Feeds:
Articoli
Commenti

Posts Tagged ‘cittadinanza’

Jung Dae Rye

La donna in immagine è Jung Dae-rye – pronuncia: giong de ri – che è stata intervistata l’11 marzo u.s. nell’ambito di un programma di intrattenimento della tv coreana. Il format prevede di solito che i conduttori girino per le strade per incontrare gente comune (a cui sottopongono quiz), ma con la crisi da coronavirus tutto ovviamente resta in studio.

Jung Dae-rye, che è un’infermiera, è apparsa in video per raccontare come stanno andando le cose a Daegu, la città attualmente più colpita dal Covid-19 in Corea del Sud. La donna ha descritto una situazione durissima: medici e paramedici fanno turni di 15-17 ore, i letti sono tutti occupati, mancano mascherine, guanti e altro materiale.

Jung Dae-rye è una volontaria. Normalmente vive e lavora a Seul, ma ha risposto alla richiesta di aiuto delle autorità locali. Le hanno chiesto perché lo ha fatto.

“E’ il mio senso del dovere: sento che, al di là delle circostanze, devo per prima cosa fare un passo avanti. Ho sempre pensato che di fronte a una crisi nazionale avrei preso l’iniziativa. Quando mi hanno domandato se sarei venuta qui non ho pensato a me stessa, ho detto di sì. A volte sono preoccupata per la mia famiglia, ma non sono ansiosa per nessun altro motivo. Spero che i pazienti guariranno in fretta e che sconfiggeremo il Covid-19. Gente da tutto il paese sta dando una mano e mandando pacchi di generi alimentari e spero che l’intera nazione attraverserà insieme questo periodo difficile.”

A questo punto conduttori e personale hanno cominciato a piangere. Non hanno saputo dire perché e Dae-rye li ha esortati a non farlo, commuovendosi un po’ ma ribadendo di non avere problemi. Poi le hanno chiesto se voleva mandare un messaggio ai suoi parenti: “Alla mia famiglia voglio dire solo che sto bene. Non c’è altro, non preoccupatevi troppo per me. Non ho niente di cui lamentarmi. I miei familiari mi mancano, ma so che se la crisi nazionale continua può diffondersi oltre frontiera. Noi infermiere siamo in prima linea, trattiamo i pazienti faccia a faccia, stiamo loro vicini e stiamo facendo del nostro meglio.”

Il motivo per cui la testimonianza di Jung Dae-rye ha suscitato il pianto non era in effetti facile da spiegare per chi si è emozionato: questa donna non è una celebrità, è una persona comune che mostra il coraggio e la resistenza e la fiducia e la capacità di vivere insieme in modo consapevole e compassionevole delle persone comuni – quando si sentono popolo, quando si giudicano umane e di valore, quando pensano di essere parte di qualcosa che è più grande di loro ma che senza la loro attiva presenza non sarebbe completo e funzionante.

L’infermiera Dae-rye e le sue simili e i suoi simili, in tutto il mondo, siamo noi. Non eroi, non “bellezza”, non speciali: veri. Versi lacrime d’amore, quando lo capisci.

Maria G. Di Rienzo

Read Full Post »

Kern

Leslie Kern (in immagine) è una docente universitaria canadese di geografia e ambiente, nonché la direttrice degli studi di genere nel suo ateneo. Il suo ultimo libro, uscito alla fine di ottobre, si chiama “Feminist City: A Field Guide” – “Città femminista: guida pratica (dal campo)”. Si tratta di una raccolta di saggi che mettono in discussione i modi in cui sono strutturati gli spazi urbani e suggeriscono alternative per rendere le città più inclusive e più sicure per tutte e tutti.

Il brano seguente è tratto da un’intervista a Kern condotta da Lana Pesch per “LiisBeth”:

“Ogni ambiente edificato che le società creano, come le città, riflette le relazioni di potere che nelle società esistono e penso noi si sappia chi tradizionalmente o comunque per lunghissimo tempo ha detenuto il potere. Stiamo parlando di uomini abbienti, proprietari, non disabili, eterosessuali e bianchi. Forse non dovrebbe essere una sorpresa che i nostri spazi urbani siano davvero organizzati per sostenere il loro successo, il loro potere, le loro quotidiane necessità.

Per far evolvere qualcosa come una città femminista, o i suoi principi, devi proprio avere un bel po’ di pressione sociale, che essa prenda la forma dell’attivismo o di cambiamenti legali, o di altre forme di movimenti sociali, o solo di una più ampia entrata delle donne nelle posizioni di potere nelle città e nei governi, nell’ordinamento legislativo, nell’architettura, nella progettazione urbana e cose del genere. E’ una sorta di lento processo.

Le idee femministe per la progettazione urbana e per l’organizzazione degli spazi domestici esistono da lungo tempo e possono essere fatte risalire al 19° secolo. Le donne, in particolare quelle che venivano dai movimenti sociali e simili, stavano riflettendo sui modi in cui l’ambiente edificato era costruito e in molti modi era costruito per isolarle, per tenerle occupate con il lavoro domestico non retribuito, per impedire loro di condividerlo con altre abitazioni, per tenerle fuori dalle sfere che erano specificatamente disegnate per gli uomini, la sfera pubblica, la politica, l’istruzione, la scienza e così via.

Non è una cosa nuova di zecca pensare a come le città, i vicinati, le comunità possano avere un’organizzazione che sostenga altri tipi di idee sociali, incluse quelle femministe. E’ interessante guardare indietro nel tempo e notare come le donne tirassero fuori le loro proprie idee su come i quartieri potevano essere ristrutturati per rimodellare le abitazioni e rimodellare il lavoro delle donne e far loro guadagnare tempo.

Vienna è un interessante esempio di città dove quel che chiamano “gender mainstreaming” è stato davvero messo in pratica. L’idea che ci sta dietro è che ogni tipo di politica o pianificazione cittadina, o nuovo piano di spazi edificati, si tratti di parchi o quartieri o linee di trasporto pubblico, deve essere guardato attraverso lenti di genere. Significa chiedersi “Questo potrebbe avere impatto differente su donne e uomini?”, “Aumenterà l’eguaglianza di genere o la farà diminuire?”.

Con lo scopo dichiarato di aumentare l’eguaglianza di genere, città come Vienna si sono assicurate che tutte le loro ristrutturazioni e i nuovi piani di progettazione urbana sostenessero tale visione. Ciò ha significato per esempio più trasporto pubblico, miglior accesso ai servizi per l’infanzia e ad ulteriori servizi sociali che si integrano meglio con gli ambienti domestici e tutto questo genere di cose.

Una città femminista, per me, dev’essere una città in cui le istanze relative alla sicurezza e alla libertà dalla paura sono prioritarie. Ci sono alcuni tipi di cambiamenti all’ambiente fisico che possono facilitare ciò, ma dev’esserci anche un più vasto impegno sociale per l’eguaglianza e la nonviolenza. Una città femminista dev’essere un luogo in cui lo spazio pubblico è in generale sicuro e accessibile, non solo per le donne, ma per le persone di colore, i senzatetto, le persone lgbt, le persone disabili. Uno spazio pubblico in cui chiunque si sente benvenuto e chiunque ha la sensazione di dare un contributo alla città con la sua presenza.

Sino ad ora, in termini di vita pubblica, abbiamo perso moltissimi contributi dalle donne e da altre persone marginalizzate. I loro contributi alla politica, all’istruzione, alla cultura, all’arte, alla scienza, agli affari. Se continuiamo a costruire ambienti che sono inaccessibili sia fisicamente sia socialmente, o che sono respingenti, o che semplicemente rendono la vita quotidiana delle persone intrisa di paura o davvero difficile, allora quelle persone non ci saranno in tali spazi quando avremo bisogno che ci siano.

Le crisi climatiche sono già qui e sono crisi di diseguaglianza. E le città saranno in prima linea a dover maneggiare tali crisi. Le città non sopravviveranno ne’ prospereranno se non trovano soluzioni per affrontare questi problemi e per affrontare i modi in cui le istanze sono interconnesse. Sappiamo che il futuro è un po’ fragile, ora, e se continuiamo a fare le stesse cose che abbiamo sempre fatto ciò non creerà un futuro luminoso per nessuno.”

Maria G. Di Rienzo

Read Full Post »

hana lee

Questa è Hana Lee, ventenne, studente e atleta – golfista per la National Collegiate Athletic Association – ma soprattutto attivista per la giustizia sociale, in bicicletta e non. Hana è una dei “dream riders” (ciclisti sognatori, o ciclisti del sogno – godreamriders.org ) che periodicamente percorrono in lungo e in largo gli Stati Uniti in lunghissimi viaggi di protesta: l’ultimo si è dato nell’anno in corso e si chiamava “Cittadinanza per tutti: Viaggio verso la Giustizia”.

Il 24 agosto scorso la giovane è stata intervistata da Angry Asian Man – da cui viene il particolare della sua immagine in bicicletta – e di seguito potete leggere alcune delle cose che ha detto.

“Io sono Hana, “l’unica”, se traduci il mio nome dal coreano. Sono un’orgogliosa coreana-americana, la figlia di due genitori immigrati che lavorano duramente e che sono venuti negli Usa affinché le loro figlie potessero sognare più in grande e avere più opportunità. E sono una dei principali ciclisti sognatori che chiedono cittadinanza per tutti gli 11 milioni di migranti non documentati e per i 35.000 adottati da altri paesi e privi di cittadinanza. Non voglio più vivere nella paura e voglio fare tutto quel che posso per la mia comunità di migranti.

Nessun essere umano merita di essere inferiore agli altri e i miei genitori non meritano nulla di meno di me. Non ci sono “buoni” immigrati e “cattivi” immigrati, e io voglio impegnarmi con tutto quel che ho nella lotta contro le politiche anti-immigrazione e le leggi che hanno impatto sulla mia comunità. Sono così concentrata su questo perché credo che nessun essere umano sia illegale. Sono anche concentrata nel lavorare con gli adolescenti che fanno parte della gioventù a rischio, di modo che possano conoscere le loro potenzialità e vivere pienamente le loro vite.

Mi fa arrabbiare l’attuale clima politico sta dividendo la mia comunità e questo paese, le separazioni delle famiglie come risultato di politiche e leggi discriminatorie, i bambini che soffrono del trauma della separazione e i miei amici e i membri della mia comunità che vivono nel timore della deportazione. Molte persone stanno dimenticando che siamo tutti esseri umani e agiscono come fossero migliori o superiori agli altri.

Mi incazzo anche ogni volta in cui penso all’ipocrisia di gente che arriva a decidere chi merita di stare in questo paese che pensano appartenga a loro, mentre coloni e colonizzatori hanno rubato questa terra ai popoli indigeni, uccidendoli nel processo. E vedere adolescenti e studenti a cui non sono garantite nemmeno le necessità di base, come l’istruzione, la casa, le cure mediche, mi rende furiosa al massimo.

Mi fa male vedere gli Stati “Uniti” d’America andare lentamente verso la divisione e la separazione. Prego per il giorno in cui non avrò bisogno di vivere nella paura per me stessa, per la mia famiglia e la mia comunità. Ma sino a che quel giorno non arriva, continuerò a lottare e ad essere arrabbiata.”

Maria G. Di Rienzo

Read Full Post »

Io non sono un cliente, un consumatore, ne’ un fruitore di servizi.

Non sono un lavativo, un approfittatore, un mendicante, ne’ un ladro.

Non sono un numero della previdenza sociale, ne’ una lucetta su uno schermo.

Ho pagato le mie quote, mai un centesimo di meno, e sono fiero di averlo fatto. Non faccio inchini ma guardo il mio vicino negli occhi. Io non accetto o vado in cerca di elemosina.

Il mio nome è Daniel Blake, sono un uomo, non un cane, e come tale chiedo i miei diritti. Io domando di essere da voi trattato con rispetto.

Io, Daniel Blake, sono un cittadino, niente di più e niente di meno.

manifesto-palma-doro

(So di essere in enorme ritardo, che in molte/i siete già andate/i al cinema e avete letto e scritto le recensioni eccetera, eccetera. Ma è dal 25 ottobre, quando ho visto il film “I, Daniel Blake” di Ken Loach – Palma d’Oro a Cannes – che avevo voglia di farlo perché questa lettera del protagonista, la sua ultima dichiarazione, che viene letta al suo funerale, esprime esattamente come mi sento. Non la dimenticherò mai. Maria G. Di Rienzo.)

Read Full Post »

(“Algeria – Citizen Barakat Movement for Democracy”, intervista a Amira Bouraoui, co-fondatrice del movimento Barakat (Basta), di Karima Bennoune per Open Democracy, 2 aprile 2014, trad. Maria G. Di Rienzo)

amira bouraoui

Karima Bennoune (KB): Puoi spiegare gli scopi del movimento Barakat e la storia recente che gli ha dato forma?
Amira Bouraoui (AB): Lo scopo del movimento Barakat è stabilire la democrazia in Algeria. Per troppo tempo il popolo algerino è stato soggetto alle leggi di un regime che non applica le regole della democrazia. In effetti, l’Algeria ha attraversato tempi molto difficili. Ci fu già una sorta di movimento Barakat nel 1988 quando, motivata dall’ingiustizia sociale, la gioventù scese in strada per esprimersi. Successivamente, poiché le persone non potevano esprimere se stesse, parte della società cercò rifugio fra le braccia di dio. Alcuni si unirono ad un partito politico (il Fronte di salvezza islamico, FSI) che tentò di monopolizzare la religione. Ma, ciò che appartiene a tutti – perché la maggioranza degli algerini sono musulmani – non può appartenere ad un partito politico. Nel frattempo, il partito al governo (Fronte di liberazione nazionale, FLN) tentò di monopolizzare la storia algerina. Anche la storia appartiene a tutti, e non può essere di proprietà di un singolo partito politico. Quel che vogliamo oggi è una democrazia che ci ripari dai rischi di tutti questi eccessi.
KB: Che cosa, negli atti del Presidente Bouteflika, ha ispirato la vostra protesta?
AB: Il signor Abdelaziz Bouteflika andò al potere nel 1999 – 15 anni fa. La Costituzione algerina era stata emendata alcuni anni prima, e uno dei risultati fu che il suo Art. 74 limitava i mandati presidenziali a due. Nel 2008, Bouteflika aumentò i salari dei legislatori. In tal modo influenzò i deputati a violare la Costituzione emendandola senza referendum, senza che le opinioni del popolo fossero espresse, e così fu “rubato” il terzo mandato.
Eravamo molto affezionati, per così dire, all’Art. 74, perché anche se Bouteflika era stato “eletto” in condizioni non molto trasparenti, la gente diceva: “Resterà solo due mandati, e poi se andrà.” Quando un Presidente ha limiti di mandato – come in molti paesi democratici – sa che dovrà andarsene, un giorno, e sa che un giorno dovrà dare un resoconto di quel che ha fatto. Quando sai che dovrai rispondere delle tue azioni lavori intensamente e cerchi di non fare errori. Ma quando decidi che resterai al potere sino alla morte, come un dittatore o un monarca, puoi fare quel che ti pare. Pensi che la Repubblica appartenga a te, e non è proprio il caso.
Se andiamo indietro al discorso del Presidente Bouteflika nel maggio 2012, lui dice “la mia generazione è finita”. Dice che un uomo deve conoscere i propri limiti. Lo dice in arabo. Ci sentimmo rassicurati, nel maggio 2012, quando disse “dobbiamo passare la fiaccola – una fiaccola preferibilmente accesa e non spenta”. Nonostante il terzo mandato di straforo, pensammo che avremmo avuto finalmente delle elezioni e che esse avrebbero riportato speranza.
Ogni generazione ha bisogno di speranza. Un Presidente che resta al potere per più di dieci anni, per più di due mandati, vede passare una transizione generazionale. E la nuova generazione non è più connessa a un Presidente che resta così a lungo in carica. Nondimeno, quest’anno abbiamo visto politici chiedere al Presidente di presentarsi per un quarto mandato, anche se è molto malato, è stato al potere per 15 anni, la Costituzione è stata violata e non lo vediamo apparire in pubblico da due anni. Da due anni non fa neppure un discorso. Fisicamente e mentalmente, non è nelle condizioni di governare. Perciò, abbiamo deciso con gli amici attivisti di scendere in strada e dire “No”, “Basta”. Non ci aspettavamo la popolarità che Barakat ha rapidamente guadagnato: il movimento è stato creato il 1° di marzo.
KB: Cosa rende un quarto mandato così inaccettabile?
AB: Prima che la candidatura del Presidente Bouteflika fosse annunciata, moltissimi algerini – nelle università, nei caffè, negli uffici, negli ospedali – dicevano: “No, non oserà tentare un quarto mandato.” E’ improponibile. Il quarto mandato è semplicemente il simbolo di un regime e di un sistema arcaici. Questo regime e questo sistema disprezzano il popolo, lo giudicano immaturo. Pensano che la gente sia stupida. Ma non capiscono che le persone sono così consapevoli della situazione che hanno smesso di votare. Non hanno il diritto a una scelta vera.
Noi stiamo testimoniando una mascherata elettorale, un processo mirato ad imporre Abdelaziz Bouteflika per il quarto mandato. Invece, noi chiediamo che il popolo sia davvero consultato sulla scelta del leader.
KB: La minaccia dell’instabilità è spesso usata per ridurre al silenzio le proteste in Algeria, dati i terribili eventi della decade degli anni ’90. Come rispondi a questo argomento?
AB: La nostra rabbia, il nostro rigetto, hanno avuto inizio quando il Presidente Bouteflika ha violato la Costituzione. All’epoca, scrivemmo e firmammo petizioni. Tentammo di protestare, anche se eravamo appena usciti dal decennio dell’orrore.
I cittadini algerini avevano paura: paura di destabilizzare il paese, paura di cadere di nuovo in un ciclo che ci aveva ferito così tanto in passato. Ma abbiamo scoperto che questa “stabilità sotto ricatto” che il regime ora ci offre, dicendoci di chiudere il becco perché altrimenti destabilizziamo l’Algeria, è inaccettabile. Non giocheremo a questo gioco. E’ come se ci dicessero: “Lasciateci governare il paese in maniera non trasparente. Fate quel che vogliamo noi. E, in cambio, potete avere stabilità”. Noi pensiamo che a destabilizzare effettivamente Tunisia, Libia e Siria, e i paesi della “Primavera Araba”, siano stati proprio i dittatori che non sapevano quando era il momento di andarsene.
KB: Qual è la vostra strategia da oggi alle elezioni del 17 aprile prossimo? E, forse ancora più importante, quale sarà la vostra strategia dopo le elezioni?
AB: Da oggi al 17 aprile continueremo ad organizzare azioni per fare pressione su un regime sordo, e tenteremo di fargli ascoltare qualche ragione. Il regime tenta di giustificare ciò che è ingiustificabile. Difende l’indifendibile. Chi è al potere deve capire che sta correndo diritto verso un muro. Dopo il 17, continueremo a lottare, e continueremo ad essere presenti sul territorio, per rigettare questo presidente illegittimamente eletto. La maggioranza degli algerini non hanno una tessera di voto, non l’hanno mai avuta, e non hanno in programma di votare perché il risultato è già deciso.

Basta bugie - Amira sit in Algeri 24 marzo 2014

KB: Il movimento Barakat ha detto più volte che è un movimento composto da cittadini, che è un movimento politico ma non fa riferimento ai partiti. Cosa significa esattamente?
AB: Siamo un movimento composto da cittadini algerini che non erano già tutti attivisti politici. Lavoriamo per la democrazia e l’acquisizione di cittadinanza. Se non hai scelto il tuo Presidente non sei più di un progetto pilota come cittadino. Non sei un cittadino effettivo.
Direi che al momento Barakat è “supra-politico”, perché per permettere ai partiti politici di prendere parte alla democrazia devi avere regole del gioco chiare, trasparenti e rispettate. Il movimento dei cittadini aspira a creare tali regole. Non siamo un partito e non vogliamo diventarlo.
KB: Tu ricevuto un grande sostegno (penso ai 3.000 “like” sulla tua pagina FB in un mese) ma sei anche stata aspramente criticata in quello che sembra un modo organizzato. Come mai è accaduto questo, quando il movimento è così giovane?
AB: Il governo non si aspettava una società civile così vigile. Pensavano: “Abbiamo avuto il terzo mandato, perciò adesso avremo il quarto e tutti staranno zitti”. Pensavano che in qualche modo fossimo morti, ma eravamo solo convalescenti. Stavamo imparando di nuovo a camminare, e presto saremo capaci di correre, e perciò di proteggere la Repubblica e la democrazia.
Il governo ha usato ogni tipo di propaganda per danneggiare la reputazione del nostro movimento. Hanno inventato così tante bugie, e ci hanno chiamati con tutti i nomi possibili, solo perché aspiriamo ad essere davvero cittadini e a difendere la democrazia. Ma non ci fermeremo. Loro hanno la capacità di infliggere danni con la propaganda perché hanno televisione e giornali a disposizione. Stanno tentando di alienarci l’opinione pubblica. Hanno detto che siamo gli “attrezzi degli stranieri”, che siamo sionisti. Hanno detto allo stesso tempo che siamo sostenitori del FSI e che siamo “sradicatori” (termine denigratorio per gli oppositori dei fondamentalismi) – tutto fa brodo per dare di noi una cattiva immagine. Ad ogni modo, terremo duro.
KB: Barakat è principalmente un movimento algerino che parla ad un pubblico algerino, ma avete un messaggio per la comunità internazionale?
AB: Siamo per la libertà di ogni popolazione e vorremmo che l’Algeria lavorasse con altri paesi, occidentali e no. Ma, vorremmo questo in un contesto in cui entrambi si vince, non in una situazione in cui dev’esserci un perdente.
Abbiamo sentore, ora, che il governo tenti di comprare il silenzio della comunità internazionale aprendo le valvole del petrolio. A noi piacerebbe che la libertà di un popolo non avesse il cartellino del prezzo. L’Algeria non è sola al mondo, aspira al lavoro con altri, ma questo deve andare a beneficio di tutti. E non vogliamo che alla nostra gioventù non resti altro sogno che un visto d’ingresso per fuggire in qualche El Dorado – paesi che spesso attualmente sono anche loro in crisi economica. Vogliamo giustizia e democrazia, e non c’è altro che possa portare alla pace fra i popoli.
KB: Come è stato il primo mese di Barakat per te, che sei una delle rappresentanti più visibili del movimento?
AB: Ho dovuto prendere 15 giorni di ferie al lavoro (sono una medica) perché sono stata malmenata durante i miei primi arresti. E’ stato duro per me perché ho avuto un’operazione chirurgica alla schiena, in passato. Torno al lavoro domani. Amo il mio lavoro.
Io penso che gli esseri umani non siano nati semplicemente per mangiare e dormire. Siamo nati per sognare la libertà, per rendere reali i nostri sogni, per difendere le nostre idee, per pensare. In Algeria vogliono impedirci di pensare e di esprimerci.
Per questo, io sono stata arrestata cinque volte. Sono stata arrestata anche nel 2011, e prima ancora, perché non è la prima volta che sono attiva contro questo governo. Non mi piace l’ingiustizia. Mi fa provare dolore, chiunque ne sia vittima. Immagino che sia un tratto del mio carattere.
Come vivo quel che sta accadendo? Non mi aspettavo tutta questa attenzione da parte dei media. In genere preferisco essere discreta, per cui è stato davvero difficile. Mi sono sentita sotto pressione, e anche i membri della mia famiglia sono stati sotto pressione.
Ma, se la la mia voce e la mia immagine aiutano la causa, allora ne vale la pena.

Read Full Post »

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: