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I rischi che fronteggiano hanno molte forme, incluse le molestie, le campagne diffamatorie e la violenza fisica – non solo contro di loro, ma spesso anche contro le loro famiglie. Sperimentano l’esaurimento a causa del loro impegno e il ruolo vitale che giocano è sovente non visibile all’opinione pubblica. Pure, rifiutano di smettere di lottare perché credono che i nostri diritti umani dovrebbero essere protetti e rispettati.”

Chi sono? Sono le difensore dei diritti umani delle donne e così sono presentate nella campagna organizzata da Global Fund for Women, JASS (Just Associates), e MADRE:

https://www.globalfundforwomen.org/defendher/

Mentre crescono estremismo politico e restrizioni dirette ai gruppi della società civile, le difensore si trovano davanti attacchi sistematici che hanno lo scopo di ridurle al silenzio. – continua la presentazione – Dozzine di esse sono state uccise o imprigionate per aver parlato di sesso, per aver difeso i fiumi, per aver portato alla luce la corruzione. Tramite la campagna DefendHer stiamo rendendo visibili il loro ruolo e i rischi da esse affrontati nella speranza che ottengano sostegno e che si rispettino la loro sicurezza e le loro voci. Questa campagna presenta le storie di 14 incredibili difensore dei diritti umani e dei gruppi in tutto il mondo che, nonostante minacce e rappresaglie stanno lavorando per: mettere fine alla violenza contro le donne; far avanzare i diritti delle persone LGBTI; proteggere il pianeta e i diritti delle comunità indigene e molto altro.”

defendher

(Illustrazione originale per la campagna dell’artista femminista María María Acha-Kutscher, https://lunanuvola.wordpress.com/2015/07/03/mujeres )

Poiché l’appello dice chiaramente “diffondete le loro storie, passate parola e accendete conversazioni sul loro lavoro”, ma tradurre tutti i pezzi mi costringerebbe a comprare occhiali nuovi, eccovi un sommario su chi sono queste donne:

Marta Alicia Alanis, lavora in Argentina, fa parte dei Cattolici argentini per l’autodeterminazione e della Campagna nazionale per il diritto all’aborto legale, sicuro e gratuito.

Nelle sue parole: “Le donne dovrebbero poter scegliere di diventare madri. Non dovrebbe essere un’imposizione dovuta alla mancanza di accesso a educazione sessuale o contraccettivi, o al destino, o alla semplice sfortuna.”

Alia Almirchaoui, dell’Organizzazione per la libertà delle donne in Iraq (di cui ho parlato spesso). E’ un’irachena di colore sopravvissuta alla violenza e dalla violenza sta difendendo le sue simili. Nelle sue parole: “Nessuna persona è migliore di un’altra. Io sono qui per difendere la diversità all’interno della società.”

Khadrah Al Sana, dell’organizzazione israeliana Sidreh, che difende la sicurezza delle donne beduine. Nelle sue parole: “Le donne devono vivere in dignità e non devono essere separate dalla società in cui vivono: ognuno ha un ruolo importante nella vita e le donne dovrebbero poter dare e ricevere benefici in questo mondo.”

Bai Bibyaon Ligkayan Bigkay, filippina del gruppo etnico Lumad, lavora nelle associazioni indigene femminili e miste (Sabokahan, Pasaka, Bai). Sta difendendo i territori nel raggio del monte Pantaron e chiedendo il ritiro dei gruppi militari e paramilitari.

Nelle sue parole: “Voglio che le giovani generazioni abbiamo una vita migliore di quella che ho fatto io, voglio che godano i frutti dei nostri sacrifici. Il solo ostacolo che la mia età (70 anni) mi pone è qualche limitazione fisica, ma il mio spirito di lotta ha un’energia altissima.”

Azra Causevic, dell’associazione Okvir per i diritti delle persone omosessuali, bisessuali, transgender ecc. di Bosnia ed Erzegovina: vuole una vita dignitosa, libera dalla violenza per tutti.

Nelle sue parole: Dobbiamo difenderci l’un l’altro sempre, in ogni situazione in cui vediamo ingiustizia, proprio perché sappiamo come ci sente a essere dei sopravvissuti.”

Melania Chiponda, Zimbabwe, della WoMin African Gender and Extractives Alliance. Lavora per i diritti delle donne sulla terra e per mettere fine agli abusi sessuali perpetrati dalle forze di sicurezza. Nelle sue parole: “Se porti via la terra alle donne nelle aree rurali, porti via la loro sopravvivenza. Perciò lottiamo. Perché non abbiamo più nulla da perdere.”

Leduvina Guill, nicaraguense dell’ong Wangki Tangni, difende il diritto di donne e bambine a vivere vite senza violenza. Nelle sue parole: “Combattere la violenza contro le donne è cruciale, perché si tratta delle loro vite; come difensora salvi le vite delle donne. I diritti sono molto importanti, le donne soffrono così tanto quando non hanno diritti.”

Magdalena Kafiar, fa parte del FAMM (Forum giovani donne attiviste indonesiane) ed è ministra della chiesa evangelica. Lavora per la difesa dei diritti delle donne e della terra. Nelle sue parole: “Ormai conosco il pericolo, ma mantengo lo spirito dentro di me e mi muovo in avanti. Devo lottare continuamente per rivelare le ingiustizie in Papua.”

Miriam Miranda, della Organización Fraternal Negra Hondureña (OFRANEH), Honduras. Lotta per il rispetto e la sicurezza delle culture indigene, per l’accesso alla terra e alle risorse, per i diritti delle donne. Nelle sue parole: “La lotta, come la vita stessa, dovrebbe essere gioiosa.”

Irina Maslova, dell’organizzazione Silver Rose, Russia. Agisce nell’ambito della protezione dei diritti umani per tutti, compresi gruppi svantaggiati e donne nelle prostituzione. Nelle sue parole: “La rivoluzione comincia dal basso, quando coloro che sono esclusi da questa vita devono lottare per il loro diritto di rientrarci.”

Honorate Nizigiyimana, dell’organizzazione Développement Agropastoral et Sanitaire (Dagropass), Burundi. Lavora per la pace e la sicurezza delle donne nel suo paese. Nelle sue parole: “Sebbene io sia la più anziana della mia famiglia, sono ancora considerata una persona di poco valore. E’ la cultura attuale del Burundi. Sono questi comportamenti che mi hanno condotta a pensare alla promozione dei diritti delle donne.”

Tin Tin Nyo, dell’Unione donne birmane. Lavora in Thailandia per i diritti delle donne e la loro rappresentazione nelle negoziazioni di pace. Nelle sue parole: “La nostra arma più potente è la nostra voce. Abbiamo verità e sincerità. Queste sono le armi che dobbiamo usare per tutte le donne che sono senza voce e senza aiuto.”

Ana Sandoval, Guatemala, del gruppo di Resistenza Pacifica “La Puya”. Lavora per i diritti comunitari sulla terra e per la chiusura della miniera Progreso VII. Nelle sue parole: “Alla fine, tutte le lotte hanno il medesimo obiettivo: la difesa della vita.”

Menzione di gruppo: Forze unite per i nostri “desaparecidos” in Coahuila e Messico.

Le donne sono Yolanda Moran, Angeles Mendieta, Blanca Martinez. Vogliono giustizia e verità per le famiglie delle persone “scomparse”. Dice Blanca Martinez: “Noi crediamo che bisogna battersi per i propri diritti e difenderli, nessuno li difenderà per noi se non lo facciamo.”

Maria G. Di Rienzo

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(brano tratto da “Q&A with Zrinka Bralo”, di Sarah Colson per Women of the World, 1° marzo 2016, trad. Maria G. Di Rienzo.)

zrinka

Zrinka Bralo era una giornalista, in Bosnia, prima che scoppiasse la guerra. Nel 1993, mentre il conflitto si intensificava, Zrinka chiese asilo in Gran Bretagna: ma ci vollero tre anni, piagati da incertezza e paura, prima che la sua richiesta fosse accettata.

Sin dal 2001 Zrinka è la direttrice di “Migrants Organise”, una piattaforma grazie a cui rifugiati e migranti si organizzano per il potere, la dignità e la giustizia. Nel 2012 ha creato con altre donne i “Women on the Move Awards” (“Premi Donne in Movimento”), riconoscimenti conferiti alle rifugiate/migranti per celebrare i risultati da loro raggiunti e i loro contributi alla vita britannica.

Cosa sono i “Women on the Move Awards” e come sono nati?

I “Women on the Move Awards” riconoscono e celebrano leader donne rifugiate e migranti che, nonostante i loro viaggi spesso difficili, rendono migliori le loro comunità. Sono stati messi in piedi nel 2012 da un notevole gruppo di attiviste con cui ho il piacere di lavorare.

Nel 2011 ero appena tornata da New York, dove mi era stato consegnato il premio “Voci del Coraggio” per il lavoro che faccio con le rifugiate in Gran Bretagna. Ero un po’ imbarazzata dall’attenzione che ricevevo, ma anche molto commossa da quante mie colleghe volevano celebrare quel momento con me. Abbiamo cominciato a parlarne e abbiamo capito che non avevamo uno spazio per celebrare il grande lavoro che donne rifugiate e migranti fanno in Gran Bretagna e abbiamo deciso di crearlo. Negli scorsi tre anni i Premi sono stati conferiti dall’Agenzia per i Rifugiati e i Migranti delle Nazioni Unite assieme a “Migrants Organise”, con il sostegno di volontarie e colleghe di altre agenzie.

Perché i “Women of the Move Awards” sono così importanti?

Le donne rifugiate e migranti sono sopravvissute che ne hanno passate di tutti i colori. Io trovo la loro capacità di recupero e la loro volontà di parlare apertamente e di restituire qualcosa assai potenti. E’ importante riconoscere questo spirito e celebrarlo, specialmente perché abbiamo raggiunto un livello di disumanizzazione dei rifugiati e dei migranti, nei nostri discorsi pubblici, che ci sta mutando in una società davvero brutta, una piena di paura e pregiudizi.

Lo scorso anno abbiamo testimoniato un mondo in movimento: gente disperata che si assume rischi inimmaginabili perché non ha altra scelta che fuggire per salvarsi la vita. Noi, gli europei, a causa della nostra paura e della nostra ignoranza, li abbiamo abbandonati. Io voglio credere che possiamo essere persone migliori e questi Premi sono un piccolo tentativo di raccontare una storia differente, positiva, su rifugiate e migranti che offrono contributi, ma anche una storia più positiva su di noi.

Quali paesi hanno compiuto i maggiori passi nel trattare giustamente i rifugiati? Cosa pensi potremmo imparare da loro?

La Germania ha aperto le sue frontiere, il che è più di quanto molti altri paesi abbiano fatto, ma il Canada – in special modo dopo l’elezione di Justin Trudeau – è stato l’esempio preclaro di un trattamento giusto ed egualitario per i rifugiati. Sia in Germania sia in Canada ci sono problemi e opposizione all’arrivo di migranti e rifugiati, ma quel che il resto di noi può imparare è che avere una buona leadership fa differenza nel creare un quadro positivo in grado di accogliere.

Chi è la tua eroina, storica o contemporanea, e perché?

claudia francobollo 2008

Claudia Jones (ndt: Claudia Vera Cumberbatch Jones, 1915-1964, nell’immagine), la leader per i diritti civili, rifugiata e giornalista che lavorava a Notting Hill, dove lavoro io adesso. Riesco quasi a percepirne la presenza, mentre cammino per le stesse strade per cui lei camminava. Originaria di Trinidad, fu cacciata dagli Usa per le sue attività politiche e deportata in Gran Bretagna.

Come risposta ai disordini razzisti del 1958, creò il primo carnevale di Notting Hill, con lo scopo di ricostruire le relazioni all’interno della comunità dopo l’omicidio motivato dal razzismo di Kelso Cochrane. Era un’intellettuale forte e radicale, che si oppose al razzismo e alle leggi ingiuste sull’immigrazione, e fece campagne per case popolari decenti, in favore dei migranti e per il disarmo nucleare.

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Niente più che respiro

(“He huffed and he puffed” – “Lui soffiava e sbuffava” e “Unemployment poem # 1” – “Poesia della disoccupazione n. 1”, due lavori di Fatimah Asghar, trad. Maria G. Di Rienzo. Fatimah è nata a Cambridge, Massachusetts, figlia di migranti provenienti da Pakistan e Kashmir. E’ poeta, scrittrice, attrice di teatro e fotografa. Nel 2011, mentre si trovava in Bosnia-Erzegovina con una borsa di studio, fondò il primo gruppo locale di “poesia parlata”, REFLEKS. “Mentre ero in Bosnia – ha spiegato in un’intervista – avevo l’impressione che chiunque fosse un cantastorie. L’intero paese scoppiava di racconti. Tuttavia, molte persone con cui parlavo consideravano l’arte o la poesia come cose che non alla loro portata, a causa delle connotazioni elitarie che circondano queste parole. C’era quindi il bisogno di creare uno spazio sicuro in cui le persone potessero esprimere se stesse.”)

Fatimah Asghar

LUI SOFFIAVA E SBUFFAVA

Come detto da Allah.

Ti ho costruito una memoria di fieno.

Niente sequoia o mattoni. Niente

cemento fissato al posto.

Guarda come collassa

quando viene soffiato via. Guarda

gli steli che si sparpagliano

come polline, impolverando il naso

di tutti. Guarda, come sei diventato un filo

di fieno che vola nel mezzo di un tifone

di brezza. Guarda come sei fatto

di niente

più che respiro.

deep breath di melanie weidner

POESIA DELLA DISOCCUPAZIONE N. 1

Il 62° giorno, Dio fece la povertà,

e fece te – un tintinnante sacco

d’ossa, un pilastro di sale e giovane fiume

d’acqua da ingoiare e ingoiare. Ragazza

da cassonetto, sempre a caccia di avanzi. I tuoi piedi

sono campi minati, o meglio, fuochi fatui marciti

nel modo in cui minacciano di sbriciolarsi ogni volta in cui ti ergi.

Guarda come scompari di fronte a te stessa.

Persino i peli sul dito del tuo piede stanno morendo di fame. Guarda

come la miseria risucchia i tuoi zigomi

sino a farne picchi montani. Guarda come le tue anche

diventano coltelli da chirurgo. Sei finalmente abbastanza donna

per essere venduta.

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(“To change the world, start inside yourself.”, di Zainab Salbi per Women in the World Foundation, 30 aprile 2013, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

Vent’anni fa, una studentessa universitaria 23enne, da poco sposata, vide le orribili immagini dei “campi di stupro” in Bosnia sui quotidiani e decise che doveva fare qualcosa al proposito. Così Zainab Salbi, irachena-statunitense, usò i soldi della luna di miele per dare inizio a “Women for Women International”, oggi un’ong nonprofit rispettata a livello globale che lavora con le sopravvissute alla guerra, dall’Afghanistan al Congo, ed ha distribuito più di 100 milioni di dollari ad oltre 350.000 donne. Salbi ha di recente pubblicato il suo ultimo libro “If You Knew Me You Would Care” (“Se mi avessi conosciuta ti importerebbe”), e sta lavorando ad un documentario sulle donne nella cosiddetta “primavera araba”.

zainab

Tu non sei definita da quel che ti accade, ma da quel che fai della tua storia.

Il mondo vede da lontano le donne rifugiate e sopravvissute alla guerra, come vittime. E sebbene le donne soffrano molte delle atrocità della guerra, dagli stupri agli sgomberi forzati, esse non si definiscono in base alle loro storie di vittimizzazione, ma da quel che fanno di queste storie. Mi hanno insegnato il vero significato di termini quali pace, forza, coraggio e bellezza, e mi hanno insegnato ad apprezzare ogni aspetto della vita.

La pace è dentro di te.

Io ho incontrato quel che chiamo il mio Dalai Lama in una donna congolese di nome Nanbito, che vive in una minuscola capanna dal tetto di latta con quattro figli: uno è il risultato di uno stupro. Quando le chiesi cosa “pace” significasse per lei, mi disse: “La pace è dentro il mio cuore. Nessuno può darmela e nessuno può portarmela via.” La sua saggezza è qualcosa che ognuno di noi cerca, anche quando conduciamo vite privilegiate: la semplice pace dentro i nostri cuori.

Possiamo trovare amore nel bel mezzo dell’orrore.

Gli individui si innamorano durante le guerre, si sposano e divorziano, hanno bambini e vanno a feste e perdono persone amate. Ci sono molte durezze ma ci sono anche momenti in cui le persone trovano gioia pur nel mezzo di grandi orrori. L’unico modo in cui possiamo davvero entrare in relazione con le donne sopravvissute di guerra sta nel non vederle come differenti, ma nel vederle come noi stesse. Noi siamo loro. Loro sono noi. Le esistenze sono diverse, i sentimenti sono uguali.

C’è grande bellezza in luoghi inaspettati.

Ho visto donne che avevano attraversato tutta una serie di esperienze terribili, dal matrimonio da bambine alla violenza sessuale al diventare rifugiate, alla guerra e alla perdita di coloro che amavano: e lo viste risollevarsi ancora e ancora, nei modi più magnifici. Ho incontrato donne afgane che hanno ricostruito le proprie vite partendo da zero e ora danno lavoro a centinaia di altre donne ed uomini. Ho incontrato le sopravvissute al genocidio in Ruanda che hanno perdonato gli assassini delle persone che amavano e ora si dedicano all’agricoltura biologica per assicurare un futuro migliore ai loro bambini. Questo e molto altro mi fa credere nella bellezza di questo mondo e nella bellezza dell’umanità a dispetto di tutta l’oscurità. Se le mie sorelle in Congo e in Iraq possono ancora cantare e ballare, chi sono io per non farlo e per non essere grata di tutti i privilegi che ho.

Per cambiare il mondo, comincia con il viaggio interiore.

Se vogliamo cambiare il mondo, le voci delle donne devono essere udite, forti e chiare, in tutti i settori e non essere più confinate in un solo angolo. Ma oltre a ciò, dobbiamo essere il cambiamento che aspiriamo a vedere nel mondo. Tale cambiamento comincia con il viaggio interiore. Ciò che mi spinge avanti è il mio assoluto e pieno convincimento che il cambiamento è possibile ed è possibile per ciascuna di noi vivere la nostra verità e dispiegare il nostro pieno potenziale.

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Invece di usare una benda, i soldati serbi coprirono gli occhi di Enisa con i loro calzini. L’odore la fece vomitare, così la picchiarono affinché imparasse che “i calzini serbi non puzzano”. Sette “eroi della nazione” la batterono e la stuprarono per giorni e giorni. Dapprima Enisa tentò di resistere, così le fecero capire come stavano le cose rompendole i denti e la mascella con i calci dei fucili. Ogni volta in cui perdeva conoscenza le “facevano un bagno”, e cioè la immergevano in acqua gelida. Terrorizzata dall’idea che sarebbe diventata pazza, di colpo pensò alla follia come ad una via d’uscita. Cominciò a cantare canzoni serbe a voce sempre più alta e a ballare con gli uomini che avevano presumibilmente massacrato suo marito. I soldati erano confusi: la minacciavano, le tenevano un coltello contro la gola, ma lei non faceva che cantare le sue canzoni ancora più forte. Credendo che fosse completamente impazzita i soldati le prestarono meno attenzione ed Enisa riuscì a fuggire, nascondendosi in un sacco di patate.”

Quando la giornalista Seada Vranic parlò con Enisa alcuni mesi più tardi, nel luglio 1992, la donna che stava di fronte a lei aveva i capelli grigi, il viso contorto e camminava ingobbita: ma mancava solo un mese al ventottesimo compleanno di Enisa. Seada raccolse e documentò oltre 300 testimonianze delle vittime degli stupri di guerra in Bosnia-Erzegovina riportandone 12, assieme ad un’analisi sull’impatto sociologico e psicologico dell’accaduto, nel suo libro “Pred zidom sutnje” (l’edizione inglese si chiama “Breaking the Wall of Silence”). La portata delle esperienze che le donne le raccontavano era così devastante che Seada raggiunse l’orlo del collasso fisico e psicologico: “E’ stato difficile restare sana di mente.”

Oggi la giornalista, nata a Travnik da genitori bosniaci nel 1949, vive con la propria famiglia a Ginevra. Seada Vranic fu una delle prime a riconoscere e ad attestare il fatto che lo stupro era usato come strategia di guerra nel conflitto serbo-bosniaco. Ancora oggi, sebbene siano passati dieci anni, quando parla della questione Seada deve lottare con se stessa per mantenere la calma.

All’inizio non riuscivo ad accettare l’idea che lo stupro potesse essere una strategia per la guerra espansionistica. Pensavo: uno stupro non può essere commesso per ordine di qualcun altro, non è che si possa ordinare ad un’altra persona di avere un’erezione. Una strategia implica subordinazione, sottomissione ad un superiore. Ma dopo quattro mesi il mosaico mi divenne chiaro: località completamente differenti mostravano lo stesso svolgimento degli eventi, avevo testimonianze di vittime di stupro da ognuno di questi luoghi. Mano a mano che registravo le loro storie, la mia visione sulla natura dei crimini che avevano subito cambiava. Capii che lo stupro non era semplicemente “sesso violento”: è un’aggressione agita tramite mezzi sessuali. E’ più vicino a Thanatos che a Eros. Capii che anch’io avevo idee errate sulla “natura violenta del maschio”, a causa del fatto che comunque vivo in un mondo in cui i maschi dominano. Persino gente seria se ne esce a volte con “Non ha potuto trattenersi, così l’ha stuprata”. Ti dicono che sarebbe istinto. Ma io ho potuto constatare come tutto veniva invece dalla testa, dalla volontà.” Maria G. Di Rienzo

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“The Whistleblower” (suonatrice/suonatore di fischietto, simbolicamente qualcuno che avvisa o attira l’attenzione) è un film che sta uscendo in questi giorni nei cinema statunitensi, protagonista la premio Oscar Rachel Weisz. Tratta della missione di “peacekeeping” delle Nazioni Unite alla fine degli anni ’90 in Bosnia, ed è basato su una storia vera, quella della poliziotta Kathryn Bolkovac.

Nel 1999 Bolkovac firmò un contratto con l’agenzia di “contractors” DynCorp, finanziata dagli Usa, che stava reclutando personale per la missione per conto delle Nazioni Unite. Bolkovac avrebbe passato 22 mesi in Bosnia, dove scoprì una vasta tratta sotterranea di donne a scopo di sfruttamento sessuale. Una tratta maneggiata proprio da individui con l’uniforme blu e la qualifica di “mantenitori della pace”.
Bolkovac ha successivamente narrato queste vicende in un libro (che ha lo stesso titolo del film), è stata querelata dalla DynCorp ed ha vinto la causa. Oggi ha 51 anni e “Una rabbia che continua ad andare e venire. Certo, ho vinto in tribunale. Ma non ho mai avuto nessuna vera risposta.

Quella che segue è la traduzione dell’intervista che Kathryn Bolkovac ha rilasciato alla giornalista Marjorie Kehe prima dell’uscita del film. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo

Marjorie Kehe (MK): Cosa ha indotto una madre divorziata di tre figli che viveva nel Nebraska ad andare in Bosnia?

Kathryn Bolkovac (KB): Mio padre era croato. Emigrò negli Usa negli anni ’20. Ho sempre avuto interesse per quella zona del mondo. Durante gli anni avevo subito alcuni traumi, fra cui il divorzio, e mi sentivo pronta per un cambiamento. Così, quando il volantino di reclutamento arrivò alla  stazione di polizia in cui lavoravo, decisi di tentare. Pensavo anche che andare mi sarebbe servito a sostenere finanziariamente i miei figli mentre frequentavano il college e a costruirmi un curriculum migliore.

MK: La situazione che tu descrivi in Bosnia è eccezionale: 2.000 poliziotti da 45 paesi diversi che tentano di operare come unica forza. Come andava?

KB: Alcuni degli ufficiali venivano da paesi veramente poveri, non sapevano come usare un computer e nemmeno come guidare un’automobile. Per cui, facevamo training non solo alla polizia bosniaca sui principi democratici, ma anche ai membri della forza NU su come guidare, come scrivere un rapporto, come usare il computer.

MK: Quando hai cominciato a capire che al di là delle sfide culturali stavi fronteggiando un problema come il traffico di esseri umani, e quando hai capito che alcuni dei tuoi colleghi vi erano coinvolti?

KB: Non sapevo molto del traffico di esseri umani, prima di partecipare alla missione. Però già durante l’addestramento alla DynCorp era chiaro che almeno una persona del nostro gruppo aveva familiarità con l’uso di bambine (dai 12 ai 15 anni) a scopo sessuale in Bosnia. Questo mi aveva veramente scioccato e disturbato, e ho sperato di aver frainteso quel tipo, ma dopo qualche tempo passato in Bosnia mi fu evidente che l’attività in questione era diffusa e prevalente.

C’erano un gran numero di bordelli camuffati da ristoranti o discoteche, frequentati da una vasta clientela internazionale. Non era un bello spettacolo. Non riuscivo ad immaginare quegli stessi poliziotti agire nel medesimo modo a casa loro, a casa nostra, ma eccoli lì, in un paese straniero, convinti che fosse tutto a posto.

MK: Quando hai avvisato i tuoi superiori ti sei resa conto che non volevano maneggiare il problema. E infine hai perso il lavoro. Quando hai cominciato a percepire che la tua vita era in pericolo?

KB: Alcuni colleghi mi dissero che temevamo per la mia vita. Ma io ne avevo già passate tante. All’epoca ero una poliziotta già da 10 anni, mi ero trovata più volte in situazioni pericolose. Diciamo che a quello ero abituata, la vera questione terribile era la fiducia: la cosa principale, per me, era che non potevo più fidarmi dei miei colleghi.

MK: Tu sostieni che il traffico di esseri umani segue i tumulti a livello globale. Cosa possiamo fare per rompere la connessione, per proteggere meglio le donne dalla violenza e dallo sfruttamento nelle zone di conflitto e post-conflitto?

KB: Dobbiamo educare i nostri poliziotti, il nostro esercito. Dobbiamo farlo davvero, non limitarci a dirlo, come troppe di quelle organizzazioni o compagnie di contractors che sostengono di avere “corsi etici” e fanno firmare alle persone pezzi di carta su cui sta scritto che non frequenteranno prostitute eccetera. Sono cose che non significano niente, perché le persone che firmano non capiscono veramente di che si parla, e perché nessuno si preoccupa di seguirle e di renderle responsabili. Non vedo tuttora uno sviluppo nell’addestramento della gente che mandiamo in giro per il mondo a rappresentare gli Stati Uniti. Si spediscono all’estero persone che non sanno nulla della legislazione locale, nulla di diritto internazionale, nulla delle culture che incontrano. Per me questo è ancora il problema principale.

MK: “The Whistleblower” sta per uscire nei cinema. Come ti senti ad essere rappresentata sullo schermo da un’attrice famosa come Rachel Weisz?

KB: Rachel Weisz è una minuta e squisita giovane donna, io sono una poliziotta grande e grossa alta un metro e ottanta… Ma è stato grandioso. Era così volonterosa di imparare da me. Mio marito ed io siamo andati a Bucarest in Ungheria quando hanno iniziato là le riprese. Rachel fermava tutto ogni volta in cui aveva il dubbio di non avermi rappresentata fedelmente. Veniva da me e chiedeva: “Kathy, come avresti detto tu, come avresti fatto?”

MK: Il libro e il film aiuteranno la tua causa?

KB: Sto ancora cercando di capire qual è esattamente la mia causa. Sono sicura che c’è un motivo se ho passato quel che ho passato. E il motivo era il fischiare (“whistle-blow), il dare l’allarme. Sono stata descritta come un’avvocata dei diritti umani che lotta contro il traffico di esseri umani e per le donne, e certamente io difendo tutto questo, ma la questione che voglio risolta subito è la corruzione della DynCorp e di altre compagnie che assumono personale per mandarlo all’estero. Forse la mia causa è proprio continuare a spingere affinché le pratiche di reclutamento e addestramento migliorino, non è possibile che avendo addosso l’uniforme delle NU si traffichino esseri umani, armi e droghe. Vorrei veramente veder questo cambiare.

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Per più di quindici anni, “Women for Women International” ha condotto programmi diretti alle sopravvissute di guerra bosniache: ad oggi, più di 7.000 donne hanno ricevuto istruzione professionale, aiuto finanziario ed educazione scolastica. Due membri dell’organizzazione, Laura e Teisha, raccontano di seguito le loro esperienze. (10.6.2010, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo)

"Raggiungimi sul ponte", Sarajevo, iniziativa per l'8 marzo di WFWI

 

Srebrenica, Teisha.

Nel luglio 1995, più di 8.000 uomini e ragazzi bosniaci furono uccisi in quello che divenne poi noto come “Il massacro di Srebrenica”. Inoltre, fra i 25.000 ed i 30.000 rifugiati nell’area di Srebrenica furono soggetti a “pulizia etnica”. Oggi nella città vi sono molte donne che partecipano ai programmi di “Women for Women International”, in maggioranza vedove di guerra o donne che hanno perso i loro figli in guerra.

La loro ultima idea è stata quella di rendere la città più fruibile ai turisti, perché ad esempio c’è un forte che molti vanno a visitare ma non ci sono ristoranti, o posti dove stare. Dopo uno dei nostri seminari, si sono riunite ed hanno deciso di intraprendere una prima azione che avrebbe lasciato un segno nella città ed allo stesso tempo sarebbe stata di sostegno alle loro famiglie.

C’è un Festival delle Ciliegie che si tiene ogni anno in città, ma che non ha mai portato guadagni a Srebrenica. Le donne si sono presentate al Consiglio comunale ed hanno chiesto di avere il controllo sulla festa. Il Consiglio, composto unicamente da uomini, si mostrò abbastanza scettico ma diede loro il permesso richiesto.

Per la prima volta il Festival è stato un successo. Le donne hanno fatto pubblicità, hanno venduto cibo, hanno guadagnato dei soldi, si sono organizzate tra loro per dividersi le responsabilità, ed era la prima volta che lavoravano insieme al di fuori del nostro programma, ma anche la prima volta in cui parecchie di loro hanno avuto occasione di incontrare i propri vicini, perché a parte gli incontri con noi non escono praticamente di casa.

Le loro case sono il solo posto dove andavano una volta uscite dai seminari. I loro mariti fanno la spesa, fanno qualsiasi cosa richieda l’uscire di casa, e le donne erano veramente rinchiuse fra quattro mura precedentemente a questa vicenda. Prima che io lasciassi la Bosnia, stavano discutendo i prossimi passi da intraprendere, fra cui l’eleggere una donna al Consiglio comunale: se ci riescono, sarà la prima volta nella storia della città.

Sarajevo, Laura.

Sugli edifici ci sono ancora i segni lasciati dalle pallottole e da altri proiettili. I bosniaci hanno ricostruito davvero molto, ma alcuni danni sono tuttora visibili. C’è questo stridente contrasto, perché è un paese davvero bello, in una campagna collinosa, ma ad esempio, in una vecchia parte della città dove ci fu un’esplosione, il cratere è stato riempito di asfalto rosso e sui pendii delle colline ci sono croci bianche sin dove puoi spingere l’occhio.

Le tensioni etniche esistono ancora, il paese è diviso. Non sapevo questo, prima di arrivare là e constatarlo di persona. Quando ero in Ruanda non c’era così tanta evidenza del genocidio e la gente non era propensa a parlarne. In Bosnia, le persone sono più disposte a parlare delle tensioni che persistono nel loro paese, ed ancor di più dei problemi che lo stesso fronteggia. Il conflitto in Bosnia non è stato risolto bene: si è fermato, ed è tutto.

La gente probabilmente pensa che la Bosnia sia uno dei posti più tranquilli in cui noi lavoriamo, perché dalla guerra è passato abbastanza tempo. Ma ciò che è accaduto durante la guerra è ancora parte delle vite delle donne, e l’economia distrutta dalla guerra non ha avuto una ripresa sufficiente, così le donne hanno ancora un gran bisogno di aiuto.

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