Steph Cha potrebbe essere, al momento, l’unica femminista coreana-americana autrice di gialli: ma sta riscuotendo successo e non è affatto una scrittrice di nicchia. Il mese scorso è uscito il terzo libro della sua serie che ha come protagonista l’investigatrice privata Juniper Song (“Dead Soon Enough”). Juniper condivide il retaggio etnico della sua creatrice, ha alle spalle un’irrisolta tragedia familiare e qualche illusione in frantumi e si muove fra le diverse comunità di immigrati e outsider a Los Angeles. Il ritratto della città che ne esce è ben diverso dall’ambientazione solita delle “detective stories” e assume particolari colorazioni umane, politiche e sociali.
Di recente (agosto 2015), Steph ha concesso un’intervista a Ivy Pochoda del Los Angeles Times e ha detto alcune cose interessanti:
Cosa ti ha spinto a scrivere delle esperienze degli immigrati armeni e del genocidio armeno?
Due dei miei amici intimi sono armeni-americani, e mio marito ed io abbiamo avuto una lunga conversazione con loro sul genocidio durante un fine settimana sul lago Arrowhead. Il genocidio è accaduto un centinaio di anni fa, ma il governo turco non l’ha ancora riconosciuto ne’, per ragioni politiche che nulla hanno a che fare con verità o giustizia, è stato riconosciuto dagli Stati Uniti.
Io sono coreana-americana e sebbene sia nata ben dopo la seconda guerra mondiale e non abbia mai vissuto in Corea, ogni tanto mi arrabbio terribilmente per la negazione che il Giappone fa dei suoi crimini di guerra. Conosco questo sentimento di furia che corre nel sangue e credo che quella conversazione abbia tirato fuori qualcosa da me.
Più tardi, quando ho intervistato i miei amici sulle loro esperienze di vita in famiglie armene migranti, sono rimasta colpita dai parallelismi nel modo in cui siamo stati cresciuti: l’enfasi sull’istruzione e sulla famiglia, l’ossessione per il cibo, le nostre madri davvero esemplari.
Tu ti sei laureata alla Yale Law School e hai sposato un avvocato, pure gli avvocati non se la passano bene nei tuoi libri.
Sono tecnicamente un’avvocata, ma a dire il vero non pratico molto di questi tempi. Ho grande rispetto per la professione e penso sia davvero importante e carica di potere: forse è per questo che un paio di “cattivi” nei miei libri sono avvocati. Uno dei fili narrativi in “Dead Soon Enough” mi è stato ispirato dal caso dello studio legale Mayer Brown, che rappresentava un gruppo il cui scopo era costringere la città di Glendale a rimuovere una statua che onora le “donne di conforto” coreane.
Questa è la statua menzionata, dedicata alle “donne di conforto” e cioè alle vittime della schiavitù sessuale pro soldati giapponesi durante la seconda guerra mondiale. Accanto ad essa c’è una di loro, la sopravvissuta sudcoreana Lee Yong-soo. La statua è una replica di quella presente di fronte all’Ambasciata giapponese a Seul – Corea del Sud.
Ma non si è trattato solo di coreane: l’esercito imperiale giapponese ridusse in schiavitù sessuale donne cinesi, malesi, birmane, thailandesi, taiwanesi ecc. – in maggioranza provenienti dai paesi occupati dal Giappone – ed anche un piccolo numero di donne di origini europee.
O erano rapite direttamente dalle proprie case e villaggi, o erano ingannate dalle promesse di lavorare in fabbriche e ristoranti e cliniche ospedaliere: una volta in mano all’esercito, erano imprigionate nelle “stazioni di conforto” in paesi diversi dal loro. Molte di quelle che sono sopravvissute non sono tornate a casa. Temevano lo stigma che società e famiglia avrebbero posto su di loro, in quanto donne “usate”.
Io ho visto due documentari e letto un bel numero di testimonianze al proposito. Una volta superato lo strazio – perché non c’è modo di evitarlo mentre emerge dalle parole, dagli sguardi, dalla memoria fisica di corpi femminili resistenti, piccoli, solidi, radianti che si contorcono al ricordo di quel che hanno subito – il “sentimento di furia” di cui Steph Cha parla è corso anche nel mio, di sangue. E non lo provavo solo per chi i crimini di guerra ha perpetrato e per chi i crimini di guerra li nega: era diretto, ed è diretto, a ogni connivente idiota che parla dell’inesistente “diritto umano a fare sesso”, intendendo sempre e comunque l’abuso dei corpi delle donne da parte degli uomini. Maria G. Di Rienzo