok, signor Alshuaibi, mentre dice “Avrebbero dovuto portarle via il telefono, invece del passaporto”. Il traduttore al suo fianco ride servile alla squallida battuta.

Rahaf pianifica la propria fuga da quando aveva 16 anni. Suo fratello e altri membri della famiglia hanno l’abitudine di picchiarla ed è stata chiusa per sei mesi in una stanza perché si era tagliata i capelli in un modo che loro non approvavano. Se fosse costretta a tornare da loro, ha aggiunto, “mi uccideranno perché sono scappata e perché ho dichiarato il mio ateismo. Loro vogliono che preghi e che mi metta il velo, io non voglio.” In questo momento, suo padre e suo fratello sono a Bangkok. Le richieste di impiccagione per Rahaf riempiono i forum in lingua araba.

Ogni donna in Arabia Saudita è una minorenne legale quale che sia la sua età. Per tutta la vita ha un “guardiano” di sesso maschile (padre, fratello, zio o persino figlio) da cui deve ottenere una serie di permessi – lavorare, andare dal medico, affittare un appartamento, intraprendere un’attività economica, viaggiare, sposarsi, divorziare ecc. non sono decisioni che lei può prendere autonomamente. Nel 2017 le regole si sono allentate un poco per casi in cui vi siano “speciali circostanze”, ma di fatto questo sistema non ne è stato minimamente scosso.

Spesso la polizia chiede il permesso del “guardiano” per una donna che voglia sporgere denuncia, rendendo in pratica impossibile riportare la violenza domestica qualora commessa dal suddetto. Avete chiaro il quadro.

Gli uomini decidono, gli uomini pontificano, gli uomini sanno e fanno e disfano… anche sotto gli scarni articoli che la stampa italiana dedica alla vicenda: al 99,99% sono gli uomini a commentare.

C’è l’analfabeta becero:

“eroina de che? e (è, signore, è) fuggita dal paese con tanto di passaporto, diciamo che è scappata dalla famiglia x dei motivi che non conosciamo”

e l’analfabeta colto e solidale:

“Diciamo che la ignoranza e (è, perdinci) una cosa normale. (…) Il fatto è che sia la donna che l’uomo devono essere riguardati come una espressione della essenza umana senza considerazioni pregiudiziali che limitano il diritto alla scelta libera sebbene responsabile. (I beg your pardon?)

L’idea che la donna non può esercitare un livello di autorità e responsabilità uguale al (all’) uomo e (è, voce del verbo essere, terza persona singolare) regressiva, primitiva e porta ad un trattamento criminale non dissimile alla (dalla) schiavitu (l’accento, per piacere) istituzionalizzata del passato. Una donna che rischia la vita per difendere i suoi legittimi diritti e (è!!!) definitivamente eroica. (…)” Omettiamo pietosamente il resto…

Trovando difficile l’iter burocratico per essere accolta in Australia, che era la sua prima scelta, Rahaf ha chiesto asilo al Canada: sto sperando che tale nazione apra le braccia per lei. L’Italia? Be’, non è un paese per donne.

Maria G. Di Rienzo

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dirk bikkemberg men

Le immagini sparse in questo pezzo ritraggono capi di abbigliamento maschile “di moda”: sono tutti indumenti di marche famose. Si va dalla cascata di fiori al rosa pastello e al fucsia carico – e se fate una ricerca su internet troverete altre centinaia e centinaia di esempi simili.

Ogni “brand” sul mercato ha lo scopo principale di fare soldi: se putacaso indulge in cospirazioni e manovre poco pulite di qualche tipo, esse riguardano per lo più come sfruttare meglio i lavoratori, come acquisire materiali sottocosto e come aprire conti bancari protetti in isole tropicali.

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Dell’identità di genere dei propri clienti non può fregare di meno a ogni singola azienda e sarebbe comunque del tutto assurdo che si consorziassero per “confonderla” e spostare le preferenze di costoro verso abiti da donna, perdendoli nel processo: inoltre, non vi è alcuno studio / ricerca con peso scientifico a suggerire che indossando pantaloni fucsia un maschio automaticamente non sappia più di essere maschio… ma questo è ciò che dopo anni di propaganda sull’ideologia gender alimentata da un gruppo di odiatori ignoranti (fra cui preti e politici) e tenuta sotto i riflettori dai media senza alcuna attitudine critica è stato digerito a livello popolare.

joe & jo

Repubblica, 15 dicembre u.s.: “I fatti (…) risalgono al 7 dicembre. Uno dei piccoli allievi dell’asilo (…) sporca in serie, uno dopo l’altro i cambi che la mamma gli ha messo nell’armadietto e le maestre, per non lasciarlo bagnato e sporco, usano gli abiti di riserva che tengono in un armadietto di emergenza. Gli unici che gli vanno bene sono un paio di pantaloni fucsia, ma un colore vale l’altro purché sia pulito. Ed è così che lo riconsegnano a chi lo viene a prendere a fine giornata.

Passa il fine settimana e lunedì mattina la mamma si presenta in classe e consegna alle maestre una lettera: “Vi ringrazio per i pantaloni rosa e le mutandine che avete imprestato al bambino, dopo aver esaurito la scorta. Però le norme sociali non le abbiamo fatte noi. Lo preferivamo pisciato (sic), che sappiamo asciuga, a vestito da femmina e con le idee sull’identità di genere in conflitto”. “

Dunque, questa madre (e questo padre, probabilmente, dato il plurale dell’ultima frase) preferisce un figlio in condizioni di disagio e persino vergogna, a rischio di prendersi un’infreddatura o peggio, esposto al dileggio di eventuali coetanei bulletti, a un indumento color fucsia – perché esso equivale a vestirsi “da femmina”: signora, non gli hanno messo un tutù da ballerina, gli hanno messo dei pantaloni. E’ vero che il “pisciato” si asciuga (speriamo che in futuro la signora non dia ripetizioni di italiano a suo figlio), ma ci mette del tempo e intanto chi è “pisciato” comincia ad avere un odore non proprio gradevole e sta veramente male.

Ma sembra che a costei del benessere del bambino non importi granché, la cosa fondamentale è ricordare alle insegnanti che “le norme sociali non le abbiamo fatte noi”. Forse la signora pensa che discendano direttamente dal cielo o stiano scritte in qualche libro sacro e immutabile, ma si sbaglia: le norme sociali le facciamo proprio noi esseri umani, costituenti di quella stessa società che normiamo… in mille modi diversi a seconda delle epoche storiche, delle credenze vigenti, dell’influenza di religione – economia – politica eccetera eccetera. Di fatto, sul piano storico, le cambiamo di continuo. Noi, ripeto, noi. E mano a mano che vediamo le conseguenze di norme sociali violente, escludenti, discriminanti, false come una moneta di latta, abbiamo la possibilità – e io credo il dovere morale – di lavorare per cambiarle affinché causino meno dolore.

Original Penguin Swim Shorts

La vulgata rosa/femminucce e azzurro/maschietti, inoltre, non è una “norma sociale”, così come non lo sono Babbo Natale e la Fatina dei Denti. E’ una consuetudine obsoleta e sciocca, che non ha la minima ricaduta sull’identità di genere di donne e uomini. So che la signora non crederà a me, sono una diabolica femminista dopotutto, ma alle icone di stile della moda darà credito, no? Guardi tutta questa roba fucsia e abbia la cortesia di riflettere prima di sostenere che chiunque l’abbia creata o la indossi è o è diventato “finocchio”.

Maria G. Di Rienzo

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Seyran

Seyran Ateş, 55enne (in immagine) è un’avvocata femminista di origini curde nata a Istanbul in Turchia e trasferitasi con la famiglia in Germania quando era bambina.

Attualmente si muove con 16 guardie del corpo, come ha raccontato in un’intervista al giornale olandese “Trouw” l’11 maggio scorso: un tentativo di assassinio le ha lasciato una cicatrice da arma da fuoco sul retro del collo, riceve circa 3.000 e-mail di minacce al giorno e contro di lei sono stati emanati bandi da diverse “autorità” religiose islamiche. L’odio che riceve, dice, non fa altro che rafforzare la sua convinzione che l’eguaglianza di genere ha un’importanza vitale e che vale la pena lottare per essa.

Come avvocata, rappresenta da anni le donne musulmane vittime di abuso domestico e altri tipi di violenza perpetrati contro di loro da familiari e mariti, cosa per cui è stata aggredita fisicamente persino all’interno del tribunale e per cui si è guadagnata il tentato omicidio di cui sopra, ma la cosa davvero scandalosa è che l’anno scorso ha aperto una moschea a Berlino, in cui l’imam è lei stessa.

La moschea si chiama “Ibn Rushd-Goethe” (il primo è il medico, giurista, filosofo ecc. noto anche come Averroè e vissuto dal 1126 al 1198, il secondo confido sappiate chi è). Il luogo è aperto a ogni variante dell’Islam e non ha spazi separati maschili e femminili; ciò significa che sunniti, sciiti, wahabiti e quant’altro pregano insieme e che, soprattutto, pregano insieme uomini e donne, con queste ultime legittimate a dare inizio alle pratiche di devozione. I musulmani LGBT sono i benvenuti e possono sposarsi in questa moschea; ciò che non è accolto sono i burqa e i niqab – il fazzoletto da testa è ammesso ma non prescritto – perché, come ha spiegato a suo tempo Seyran Ateş a “Der Spiegel”, “noi crediamo che le facce coperte da veli non abbiano nulla a che fare con la religione, ma siano invece un’asserzione politica”.

L’avvocata ha scritto un libro sull’esperienza che sta conducendo, “Selam Frau Imamin, Wie ich in Berlin eine liberale Moschee gründete” – “Salve signora Imam, Come ho fondato una moschea liberale a Berlino”, (1) in cui chiarisce la sua lettura del Corano da una prospettiva contemporanea.

“Pregare insieme è assai liberatorio, – dice nell’intervista concessa a “Trouw” – in special modo per le donne. Molte sentono per la prima volta di essere completamente umane e provano cosa vuol dire essere rispettate come tali, invece di essere ridotte a oggetti sessuali che gli uomini possono svestire con i loro sguardi o ignorare. (…) Quel che sta accadendo nelle moschee olandesi e tedesche è che i musulmani pregano contro i principi di eguaglianza. L’ideologia che si genera all’interno della moschea ha effetto all’esterno di essa. Le moschee formano le guide morali delle comunità. A un certo punto ho capito che mentre difendevo la Costituzione nei tribunali, quella stessa Costituzione era ignorata e invalidata in ogni moschea. Non c’è luogo, in Germania dove come donna mi sento meno accolta che in una moschea. Perciò, era da là che dovevo cominciare.”

Poiché è molto critica del modo in cui la sinistra politica attualmente affronta le questioni dei diritti delle donne quando c’è di mezzo la religione, l’estrema destra – in special modo il partito Alternativa per la Germania, 12,6% alle ultime elezioni tedesche – le ha offerto la sua solidarietà; Seyran Ateş non l’ha accettata, ma il biasimo per essa è stato immediatamente posto su di lei: “Proprio come avrei voluto che Alternativa per la Germania non ci usasse per i suoi scopi, – ha risposto – sarebbe stato carino se altri partiti avessero chiesto un dialogo con noi.”

Maria G. Di Rienzo

(1) Ne ha scritti anche altri, fra cui “Islam needs a sexual revolution” nel 2009.

P.S. Vorrei un applauso: fatemelo anche silenziosamente, con i mignoli. Sono riuscita a scrivere questo pezzo, facendo delle pause per respirare in altre stanze, mentre per un’ora e un quarto il cafone del quarto piano tirava oggetti sul pavimento sopra la mia testa. Sta ancora continuando.

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girl of enghelab street

“La ragazza di Via Enghelab” (in immagine) – identificata con non assoluta certezza come la 31enne Vida Movahed – era stata arrestata lo scorso dicembre. Il 7 marzo è stata condannata a 24 mesi di prigione per “incoraggiamento alla corruzione tramite la rimozione del suo hijab in pubblico”.

Della situazione ha scritto Yasmine Mohammed per The National Post, il 7 marzo 2018, nell’articolo On Women’s Day, drop the doublethink on hijabs (especially you, cosmetic companies), qui di seguito da me tradotto. Yasmine è una scrittrice e attivista araba-canadese:

“L’8 marzo è il Giorno Internazionale delle Donne, il giorno il cui dovremmo parlare delle donne che lottano per i loro diritti in tutto il mondo. Dall’Iran all’India, ci sono alcune grandi lotte in corso.

In Arabia saudita, le donne si stanno battendo contro le arcaiche leggi del loro paese sulla “tutela”, che negano alle donne le libertà di base che in Occidente diamo per scontate, come il viaggiare all’estero, l’andare al lavoro e l’uscire di casa quando ci pare. Prive di alcuno spazio pubblico che amplifichi le loro voci, le donne saudite stanno usando i social media con l’hashtag #StopEnslavingSaudiWomen – #Smettete di schiavizzare le donne saudite.

A Jaipur, in India, le donne musulmane stanno dimostrando questa settimana contro il trattamento ingiusto che ricevono sotto le leggi della shariah che regolano il divorzio.

E la lotta più vicina al mio cuore è quella delle donne in Iran che protestano contro le leggi che rendono obbligatorio l’hijab.

In mesi recenti abbiamo visto un gruppetto di donne coraggiose togliersi i fazzoletti nelle strade iraniane come affermazione della loro identità e richiesta di libertà di espressione – un crimine in quel paese dal 1979. A queste donne dà la caccia Basij, il corpo di guardiani religiosi maschi e femmine che controlla la moralità e sopprime ogni opposizione in nome della potente Guardia rivoluzionaria islamica.

Circolano rapporti che indicano in numero di 29 le donne già arrestate; alcune sono ancora in custodia. Secondo Amnesty International, alcune di queste donne sono state accusate di “incitare alla corruzione e alla prostituzione” e potrebbero essere condannate a 10 anni di carcere. Ma questo non ha funto da deterrente per le loro sorelle. Dozzine di altre donne iraniane stanno sventolando i loro fazzoletti da testa in pubblico, riproponendo i “Mercoledì Bianchi” ogni settimana.

Come molti milioni di donne in Iran, io sono stata costretta a indossare l’hijab. Ciò è accaduto in Canada e fu la mia famiglia a costringermi, non il governo. Invece delle minacce di arresto o di “rieducazione” per l’essere vista in pubblico senza velo, la mia famiglia mi minacciò con la violenza. Mia madre disse che mi avrebbe uccisa se mi avesse vista senza hijab. La mia non è un’esperienza straordinaria. In Ontario, la famiglia di Aqsa Parvez riuscì a ucciderla perché non indossava l’hijab. In tutto il mondo le donne soffrono ostracismo sociale, sono multate, imprigionate, stuprate e uccise perché lottano contro il dover portare l’hijab.

Su di me è stato forzato a nove anni e ho dovuto scambiarlo con un niqab a 19. Mi ci sono voluti molti anni per comprendere quanto della mia identità ciò aveva strappato via. Il niqab copriva ogni centimetro di me, inclusa la mia faccia e le mie mani.

Mi derubava di ogni percezione: il senso della vista era avvolto in un fine velo nero, il senso dell’udito era smorzato da strati di stoffa, il senso dell’olfatto era limitato, i guanti mi impedivano il senso del tatto: era la mia personale cella di deprivazione sensoriale

Ho lottato per fuggire da quel mondo. Ho rischiato la mia vita e quella di mia figlia affinché fossimo libere.

Immaginate quindi la mia sorpresa nello scoprire che celebrità occidentali, compagnie commerciali e combattenti per la giustizia sociale feticizzano l’hijab. Immagino che le donne iraniane sarebbero sconvolte quanto me nel vedere l’hijab dipinto con l’aerografo nelle pubblicità e nelle riviste e messo persino addosso a Barbie. Probabilmente si sentirebbero tradite nel vedere l’hijab sul poster di una marcia per i diritti delle donne, considerato che hanno marciato contro l’hijab in Iran già nel 1979. Ora, bizzarramente, le donne nordamericane marciano per l’hijab decenni più tardi.

I sostenitori dell’hijab dichiarano che le ragazze islamiche scelgono di indossarlo perché trovano che dia loro potere. Questo è un argomento fasullo. Che qualcuno ti dica come devi vestirti è ben distante dal conferirti potere. E’ un distruttore dell’identità, come le donne in Iran ci stanno mostrando. Sia l’hijab sia il niqab derubano le donne della loro individualità. Stampano “musulmana” sulla loro fronte come se quello fosse l’unica loro caratteristica a rivestire una qualche importanza.

E’ in particolare una beffa che le ditte cosmetiche abbracciano la cultura dell’hijab. Senza percepire alcuna ironia, incorporano modelle velate in campagne pubblicitarie multimilionarie con slogan di emancipazione dietetica che dovrebbero promuovere il valore delle donne come persone.

Lasciando da parte la ritorsione molto pubblica che ne ha avuto L’Oréal, promuovendo e poi rimuovendo la modella con velo Amena Khan per le sue opinioni anti-israeliane, la strategia di marketing resta una contraddizione.

L’Oréal ci dice “Lei ne è degna”, Lancôme che “La vita è bella, vivila a modo tuo” e Revlon dice “Sii indimenticabile”. L’intera idea del coprirsi la testa fa a pugni con gli slogan individualisti. E’ ridicolo pensare che una donna la cui identità è cancellata da un sudario nero possa spruzzarsi addosso del profumo e diventare indimenticabile.

Non c’è dubbio che i pubblicitari strateghi delle ditte cosmetiche sorvolino su tali contraddizioni nello sforzo di espandere la loro quota di mercato nelle comunità musulmane che crescono nei paesi occidentali. Mi domando che slogan usino in luoghi come l’Arabia Saudita e l’Iran, dove chiedere l’empowerment per le donne è un reato.

In questo Giorno Internazionale delle Donne, le donne del Nord America dovrebbero abbandonare i doppi standard sugli hijab ed ergersi in solidarietà con le loro sorelle che lottano in tutto il mondo.”

Maria G. Di Rienzo

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fumogeni iran

Foto Associated Press, didascalia: Le squadre antisommossa usano granate fumogene contro gli/le studenti dell’Università di Teheran durante una dimostrazione nel fine settimana (ndt: 30-31 dic. 2017).

La persona ritratta è una giovane donna. Io sto con lei.

Sto con lei perché l’anno scorso la polizia del suo paese, Iran, ha annunciato che avrebbe impiegato nella capitale 7.000 (settemila) agenti maschi e femmine in borghese per controllare come le sue simili vanno vestite per strada.

Sto con lei perché il governo iraniano pretende di controllare gomiti caviglie unghie e capelli ecc. alle sue simili da quasi 39 anni (hanno cominciato nel 1979) e per tutto questo tempo le hanno umiliate, minacciate, multate, incarcerate, frustate e sfregiate – anche se il 29 dicembre scorso hanno annunciato con mooolta tolleranza che a Teheran (ma non nel resto del paese) quelle vestite “male” dovranno solo partecipare a lezioni tenute dai poliziotti, notoriamente maestri congeniti di fede, cultura, etica, diritti civili e ultimi trend della moda.

Sto con lei perché la protesta contro povertà e disoccupazione e crisi economica create dal consesso di pii uomini che dirigono il paese e si preoccupano più di finanziare gruppi islamisti stranieri che del benessere del proprio popolo è sacrosanta.

Sto con lei perché per soffocare tale protesta, che sta dilagando nell’intera nazione, hanno già ucciso almeno 21 persone, fra cui un bambino di 11 anni, e ne hanno arrestate 450 solo a Teheran.

Sto con lei perché intendono accusare i/le dimostranti di “guerra contro dio”, reato immaginario per cui è però prevista una pena di morte assai reale.

Sto con lei.

Maria G. Di Rienzo

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