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(“Meet Milia Eidmouni, Syria” – Nobel Women’s Initiative, 26 novembre 2016, trad. Maria G. Di Rienzo.)

milia

Milia Eidmouni è una giornalista freelance che ha lasciato Damasco per la Giordania a causa di pressioni politiche. Assieme alla collega Rula Asad ha fondato la Rete delle giornaliste siriane. Il lavoro di Milia promuove una migliore comprensione del ruolo delle donne siriane nella sollevazione e rompe gli stereotipi che circondano le donne giornaliste nella regione.

Com’è essere una giornalista in Siria?

Nessuno ti protegge. Non c’è protezione o sicurezza per i cittadini giornalisti che stanno scrivendo della guerra. Come donna giornalista non puoi andare sui fronti perché ti dicono: “Ah, sei una donna, vai con uomo così ti protegge.”

Come si collega il tuo lavoro di giornalista al promuovere giustizia in Siria?

Sto facendo del mio meglio per promuovere la giustizia addestrando altri reporter. In Siria, pochi giornalisti sono istruiti su come scrivere delle istanze delle donne. Dare visibilità alle storie taciute è come noi contribuiamo alla giustizia.

Puoi dirci di più della Rete delle giornaliste siriane?

La Rete ha tre scopi: migliorare le capacità nello scrivere di giustizia di genere e diritti delle donne; suscitare consapevolezza nell’opinione pubblica tramite campagne e creare un codice di condotta professionale per rompere gli stereotipi sulle donne nei media.

Cosa manca dalla conversazione sulle donne siriane?

I media stranieri tentano di ritrarre le donne siriane come unidimensionali: lei è una vittima, la madre di un detenuto, la moglie di un prigioniero, un ostaggio in un paese ostile che attende aiuto umanitario. Ma sin dal Primo Giorno, le donne sono state parte della sollevazione. Sono scese in strada, hanno lavorato negli ospedali da campo, hanno creato centri comunitari per sostenersi l’una con l’altra nelle loro comunità locali. Le rifugiate stanno pure rompendo stereotipi e cambiando l’immagine delle donne siriane. Nessuno parla delle difficoltà che affrontano (in Giordania) dopo quattro o cinque anni da rifugiate.

In che modo il giornalismo dei cittadini sta dando forma al mondo in cui il mondo vede il conflitto in Siria?

Durante la rivoluzione, moltissimi cittadini in Siria hanno scritto e pubblicato online quel che stavano testimoniando. Ogni cittadino può contribuire alla giustizia tramite la documentazione, scrivendo le proprie testimonianze, promuovendo pace e giustizia nella propria comunità. I media giocano un grosso ruolo: possono cambiare mentalità e attitudini nelle comunità.

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(di Nagla Seed Ahmed. “citizen journalist” sudanese, 14.1.2011. L’autrice usa la sua videocamera per esporre gli abusi dei diritti umani in Sudan. Arrestata durante le dimostrazioni anti-fustigazione del dicembre scorso, Nagla Seed Ahmed è riuscita a produrre un video della sua carcerazione assieme ad altre 49 dimostranti imprigionate. Trad. Maria G. Di Rienzo.)

La prima volta in cui guardai il video, che cominciò a circolare in dicembre, di una giovane donna sudanese impietosamente fustigata in pubblico, potevo sentire come la frusta stava tagliando la sua carne. Vedere la scena ha riportato in superficie i ricordi della mia stessa dolorosa esperienza.

Dieci anni fa, sono stata frustata per aver partecipato ad una manifestazione di protesta. Era il mio compleanno, un momento in cui avrei dovuto essere gioiosa e inondata di regali. Invece fui punita perché avevo rifiutato di rimanere in silenzio mentre gli studenti delle scuole superiori erano inviati nelle zone di guerra del Sudan del sud, a perdere le loro vite per un’ideologia con cui non avevano niente a che fare. Non dimenticherò mai il suono che la frusta produceva mentre scendeva a colpirmi la schiena.

Quando vidi la medesima brutalità scatenata contro un’altra donna, seppi che dovevo agire. Il 14 dicembre 2010 mi unii ad altre 150 attiviste ed attivisti durante una protesta pacifica a Khartoum. Sebbene ci picchiassero ed arrestassero 50 di noi, restammo saldi. Prima di essere trascinato via dalle forze di sicurezza, un uomo gridò: “Umiliare una donna è umiliare l’intera nazione.” E questa è la ragione per cui ci trovavamo tutti là.

Le donne sono state soggette alla fustigazione prevista dal codice penale sudanese sin dal 1991. Nel 2008, il capo della polizia riportò che 43.000 donne erano state fustigate solo quell’anno. Non è mai stato chiarito di quale crimine fosse accusata la donna del video di YouTube, ma i poliziotti che si vedono nel filmato fanno riferimento ad una legge sull’ordine pubblico che concerne la prostituzione. Io credo che il governo del Sudan abbia in mente di riportare le donne all’era dell’harem. Le donne del mio paese a volte vengono battute perché protestano contro il regime, e a volte diventano bersagli perché indossano abiti “provocanti”. Nel 2009, il mondo notò la vicenda della giornalista Lubna Hussein: arrestata, accusata di “indecenza” e minacciata da una sentenza di quaranta frustate perché indossava pantaloni.

La fustigazione è un abuso dei diritti umani ed una violazione diretta dell’Articolo 5 della “Carta africana dei diritti umani e dei diritti dei popoli”, un documento che protegge gli individui da “tutte le forme di sfruttamento e degrado” e nello specifico proibisce “la tortura e le punizioni crudeli, disumane o degradanti.” Ma il regime lo ignora. Frustare qualcuno ferisce la vittima anche psicologicamente. In Sudan è difficile per una vittima parlare delle proprie esperienze, perché spesso la sua stessa comunità la isola, marchiandola come “indecente”. Lei e la sua famiglia possono dover sopportare lo stigma per il resto delle loro vite. Nonostante io abbia una famiglia che mi sostiene, ed un marito che ha pagato la mia multa affinché non dovessi restare in prigione, è ancora difficoltoso per me parlarne. Questo è il motivo per cui la maggioranza delle vittime resta in silenzio.

Già da tempo, però, io ho fatto la scelta di non restare zitta. Come cittadina giornalista ho ormai prodotto più di 2.000 video che mettono in luce le ingiustizie della società in cui vivo, ed in special modo le brutalità dirette contro le donne. Sebbene questo faccia di me un bersaglio, non esco mai di casa senza la videocamera. Nel 2009, mi sono unita al gruppo “Iniziativa delle donne contro la violenza”, che era formato da attivisti che seguivano la vicenda di Lubna Hussein. Ho contribuito a svelare le storie simili a quella di Lubna, fra cui quella di Silva Kashif, una minorenne che ha ricevuto 50 frustate per aver indossato una gonna giudicata “provocante” dalle autorità.

Come risultato della pressione internazionale, la fustigazione di Lubna è stata commutata in una multa. Quando ella rifiutò di pagare, l’Unione sudanese dei giornalisti ha pagato per lei ed ha assicurato il suo rilascio. La storia di Lubna Hussein ha gettato un sasso in uno stagno altrimenti fermo: il suo coraggio di fronte all’ingiustizia continua a produrre onde. Ha ribaltato la questione sul comportamento delle autorità ed ha portato l’attenzione internazionale sulla situazione delle donne in Sudan.

Mentre mi avvicinavo al luogo designato per la manifestazione, il 14 dicembre scorso, sentivo che la cosa aveva il significato di un momento storico per le donne sudanesi. Decisi che avrei resistito sino alla fine e documentato quel momento con ogni mezzo. Sapevo quel che ci aspettava. Immediatamente dopo l’apparizione del video della fustigazione, l’“Iniziativa delle donne contro la violenza” aveva chiesto un incontro con i partiti politici, i rappresentanti nelle istituzioni, la società civile ed i gruppi di donne per pianificare l’azione. Ajras al-Hurriya, un quotidiano stampato in arabo, aveva acconsentito ad ospitare l’incontro, ma ritirò la sua disponibilità a causa delle pressioni subite. Abdel-Basit Merghani, direttore del “Centro Al-Fanar”, un’organizzazione volontaria pro diritti umani con sede a Khartoum, ospitò diversi incontri, ma dopo due giorni di interrogatorio da parte del NISS (Servizi nazionali di sicurezza e controspionaggio) fu arrestato, ed alla sua famiglia fu impedito di fargli visita. Mentre scrivo, il sig. Abdel-Basit Merghani è ancora prigioniero.

Quando arrivammo al luogo della manifestazione c’era già un forte presenza delle forze di sicurezza. C’erano agenti in uniforme blu e agenti in borghese, tutti armati con vari tipi di bastoni e manganelli. Ci ordinarono subito di andar via, ma noi spiegammo che ci eravamo riuniti pacificamente per poter consegnare un memorandum al Ministro della giustizia. Gli agenti del NISS permisero a due sole donne di andare a consegnare il documento, così il resto di noi rimase ad attenderle. Quando gli agenti tentarono di disperderci gridammo “Donne, state giù!”, così sedemmo tutte e rifiutammo di andarcene. Vidi un agente intimare ad una donna anziana di andarsene. Quando lei rifiutò, la trascinò con violenza sino ad un furgone aperto e la lanciò all’interno, ignorando le sue grida. Poi il personale della sicurezza e la polizia ci attaccarono insieme. La prima ad essere portata via fu Ustaza Aziza al- Zaibaq, la leader dell’Unione delle donne sudanesi. Come se volessero vendicarsi del ruolo da pioniera che quest’organizzazione ha giocato nell’emancipare le donne del Sudan, Aziza fu gettata nel furgone aperto come un animale macellato. Ogni donna presente è stata picchiata e insultata.

Le forze di sicurezza hanno impedito ai corrispondenti dell’agenzia di stampa Reuters di avvicinarsi, ed ho visto con i miei occhi il momento in cui hanno preso a pugni un corrispondente della BBC, gettandolo a terra, mentre tentava di fare un servizio sulla situazione. Sequestrarono il suo equipaggiamento e cancellarono tutto quel che aveva filmato prima di restituirglielo. Anche la mia videocamera fu confiscata. Io ero fra le 46 donne e i 4 uomini che furono arrestati e costretti a salire nei furgoni del NISS. Per tutta la strada sino al dipartimento di polizia cantammo inni nazionali e gridammo slogan contro le leggi ingiuste e l’umiliazione. Continuammo a far questo per tutte le cinque ore del nostro fermo. Ci furono comunicate le accuse a nostro carico: disturbo della quiete pubblica, assembramento illegale, minacce alla sicurezza ed al benessere pubblico. Poi fummo rilasciati dietro cauzione.

Durante gli interrogatori, gli investigatori cercarono di imporci il concetto di tribalismo e di classificarci in accordo ad identità culturali ed etniche. Ad ognuno di noi hanno chiesto il nome della tribù di appartenenza. All’unanimità abbiamo rifiutato di rispondere alla domanda, insistendo sul fatto che siamo sudanesi. Abbiamo anche rifiutato di firmare un impegno a non partecipare a qualsiasi protesta futura contro il partito di governo. Da parte mia, ho detto all’investigatore che avrei continuato a dimostrare contro le leggi sull’ordine pubblico che umiliano le donne, che avrei continuato a protestare contro l’attuale governo, e che non mi sarei risparmiata alcuno sforzo per far sì che la mia voce venisse udita: persino se questo avesse dovuto costarmi la vita.

A causa delle mie attività ora sono un bersaglio per le autorità. Oggi le mie azioni sono ampiamente monitorate e ci sono stati numerosi tentativi di intimidirmi affinché io resti in silenzio. Di recente ci sono state due irruzioni in casa mia, nel mezzo della notte, ed ogni volta gli intrusi hanno rubato il mio laptop e le videocamere. Temendo per la sicurezza della mia famiglia mi sono trasferita. Sono preoccupata che non appena il Sudan del sud dichiarerà la sua indipendenza dal mio paese, il regime peggiorerà ulteriormente le leggi “islamiche” ed io avrò ancora maggiori motivi per aver paura. E’ solo grazie al sostegno della mia famiglia che sono in grado di continuare il mio lavoro. I miei amati genitori hanno sempre messo me e le mie quattro sorelle sullo stesso piano dei nostri fratelli. Ho anche un marito meraviglioso e quattro bambini miei.

Vengo da una famiglia che conta molte donne, e desidero ardentemente vedere tutte le donne, incluse le mie figlie, vivere e crescere in un ambiente sano. Le donne meritano il rispetto della loro umanità senza che genere, tribù o etnia facciano differenza. Seguendo la mia visione, non ho mancato e non mancherò a nessuna manifestazione di protesta, anche se verrò imprigionata, multata e frustata. C’è una sola cosa che temo veramente: che i miei figli debbano crescere in un’atmosfera che sopprime le loro voci e amplifica la diseguaglianza di genere fra loro.

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