Feeds:
Articoli
Commenti

Posts Tagged ‘arabia saudita’

Ci vorranno circa 10 giorni per esaminare la richiesta di asilo della 18enne saudita Rahaf Mohammed Alqunun (in immagine).

rahaf

A salvarla dal rimpatrio forzato dalla Thailandia, ove si trova attualmente, è stato il suo adamantino coraggio unito a una massiccia campagna a suo favore sui social media. Il video in cui si barrica nella stanza d’albergo a Bangkok, chiedendo fermamente la protezione dell’Alto Commissariato NU per i Rifugiati, ha fatto il giro del mondo. Sul suo account Twitter ce n’è un altro, che val la pena vedere pur se brevissimo: mostra il rappresentante saudita a Bangkok, signor Alshuaibi, mentre dice “Avrebbero dovuto portarle via il telefono, invece del passaporto”. Il traduttore al suo fianco ride servile alla squallida battuta.

Rahaf pianifica la propria fuga da quando aveva 16 anni. Suo fratello e altri membri della famiglia hanno l’abitudine di picchiarla ed è stata chiusa per sei mesi in una stanza perché si era tagliata i capelli in un modo che loro non approvavano. Se fosse costretta a tornare da loro, ha aggiunto, “mi uccideranno perché sono scappata e perché ho dichiarato il mio ateismo. Loro vogliono che preghi e che mi metta il velo, io non voglio.” In questo momento, suo padre e suo fratello sono a Bangkok. Le richieste di impiccagione per Rahaf riempiono i forum in lingua araba.

Ogni donna in Arabia Saudita è una minorenne legale quale che sia la sua età. Per tutta la vita ha un “guardiano” di sesso maschile (padre, fratello, zio o persino figlio) da cui deve ottenere una serie di permessi – lavorare, andare dal medico, affittare un appartamento, intraprendere un’attività economica, viaggiare, sposarsi, divorziare ecc. non sono decisioni che lei può prendere autonomamente. Nel 2017 le regole si sono allentate un poco per casi in cui vi siano “speciali circostanze”, ma di fatto questo sistema non ne è stato minimamente scosso.

Spesso la polizia chiede il permesso del “guardiano” per una donna che voglia sporgere denuncia, rendendo in pratica impossibile riportare la violenza domestica qualora commessa dal suddetto. Avete chiaro il quadro.

Gli uomini decidono, gli uomini pontificano, gli uomini sanno e fanno e disfano… anche sotto gli scarni articoli che la stampa italiana dedica alla vicenda: al 99,99% sono gli uomini a commentare.

C’è l’analfabeta becero:

“eroina de che? e (è, signore, è) fuggita dal paese con tanto di passaporto, diciamo che è scappata dalla famiglia x dei motivi che non conosciamo”

e l’analfabeta colto e solidale:

“Diciamo che la ignoranza e (è, perdinci) una cosa normale. (…) Il fatto è che sia la donna che l’uomo devono essere riguardati come una espressione della essenza umana senza considerazioni pregiudiziali che limitano il diritto alla scelta libera sebbene responsabile. (I beg your pardon?)

L’idea che la donna non può esercitare un livello di autorità e responsabilità uguale al (all’) uomo e (è, voce del verbo essere, terza persona singolare) regressiva, primitiva e porta ad un trattamento criminale non dissimile alla (dalla) schiavitu (l’accento, per piacere) istituzionalizzata del passato. Una donna che rischia la vita per difendere i suoi legittimi diritti e (è!!!) definitivamente eroica. (…)” Omettiamo pietosamente il resto…

Trovando difficile l’iter burocratico per essere accolta in Australia, che era la sua prima scelta, Rahaf ha chiesto asilo al Canada: sto sperando che tale nazione apra le braccia per lei. L’Italia? Be’, non è un paese per donne.

Maria G. Di Rienzo

Read Full Post »

girl of enghelab street

“La ragazza di Via Enghelab” (in immagine) – identificata con non assoluta certezza come la 31enne Vida Movahed – era stata arrestata lo scorso dicembre. Il 7 marzo è stata condannata a 24 mesi di prigione per “incoraggiamento alla corruzione tramite la rimozione del suo hijab in pubblico”.

Della situazione ha scritto Yasmine Mohammed per The National Post, il 7 marzo 2018, nell’articolo On Women’s Day, drop the doublethink on hijabs (especially you, cosmetic companies), qui di seguito da me tradotto. Yasmine è una scrittrice e attivista araba-canadese:

“L’8 marzo è il Giorno Internazionale delle Donne, il giorno il cui dovremmo parlare delle donne che lottano per i loro diritti in tutto il mondo. Dall’Iran all’India, ci sono alcune grandi lotte in corso.

In Arabia saudita, le donne si stanno battendo contro le arcaiche leggi del loro paese sulla “tutela”, che negano alle donne le libertà di base che in Occidente diamo per scontate, come il viaggiare all’estero, l’andare al lavoro e l’uscire di casa quando ci pare. Prive di alcuno spazio pubblico che amplifichi le loro voci, le donne saudite stanno usando i social media con l’hashtag #StopEnslavingSaudiWomen – #Smettete di schiavizzare le donne saudite.

A Jaipur, in India, le donne musulmane stanno dimostrando questa settimana contro il trattamento ingiusto che ricevono sotto le leggi della shariah che regolano il divorzio.

E la lotta più vicina al mio cuore è quella delle donne in Iran che protestano contro le leggi che rendono obbligatorio l’hijab.

In mesi recenti abbiamo visto un gruppetto di donne coraggiose togliersi i fazzoletti nelle strade iraniane come affermazione della loro identità e richiesta di libertà di espressione – un crimine in quel paese dal 1979. A queste donne dà la caccia Basij, il corpo di guardiani religiosi maschi e femmine che controlla la moralità e sopprime ogni opposizione in nome della potente Guardia rivoluzionaria islamica.

Circolano rapporti che indicano in numero di 29 le donne già arrestate; alcune sono ancora in custodia. Secondo Amnesty International, alcune di queste donne sono state accusate di “incitare alla corruzione e alla prostituzione” e potrebbero essere condannate a 10 anni di carcere. Ma questo non ha funto da deterrente per le loro sorelle. Dozzine di altre donne iraniane stanno sventolando i loro fazzoletti da testa in pubblico, riproponendo i “Mercoledì Bianchi” ogni settimana.

Come molti milioni di donne in Iran, io sono stata costretta a indossare l’hijab. Ciò è accaduto in Canada e fu la mia famiglia a costringermi, non il governo. Invece delle minacce di arresto o di “rieducazione” per l’essere vista in pubblico senza velo, la mia famiglia mi minacciò con la violenza. Mia madre disse che mi avrebbe uccisa se mi avesse vista senza hijab. La mia non è un’esperienza straordinaria. In Ontario, la famiglia di Aqsa Parvez riuscì a ucciderla perché non indossava l’hijab. In tutto il mondo le donne soffrono ostracismo sociale, sono multate, imprigionate, stuprate e uccise perché lottano contro il dover portare l’hijab.

Su di me è stato forzato a nove anni e ho dovuto scambiarlo con un niqab a 19. Mi ci sono voluti molti anni per comprendere quanto della mia identità ciò aveva strappato via. Il niqab copriva ogni centimetro di me, inclusa la mia faccia e le mie mani.

Mi derubava di ogni percezione: il senso della vista era avvolto in un fine velo nero, il senso dell’udito era smorzato da strati di stoffa, il senso dell’olfatto era limitato, i guanti mi impedivano il senso del tatto: era la mia personale cella di deprivazione sensoriale

Ho lottato per fuggire da quel mondo. Ho rischiato la mia vita e quella di mia figlia affinché fossimo libere.

Immaginate quindi la mia sorpresa nello scoprire che celebrità occidentali, compagnie commerciali e combattenti per la giustizia sociale feticizzano l’hijab. Immagino che le donne iraniane sarebbero sconvolte quanto me nel vedere l’hijab dipinto con l’aerografo nelle pubblicità e nelle riviste e messo persino addosso a Barbie. Probabilmente si sentirebbero tradite nel vedere l’hijab sul poster di una marcia per i diritti delle donne, considerato che hanno marciato contro l’hijab in Iran già nel 1979. Ora, bizzarramente, le donne nordamericane marciano per l’hijab decenni più tardi.

I sostenitori dell’hijab dichiarano che le ragazze islamiche scelgono di indossarlo perché trovano che dia loro potere. Questo è un argomento fasullo. Che qualcuno ti dica come devi vestirti è ben distante dal conferirti potere. E’ un distruttore dell’identità, come le donne in Iran ci stanno mostrando. Sia l’hijab sia il niqab derubano le donne della loro individualità. Stampano “musulmana” sulla loro fronte come se quello fosse l’unica loro caratteristica a rivestire una qualche importanza.

E’ in particolare una beffa che le ditte cosmetiche abbracciano la cultura dell’hijab. Senza percepire alcuna ironia, incorporano modelle velate in campagne pubblicitarie multimilionarie con slogan di emancipazione dietetica che dovrebbero promuovere il valore delle donne come persone.

Lasciando da parte la ritorsione molto pubblica che ne ha avuto L’Oréal, promuovendo e poi rimuovendo la modella con velo Amena Khan per le sue opinioni anti-israeliane, la strategia di marketing resta una contraddizione.

L’Oréal ci dice “Lei ne è degna”, Lancôme che “La vita è bella, vivila a modo tuo” e Revlon dice “Sii indimenticabile”. L’intera idea del coprirsi la testa fa a pugni con gli slogan individualisti. E’ ridicolo pensare che una donna la cui identità è cancellata da un sudario nero possa spruzzarsi addosso del profumo e diventare indimenticabile.

Non c’è dubbio che i pubblicitari strateghi delle ditte cosmetiche sorvolino su tali contraddizioni nello sforzo di espandere la loro quota di mercato nelle comunità musulmane che crescono nei paesi occidentali. Mi domando che slogan usino in luoghi come l’Arabia Saudita e l’Iran, dove chiedere l’empowerment per le donne è un reato.

In questo Giorno Internazionale delle Donne, le donne del Nord America dovrebbero abbandonare i doppi standard sugli hijab ed ergersi in solidarietà con le loro sorelle che lottano in tutto il mondo.”

Maria G. Di Rienzo

Read Full Post »

UK Supreme Court

Cherrylin Reyes ce l’ha fatta. Il più alto grado di giudizio in Gran Bretagna ha accolto la sua denuncia contro i suoi ex datori di lavoro, finora rigettata per la copertura loro offerta dall’immunità diplomatica: si tratta dell’ex ambasciatore saudita Jarallah Al-Malki e di sua moglie. Al-Malki ha terminato il suo incarico nel 2014 e assieme alla famiglia è tornato al paese d’origine.

Cherrylin Reyes, filippina, ha lavorato per gli Al-Malki dal 18 gennaio al 14 marzo 2011. A sostituirla andò Titin Rohaetin Suryadi, indonesiana, dal 16 marzo al 19 settembre dello stesso anno. Entrambe le donne, trafficate nel Regno Unito, hanno riportato le condizioni disumane in cui erano costrette a vivere. Lavoravano 18 ore al giorno sette giorni su sette e non era loro permesso lasciare la casa, eccetto che per portare fuori l’immondizia. In più, erano costantemente soggette a abusi e insulti relativi alla loro appartenenza etnica. A Cherrylin i padroni sequestrarono il passaporto e le proibirono ogni contatto con la propria famiglia. Lo stipendio di Titin era inviato direttamente ai suoi parenti anziché essere pagato a lei: in ambo i casi, era notevolmente inferiore al minimo stabilito per legge.

Cherrylin fuggì dalla casa dell’ambasciatore il 14 marzo 2011 e andò diretta dalla polizia. Titin scappò il successivo 19 settembre, mentre l’ambasciatore era assente e la moglie dormiva.

Cherrylin Reyes ha continuato ad appellarsi alla legge sino a oggi, con l’aiuto di Kalayaan – un’organizzazione umanitaria fondata nel 1987 dalle lavoratrici domestiche e dai loro sostenitori – e dall’Unità anti traffico e sfruttamento del lavoro, una squadra di avvocati/e che fornisce assistenza legale alle vittime di questi abusi.

Le stime delle organizzazioni che lavorano con i/le migranti dicono che almeno 17.000 collaboratrici domestiche arrivano ogni anno in Gran Bretagna: molte sono trafficate, molte sono sfruttate dai datori di lavoro che si sentono in diritto di imprigionarle, batterle, insultarle, pagarle pochissimo o non pagarle affatto.

La sentenza sulla vicenda di Cherrylin ha stabilito il 18 ottobre 2017 un punto di non ritorno. La Corte Suprema ha giudicato ammissibili anche i reclami di due donne marocchine: Fatima Benkharbouce e Minah Janah, che hanno lavorato rispettivamente per le ambasciate del Sudan e della Libia nelle stesse condizioni ignobili. “Sono felice (per la decisione del tribunale). – ha detto Cherrylin Reyes alla stampa – So che ci sono un mucchio di altre domestiche che hanno sofferto quanto me e sono deliziata all’idea che saranno in grado di usare il mio caso per raddrizzare i torti e che non dovranno aspettare per tutto il tempo che ho aspettato io. Io mi vedo come una lottatrice. Portare il caso in tribunale mi ha resa più forte.” Maria G. Di Rienzo

(Fonti: Thomson Reuters Foundation, Women in and beyond the global, The Guardian, The Independent)

Read Full Post »

(“Saudi women are now free to drive – but not to speak about it”, di Julia Rampen per The New Statesman, 27 settembre 2017, trad. Maria G. Di Rienzo. Ndt.: nello stesso giorno, 27 settembre, questo blog ha ricevuto 58 visite dall’Arabia Saudita, cifra irrisoria che diventa rilevante solo per la provenienza – di solito, se arriva un visitatore saudita al mese è tanto. Cercavano questi nomi, le donne di cui ho scritto e tradotto per anni: Manal Al-Sharif, Wajeha al-Huwaider, Fawzia Al-Oyouni. Sono le attiviste femministe che hanno sfidato per anni il divieto di guida automobilistica per le donne nel loro paese e perciò sono state incriminate, arrestate, multate ecc. senza che ciò le inducesse mai a por termine alle loro campagne per i diritti umani delle donne.)

saudi women

Le donne in Arabia Saudita possono finalmente avere patenti di guida, secondo il decreto reale. Nel mentre alcuni lodano Re Salman per essere arrivato al 19° secolo, osservatori più acuti danno credito alle donne saudite che hanno passato un decennio rischiando l’arresto mentre protestavano contro il bando alla guida per le donne.

Le femministe in tutto il mondo sperano che questa mossa sia la prima di molte, una speranza alimentata dal commento di un anziano ministro saudita sul paese che si starebbe imbarcando in una “rivoluzione culturale travestita da riforma economica”.

Pure, sembra che alcune vecchie abitudini siano dure a morire. The New Statesman ha appreso che molte donne coinvolte nella campagna per la guida hanno ricevuto chiamate ufficiali dal governo, in cui si chiede loro di non commentare ne’ negativamente ne’ positivamente l’annuncio. Se ignorano l’ordine, saranno soggette a interrogatorio.

Questa non è una piccola minaccia, in un paese in cui il blogger saudita Raif Badawi è stato condannato a 10 anni di prigione e a 1.000 frustate per il crimine di aver argomentato a favore della laicità, della democrazia e dei diritti umani. (1)

(1) Anche se gli infliggono “solo” 50 frustate a sessione, la sentenza equivale a una condanna a morte per tortura. L’opinione dei medici è che non sopravviverà alle rimanenti.

Read Full Post »

marguerite coppin

La donna in immagine finì sui giornali per aver scandalizzato la città di Bruges, in Belgio. Con la gonna d’epoca fissata alle caviglie da mollette (successivamente disegnerà un tipo di pantaloni più adatto ai suoi scopi) aveva percorso le strade urbane… in bicicletta! “Oltraggioso”, rimarcarono i quotidiani.

La signora era Marguerite Aimee Rosine Coppin (1867 – 1931) nata a Bruxelles, attivista femminista per i diritti delle donne, scrittrice e poeta: diverrà in effetti la “poeta laureata” del Belgio. Come molte femministe delle sua era, considerava la bicicletta una “macchina della libertà” per le donne. La giovane nostra contemporanea ripresa qui sotto condivide questa visione.

baraah

Si chiama Baraah Luhaid, ha 25 anni e vive in un paese, l’Arabia Saudita, in cui il consenso di un uomo è obbligatorio per l’accesso delle donne ai diritti umani e le femministe sono costantemente a rischio di essere processate e imprigionate.

Nel 2013 il bando totale per le cicliste è stato leggermente ammorbidito: le donne saudite possono andare in bicicletta, ma solo nei parchi autorizzati o sulle spiagge e solo se un “tutore” maschio è presente. Baraah Luhaid ha pensato che il resto del cambiamento necessario lo avrebbe spinto da sé.

“Quando faccio attivismo perché le donne possano andare ovunque in bicicletta, sto promuovendo l’indipendenza delle donne. Cambiare credenze radicate profondamente richiede un lento e persistente lavoro. – ha detto nelle interviste – Presenta difficoltà, ma qualcuna deve pur cominciare.”

Così, ha dato inizio a una comunità mista di cicliste/i e aperto un’officina per biciclette (“Il perno dei raggi”) che comprende un caffè e offre servizi e seminari alle donne… all’inizio dal retro di un camioncino, perché Baraah come femmina non è autorizzata a fondare un’attività commerciale – la sua è a nome del fratello, che la sostiene appassionatamente – e i suoi talenti di meccanica e ciclista legalmente potevano essere rivolti solo agli uomini. Ha anche, come Marguerite Coppin, disegnato una versione dell’abito imposto alle donne (abaya) che permette loro di andare in bicicletta più agevolmente, senza che la stoffa si impigli nei raggi.

La sfida più ardua per lei, ha detto di recente a The Guardian, sono le barriere culturali. Quando passa per strada in bicicletta la gente chiude le tapparelle dopo averle urlato insulti e la polizia la ferma regolarmente sia quando la incontra per caso, sia perché riceve allerta sul suo “oltraggioso” comportamento. Ma lei insiste, pedala in pubblico, incoraggia le sue simili a imitarla, cambia raggi rotti e si consola leggendo libri come “Le ruote del cambiamento” di Sue Macy, ove è tracciata la storia delle donne che hanno fatto questo prima di lei. Sa che la bicicletta ha giocato un ruolo importante nel movimento per la liberazione delle donne.

L’officina “Il perno dei raggi” ha vinto di recente un premio governativo per le iniziative in affari. La Principessa Reema, vice presidente dell’Autorità saudita per gli sport femminili, ha pubblicamente approvato il progetto – e simbolicamente ha strizzato l’occhio a Baraah Luhaid.

Maria G. Di Rienzo

Read Full Post »

(“The future is female”, di Waad Janbi, marzo 2017, trad. Maria G. Di Rienzo. Waad è una giovane femminista saudita che sta studiando filmografia negli Usa. Dopo aver partecipato alla Marcia delle Donne il 21 gennaio scorso, ha eseguito un montaggio di immagini della protesta su cui scorre questa sua poesia, scritta anni fa: “Quando ho marciato per i diritti delle donne era la prima volta in cui marciavo per qualcosa, in assoluto. E vedere tutte quelle donne, estranee con differenti retroscena, unirsi per una causa mi ha dato la sensazione che la mia poesia non raccontasse solo la mia storia, che non si trattava solo di me, ma di tutte le donne che potevano collegarsi in modo o nell’altro alla mia storia. Il senso di potere che ho provato durante la manifestazione mi fa desiderare che altre lo provino. Poiché scrivo poesia e sto studiando come creare film, mi è sembrato che entrambi fossero gli attrezzi giusti per farlo.” Non riesco a mettere il link al lavoro di Waad – devo ancora scoprire perché WordPress ne accetta alcuni e ne rifiuta altri – ma se digitate su YouTube “Spoken Word – The future is female – Women March 2017” lo troverete.)

future is female

IL FUTURO E’ FEMMINA

Io so che tipo di ragazzo sei.

So dove stai andando e che sentiero sceglierai.

Perché è facile distinguere maschi come te.

Tu sei il ragazzo che era solito tirarmi la treccia e rovesciare succo di mirtilli sui miei vestiti –

lo stesso ragazzo che mi ha detto, quando ho compiuto 15 anni, che mi amava da quando ne avevamo cinque.

Tu sei l’uomo equivoco alla tv

che parla di donne con arroganza e ci ordina di vestire modestamente,

altrimenti i nostri corpi saranno recipienti per il suo sperma.

Tu sei, sicuramente, il guardiano della mia scuola.

La sua bacchetta non lascia mai la sua mano e non manca mai le nostre cosce.

Io so che tipo di maschio sei.

Se una donna respinge il tuo approccio verso di lei,

tu diventi pazzo e la accusi di adulterio.

Anche se lei ha fatto proprio il contrario.

Tu ti assicuri che comprare prodotti che dicono di essere “solo per uomini”.

Ecco quanto è fragile la tua mascolinità.

Tu sei il giovanotto che mi ha detto di non aver mai conosciuto una donna con la mia integrità e indipendenza –

e poi mi hai chiesto di cucinare per vedere se potevi sposarmi.

Tu sei il vecchio che sbircia le mogli di altri

ma mette catene alle porte per le proprie figlie.

Io so che tipo di uomini siete.

Ma voi non sapete che tipo di donna sono io.

Non mi avete ancora incontrata.

E forse tu stai stringendo una bionda tinta, con la faccia coperta di trucco.

La stai tenendo, ma i tuoi occhi stanno seguendo

una brunetta con labbra che sono il doppio di quelle normali.

E forse, dopo aver fottuto entrambe

ti posi all’angolo per fottere la tua sigaretta

e forse qualche libro che farà di te un genio

e ti permetterà di collezionare altre donne come loro nel tuo contenitore di cuori.

Non mi hai ancora incontrata.

E quando lo farai, non sarai attratto

dal mio corpo rozzo e non in forma

o dal mio taglio di capelli “da ragazzo”.

Il mio trucco da cinque minuti non ti farà girare la testa.

Non mi guarderai due volte quando ti passerò accanto.

Le tue sopracciglia si alzeranno in segno di disapprovazione

quando sentirai la mia stramba risata.

E ti chiederei perché mi incastro da sola non appena comincio a parlare.

Sarai confuso da una donna mediorientale che è fiera dei suoi difetti

e che discute liberamente della fascinazione e attrazione che prova per il suo genere.

Apprezzerai tua madre, la tradizionalista conservatrice, quando mi sentirai lodare altre culture e criticare il nostro mondo arabo.

Quando mi incontrerai, ti chiederai perché ci sono donne come me, al mondo.

Donne che sono fatte d’acciaio.

Donne che mangiano con le mani e non rifiutano mai il dessert.

Donne che gridano per i loro diritti e l’eguaglianza.

Donne che preferiscono leggere invece di passare ore in cucina.

Donne che ondeggiano al suono della musica e non attendono il tuo applauso.

Donne che salgono sugli aerei con una piccola borsa – in essa c’è qualche abito e un mucchio di libri.

Donne come me, che disturbano la bilancia mondiale e la rovinano.

E quando infine mi incontri, e non intendo quando mi vedi e quando ci scambiamo frasi di cortesia:

quando mi incontri e ascolti quel che ho da dire.

Quando percepisci i miei pensieri e vedi oltre la mia apparenza che ti confonde.

Quando scopri che la tua anima si muove al suono della mia musica contro la tua volontà.

Quando la mia canzone raggiunge quella parte abbandonata della tua mente.

Quando rispondo solo con una smorfia al tuo complimento pacchiano.

Quando i tuoi tentativi di ballare con me falliscono.

Quando capisci che non conoscevi la vera bellezza sino a che non mi hai incontrata.

Quando mi incontrerai in questo modo, mi adorerai.

Amerai il mio estremismo espresso nella musica, nei miei scopi, nei miei principi radicali,

amerai il modo in cui porto i capelli corti e colorati, e la mia preferenza per i vestiti neri.

Il caos riempirà la tua vita.

Odierai tutte le donne che sono cadute nelle tue trappole.

Maledirai tua madre, perché ti aveva detto che le donne forti sono un mito o una vergogna.

E quando mi incontrerai, dopo tutto questo, io non sarò capace di differenziarti dagli altri.

Come vedi, io so che tipo di ragazzo sei.

Ma tu non sai che tipo di donna sono io.

E questo è il motivo per cui tu perdi sempre con me, e io ti sconfiggo sempre.

Solo che la vita non è una gara, e fino a che non siamo entrambi certi di questo,

tu devi solo spostarti e lasciarmi passare.

Read Full Post »

(“No One Should Work This Way – Ending the Abuse of Asian Women Domestic Workers”, di Karen Emmons per l’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Trad. Maria G. Di Rienzo. Dal 2012 al 2014 la giornalista Karen Emmons, insieme con il fotografo Steve McCurry, ha raccolto nella regione asiatica del Pacifico le testimonianze di persone che lavorano come domestiche/i.)

Per due anni ho viaggiato attraverso l’Asia con il fotografo Steve McCurry per documentare gli abusi che alcuni lavoratori domestici sopportano nelle case dei loro datori di lavoro, nei loro paesi e all’estero. Abbiamo trovato casi di lavoro minorile, lavoro forzato, traffico di esseri umani, stupro, denutrizione, eccessiva lunghezza dell’orario lavorativo, scarso salario o nessun salario e restrizioni sulla libertà di movimento e di comunicazione.

Abbiamo parlato con persone che sono state picchiate con pentole, scope, bastoni e tubi di metallo.

domestic worker2

Abbiamo sentito le storie delle donne che sono tornate a casa in coma o in una bara. Le vittime erano femmine e maschi, giovani e anziani, istruiti e illetterati (e chi aveva abusato di loro condivideva questa varietà: femmine e maschi, ricchi e classe media, vecchi e giovani). Ciò che le univa era una combinazione tossica di disperazione, nata dalla povertà, e di mancanza di protezione da parte della legge; nella maggioranza delle nazioni i lavoratori domestici non sono protetti dalle leggi sul lavoro, e in alcune sono visti come un forma di “proprietà”.

Abbiamo incontrato una donna nepalese che è rimasta cieca a causa dei ripetuti pestaggi a lei inflitti dalla sua datrice di lavoro in Arabia Saudita, che le sfregava pure feci sul volto. La schiena di una donna indonesiana era stata pesantemente piagata – in modo surreale nella forma di ali d’angelo – da acqua bollente gettatale addosso dal suo datore di lavoro maschio in Malesia. Ho tentato di contare le cicatrici sul corpo di un’altra donna indonesiana ma ho perso il conto dopo essere arrivata a 20.

domestic worker

In Nepal abbiamo intervistato una donna incinta che, quando disse alla sua datrice di lavoro in Oman che il marito poliziotto di costei l’aveva stuprata, fu gettata in prigione per cinque mesi per “seduzione”. Poiché aspettata un bambino rimaneva nascosta, nel timore che la sua famiglia l’avrebbe respinta. Un’altra donna nepalese, assunta da una famiglia in Kuwait affinché badasse a 13 bambini, ha subito un pestaggio per essersi rifiutata di lavorare nel bordello familiare.

In un rifugio di Hong Kong una donna indonesiana mi ha raccontato come la sua datrice di lavoro si rivolgeva a lei: “Vieni qua, cagna. Sei stupida. Sei una cagna. Qua, serva, muoviti.” Nello stesso rifugio, una sua compatriota ricordava come, a causa del poco cibo che le davano, perse quasi 14 chili prima di riuscire a scappare.

Una donna filippina ci disse che le era stato assegnato come letto il ripiano della lavatrice. Spiegò che il suo datore di lavoro preferiva fare il bucato di notte, perciò lei doveva tentare di prender sonno mentre la lavatrice ribolliva e si scuoteva. Ma che poteva fare? A Hong Kong (uno dei pochi paesi al mondo che ha effettivamente una legislazione riguardante il lavoro domestico) la legge stabilisce che i domestici devono vivere con i loro datori di lavoro, anche se la loro “stanza” è un armadio, una rampa di scale, un bagno – o il ripiano della lavatrice.

Non si tratta solo di cattivi datori di lavoro e di leggi inadeguate. Anche le agenzie per l’impiego sono colpevoli di questi abusi. Abbiamo fotografato una donna indonesiana ad Hong Kong a cui chi l’aveva assunta disse: “Se ti pesto e ti uccido, non lo saprà mai nessuno.” La sua agenzia reagì offrendole un aumento di stipendio perché restasse. Quando lei rifiutò, l’agenzia mandò al suo posto un’altra donna. Quando anche questa lasciò il posto, l’agenzia la rimpiazzò con la cameriera indonesiana Erwiana Sulistyaningsih (1), i cui otto mesi di orripilanti abusi hanno avuto titoli internazionali e sono risultati in accuse penali contro il datore di lavoro.

Un’ulteriore donna indonesiana che abbiamo incontrato era scappata, in Malesia, a causa delle battiture inflittele dal giovane datore di lavoro maschio. Ha perso un dente quando lui le ha tirato una scarpa in faccia per aver riscaldato la zuppa “sbagliata” ed ha un’orecchia deformata in modo permanente dal costante torcergliela di costui. Pure, la polizia l’ha riportata indietro e l’agenzia di impiego l’ha minacciata di azioni legali se fosse fuggita di nuovo. Oggi sta considerando, riluttante, l’idea di tornare all’estero per lavorare come domestica perché suo marito non riesce a trovare un’occupazione.

Non si tratta di esperienze poco comuni. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro, che ha finanziato il nostro progetto fotografico, stima vi siano più di 52 milioni di lavoratrici / lavoratori domestiche/i al mondo. Se anche solo un piccola percentuale di esse/i fa esperienza di stupefacente meschinità e di azioni criminali, si tratta sempre di un vasto numero.

Ovviamente, molte persone che svolgono lavoro domestico hanno esperienze buone. E ci sono certamente molti datori di lavoro decenti, in ogni paese. Ma noi vogliamo far sapere a chi abusa che quel che accade dietro le porte chiuse non può essere tenuto segreto.

Steve McCurry ed io volevano che si sapesse come tali abusi lasciano le loro cicatrici sulle esistenze delle persone quanto le lasciano sui loro corpi. Steve, che è l’autore della famosa copertina del National Geographic detta “Ragazza afgana”, sa come i ritratti riescano a portare istanze alla luce e a rendere l’impegno per il cambiamento irresistibile e indimenticabile. Insieme, volevamo sostenere la campagna che chiede per le domestiche / i domestici la stessa effettiva protezione legale garantita agli altri lavoratori.

Nel 2011, una nuova Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro che tratta nello specifico i diritti di svolge lavoro domestico è entrata in vigore. (2) Sino ad ora, è stata ratificata da 16 paesi – solo uno (Filippine) appartiene all’Asia del Pacifico e nessun paese l’ha ratificata in Medioriente. Ratificare la Convenzione n. 189 è importante, non solo perché obbliga i governi ad allineare ad essa le loro leggi nazionali, ma anche perché manda alla società il messaggio che le domestiche / i domestici hanno gli stessi diritti degli altri lavoratori.

Nessuno dovrebbe lavorare nelle condizioni in cui hanno lavorato le persone che abbiamo fotografato.

(1) Vedi anche:

https://lunanuvola.wordpress.com/2015/05/17/una-donna-come-me/

(2) Ndt.: L’Italia ha ratificato la Convenzione n. 189 nel 2013.

Read Full Post »

vecchio, che ancora contieni simili genti!

Miranda, "La Tempesta" di Shakespeare

Miranda, “La Tempesta” di Shakespeare

Miranda probabilmente oggi direbbe così la sua battuta più famosa. Perché se ad esempio fosse una brasiliana di San Paolo, alla domanda per insegnare nelle scuole del suo stato dovrebbe allegare i risultati di un Pap test o una dichiarazione medica che accerti il suo “non essere sessualmente attiva”. Ma le va bene, sapete, sino a un paio di anni fa doveva allegare alla domanda anche i risultati di una colposcopia (esame della cervice uterina). Niente di simile è ovviamente richiesto agli uomini che vogliono insegnare. A loro basta il normale certificato di “sana costituzione” ecc.

Be’, Miranda mica deve fare l’insegnante per forza: potrebbe spostarsi nello stato di Bahia o persino emigrare in Indonesia e, che so, cercare di entrare nelle forze dell’ordine: ma ops, in entrambe le località per fare la poliziotta deve avere l’imene in ordine, “non lacerato”. Questo è sempre importante, nevvero, ma diventa essenziale in una professione che ha (ok, avrebbe) come scopo la difesa dei cittadini e delle leggi, non si vorrà mica affidare tale onorevole compito ad una sgualdrina che l’ha già data via. I poliziotti maschi? Che domanda insulsa, sono maschi, quindi sono perfetti a priori e non ci sogneremmo mai di violare la loro privacy in questo modo; inoltre, si sa che gli uomini sono diversi e più fanno sesso più sono veri uomini e la morale sessuale la dettano ma non sono tenuti a osservarla.

D’altronde, Miranda potrebbe cercare di svolgere mestieri più ladylike, come il partecipare seminuda a comparsate televisive (gli uomini partecipano vestiti, vedete quanti privilegi hanno le donne al giorno d’oggi!) ed ottenere perciò il massimo rispetto. Certo, ci sono piccoli incidenti come quello accaduto durante uno show russo (“Tocca l’auto” – 7.12.2014) dove la concorrente in bikini è stata presa a cazzotti dal concorrente maschio che le ha rotto il setto nasale. E persino diventando una “star” qualche minuscola difficoltà può sempre occorrere, come ben sa l’attrice di Bollywood – l’Hollywood indiano – Gauahar Khan che è stata presa a schiaffi da un giovane signore dal pubblico (Concorso canoro “Stella grezza”, Mumbai, 2.12.2014). Il 24enne si è scagliato sulla donna perché, come ha spiegato in seguito alla polizia, lei “Essendo una musulmana non avrebbe dovuto indossare un abito così corto.”

Qualunque cosa faccia, Miranda dovrebbe sempre dare la massima attenzione al suo vestiario rispondendo a questa domanda fondamentale: ciò che indosso piace agli uomini? Perché se la risposta è “no”, gli uomini si arrabbieranno e potrebbero insegnarle ad essere più educata con qualche rudezza – sono maschi, dopotutto, è la natura che vuol così. E se la risposta è “sì”, potrebbe accadere che gli uomini compiaciuti si compiacciano al punto da premiarla con molestie e stupri… insomma, l’importante è che Miranda si renda conto che è sempre colpa sua. Kenya, situazione esemplare: il mese scorso, a Nairobi, dozzine di uomini hanno trascinato giù dall’autobus una donna perché indossava una gonna a loro giudizio troppo corta. Indecente. Svergognata. Porca. Allora cosa hanno fatto? Hanno spogliato la donna completamente (trionfo della logica) e l’hanno bastonata in strada (trionfo della cura, della sensibilità e della civiltà mascolina).

Sì, penso anch’io che Miranda abbia bisogno di prendersi una pausa a questo punto. Allontanarsi da ricerche di impieghi e mezzi pubblici, fare qualcosa da sola per lei sola. Magari concedendosi un pranzo al ristorante? Certo, purché non in Arabia Saudita. I ristoranti non accettano più donne sole, hanno i relativi cartelli affissi fuori, identici a quelli che bandiscono l’ingresso ai cani oggi e bandivano l’ingresso ai non ariani ieri. Ci vuole “un guardiano maschio”, spiegano i gestori degli esercizi, perché le donne sono “mentalmente instabili” e se sono da sole “fumano, usano telefoni cellulari e flirtano causando incredibile imbarazzo”. Giusto, una donna non accompagnata cercherà per forza un uomo che le faccia compagnia – strizzatina d’occhio -, una donna senza un uomo non è niente, non può voler stare per i fatti suoi e ridere al telefono con la sua migliore amica, la sua amata o il suo fidanzato. Da sola in un locale “flirterà” certamente.

Ma anche quando le donne sono accompagnate risultano problematiche, continuano i ristoratori: “Parlano a voce troppo alta, è davvero insopportabile e irrispettoso, e può avere un effetto negativo sui nostri affari.” Forse sarebbe meglio non farle entrare del tutto, maschio di guardia presente o meno.

Imporre alle donne un codice di abbigliamento – e niente di simile per gli uomini; bandirle dalla guida di automezzi; permettere loro di andare in bicicletta solo in presenza del “guardiano” suddetto e non fissare per loro un’età legale minima per il matrimonio, invece, sono cose sopportabilissime e rivelatrici del massimo rispetto. E oggi non ti parlo dell’Italia, Miranda, perché ne ho abbastanza. Maria G. Di Rienzo

Read Full Post »

(“Saudi Activist Manal Al-Sharif on Why She Removed the Veil”, intervento di Manal Al-Sharif per Advancing Human Rights, 30 ottobre 2014, trad. Maria G. Di Rienzo. Manal è una delle più famose attiviste per i diritti umani delle donne del suo paese, l’Arabia Saudita, dove ha guidato la protesta contro il divieto di guidare automobili per le donne ed è stata arrestata per questo.)

Manal

Nessun pezzo di stoffa nella storia ha causato più controversie del velo. Molte donne musulmane sono costrette ad indossarlo ogni giorno. L’hijab ha uno spettro, ovviamente, che va dalla sua incarnazione più radicale – il niqab che copre l’intero volto – a fazzoletti da testa portati in modo sciolto.

L’Arabia Saudita è seconda solo all’Iran nell’usare il potere del bastone (il Comitato per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio o la polizia religiosa) per imporre una particolare forma e un particolare colore dell’hijab a tutte le nostre donne. E quando dico “tutte le nostre donne” intendo proprio tutte: saudite e non saudite, musulmane e non musulmane.

Considerando solo la dimensione del paese si capisce che ciascuna regione dell’Arabia Saudita contiene una gran varietà di culture, dialetti e sette religiose. Sino agli anni ’70 le donne qui erano libere di indossare più o meno qualsiasi cosa volessero.

Le beduine indossavano vesti dai colori brillanti e i burqa, ma lasciando esposti la scriminatura dei capelli e gli occhi sottolineati dal kohl. Le donne di città indossavano i loro abaya, la stoffa arrotolata attorno alla vita. Le donne arabe indossavano hijab colorati e le donne non musulmane vestivano modestamente e non portavano velo.

Le donne del villaggio di mio padre, Tarfa a nord ovest della Mecca, indossavano abiti colorati con sciarpe bianche e rosa attorno alla testa e al collo. Come le beduine, lasciavano esposti i loro volti e parte dei capelli.

Tutto questo cambiò quando l’ondata di fanatismo religioso sostenuta dallo stato colpì la nostra società. L’abaya nero e la faccia coperta furono imposte a tutte le impiegate statali, nelle scuole e nelle università. E l’hijab nero fu imposto a tutte le donne non saudite, al di là del loro credo. Divenne impensabile nella mia città natale, la Mecca, vedere una donna che non indossasse il niqab: rivelare il tuo viso era un tabù sociale e haram (proibito, ndt.) agli occhi della religione. Volantini che dicevano come il coprirsi il volto distinguesse la donna musulmana dall’infedele furono massicciamente distribuiti durante quest’epoca. Il fanatismo si diffuse sino a toccare i bambini: ben prima che decidessi di togliermi il niqab per sempre, una bimba decenne seduta accanto a me su un aeroplano mi chiamò “infedele” quando sollevai il velo per mangiare un pasto.

In uno dei volantini distribuiti durante il periodo del cosiddetto risveglio islamico si legge:

“Mia sorella musulmana: oggi, tu fronteggi un’incessante e astuta guerra perpetrata dai nemici dell’Islam con lo scopo di raggiungerti e di rimuoverti dalla tua impenetrabile fortezza. Una delle cose che questi nemici dell’Islam tentano di screditare è l’hijab. Alcuni di essi hanno persino detto che la situazione all’Est non si raddrizzerà sino a che l’hijab sarà sollevato dai volti delle donne e usato per coprire il Corano!” Questa medesima ideologia è stata esportata dall’Arabia Saudita tramite il potere del petrodollaro. Io ricordo i giorni della guerra in Bosnia (1992 – 1995), quando l’Arabia Saudita inviava convogli di aiuti agli assediati di Sarajevo. Le persone che si occupavano dei convogli distribuivano hijab alle donne assediate assieme ai cartoni di cibo.

Si arrivò infine al punto in cui l’unica interpretazione accettabile dell’hijab nel nostro paese era che le donne si avvolgessero completamente, faccia e corpo, in un sudario nero. Sebbene per chiunque fuori dai nostri confini una donna saudita fosse indistinguibile da un’altra, i sauditi svilupparono una particolare abilità nel riconoscere quale donna languisse nel nero. Mio padre era in grado di distinguermi fra dozzine di altre ragazze fuori dalle mura dell’università; non mi prese mai per un’altra. Allo stesso modo, non abbiamo mai mancato di riconoscere parenti e amici quanto li incrociavamo sulle strade o alla moschea. Abbiamo sviluppato una grande sensibilità per le caratteristiche e gli attributi di coloro che ci circondano: le loro voci, il modo in cui portano il niqab, i loro occhi, la loro andatura, e persino il tipo di abaya e le borse e le scarpe che indossano.

Dopo di che arrivarono gli anni ’90 portando con loro i canali satellitari e dopo di ciò la svolta del millennio, che annunciava l’evoluzione delle nuove forme di comunicazione: internet e gli smart phones. Almeno, noi si ebbe accesso a punti di vista che sfidavano lo status quo, l’opinione unica che così a lungo ci era stata presentata come unica scelta corretta. Era la sola, ci avevano detto, che seguiva le vie del Profeta e che davvero rappresentava l’Islam. La nostra società conservatrice cominciò a farsi domande e a sollevare dubbi sulle cose che erano state, per molto tempo, imposte a noi come scontate tramite il potere della religione e la benedizione dello stato.

Una delle prime cose ad essere messa in questione fu la ristretta interpretazione wahabita dell’hijab, ma per me personalmente la cosa non fu resa più facile. Quando decisi di rimuovere il niqab nel 2002 dovetti fronteggiare un’amara guerra con la mia famiglia e con la società. Mia madre indossava il niqab durante il periodo del “risveglio islamico” e sebbene non lo usasse quando usciva dall’Arabia Saudita, si oppose al fatto che io lo togliessi a casa. La ragione era sociale, non religiosa: “Figlia mia, nessuno ti sposerà sei mostri la tua faccia!”

Se la gente che incrociavo per le strade della Mecca sapeva che ero saudita mi tributava duri sguardi di disapprovazione. Un giorno, stavo compiendo il tawaf (sette giri in senso antiorario attorno alla Kaaba o Ka’ba, costruzione a cubo coperta di tessuto nero, il luogo più sacro dell’Islam, ndt.) e l’osservatore, il cui compito era regolare i movimenti delle persone, mi rimproverava a voce alta per l’assenza di niqab ogni volta in cui gli passavo vicina. “Copriti la faccia, donna!”, urlava. La terza volta gli indicai con l’indice le persone attorno a me: “Tutte queste donne a volto scoperto, sono disobbedienti anch’esse? O sono solo io ad essere una peccatrice, perché sono saudita?” Completai il resto dei miei giri senza sentire un’altra parola.

Sebbene non indossassi il niqab per strada o sul luogo di lavoro, dovetti prenderne uno a prestito da un’amica per entrare in tribunale, giacché alle donne non è permesso entrare negli edifici governativi con il viso scoperto. Fui anche costretta a portare con me due “verificatori di identità” di sesso maschile per attestare chi ero, nonostante portassi con me la mia carta d’identità.

Sebbene i volti scoperti delle donne potessero essere il più grosso cambiamento ad accadere nella società saudita, non fu l’unico che le donne osarono. Un gruppo di giovani a Jeddah cominciò ad indossare abaya colorati; presto, indumenti in grigio, blu marina e marrone scuro apparvero nei negozi della città. Quando gli stessi colori fecero la loro comparsa a Riyadh, la polizia religiosa lanciò una campagna per confiscarli dai negozi. “Se questa è la loro reazione al marrone e al grigio”, mi chiesi, “come reagirebbero alla vista del rosa o del rosso?” Volevo provare.

Andai al negozio dove mi servivo usualmente e chiesi se potevano farmi un abaya colorato, ma il proprietario rifiutò recisamente: “Se vedono un abaya colorato nel mio negozio, sarò interrogato e maltrattato dagli uomini della polizia religiosa!” Le mie amiche mi indicarono però gli esercizi che erano lieti di accontentare le clienti con stoffe colorate e che consegnavano gli indumenti senza farsi vedere dalla polizia religiosa.

L’altro cambiamento riguardò il simbolismo dell’abaya: il suo significato non era più solo di natura religiosa e sociale. Piuttosto, divenne una faccenda di moda, con tendenze che andavano e venivano come per ogni altro capo di abbigliamento. Vedemmo spuntare disegnatori di moda specializzati nella creazione di abaya, che cominciarono a tenere sfilate per promuovere i loro ultimi prodotti. A seconda della fama del designer, della qualità della stoffa e dei materiali usati per i ricami, i prezzi potevano aggirarsi attorno alle decine di migliaia di riyal al pezzo. Diversi tipi di abaya emersero per adattarsi a differenti occasioni: l’abaya per andare al lavoro o a far la spesa era caratterizzato dalla praticità, mentre gli abaya disegnati per le occasioni speciali erano caratterizzati dai ricami e dal lusso. C’erano persino abaya invernali e abaya estivi.

Nonostante tutti questi cambiamenti, le forze statali continuarono ad imporre l’abaya nero in pubblico. I loro sostenitori dissero che ciò aiutava a preservare la virtù ed era un’affermazione della sharia, o legge islamica. Ciò su cui sorvolavano era che l’imposizione di un abito specifico ad una parte della popolazione era un precedente che non si era mai dato nell’intera storia del paese. La forma e il colore dei vestiti erano una cosa su cui la società decideva per sé da lungo tempo e alle autorità importava assai poco cosa ne risultava, fintanto che era decente.

L’imposizione dell’abaya nero è innaturale; non rappresenta null’altro che un’ostruzione alla vita normale e alla naturale evoluzione che occorre negli usi delle popolazioni e nei loro modi di vestire, qualcosa che storicamente è basato sui bisogni delle persone e sui cambiamenti di circostanze.

Read Full Post »

Dovrei guidare perché non sono da meno di un uomo o di una donna di un altro paese

Dovrei guidare perché non sono da meno di un uomo o di una donna di un altro paese

Alle donne è proibito guidare l’automobile, in Arabia Saudita. Posso essere condannate sino a 10 colpi di frusta se lo fanno. Da anni le donne saudite sfidano la proibizione (oggi erano in 60 e sembra che nessuna sia stata aggredita o fermata).

Nel 2011, chierici sauditi dissero che togliere il bando, o persino solo allentarlo, avrebbe indotto uomini e donne “a darsi all’omosessualità e alla pornografia”: quest’anno, fra loro, la figura da chiodi l’ha fatta lo sceicco Saleh al-Lohaidan (o al-Luhaydan), spiegando che se una donna guida l’auto danneggia le proprie ovaie e i suoi figli futuri nasceranno con chissà quali malattie genetiche.

L’insigne studioso dell’Islam ha purtroppo mancato di dare un’occhiata ai figli che ci sono già. Io non so se la madre del comico Hisham Fageeh guidi l’auto certo è che, a giudicare dal video, questo giovane uomo sarcastico e pungente deve avere una qualche malattia. Credo… lo dico sottovoce per non spaventarla, sceicco… credo che dentro al cranio abbia un cervello. E, possa dio essere misericordioso, lo usa!

no woman no drive

http://www.youtube.com/watch?v=aZMbTFNp4wI

Rifacimento di “No woman no cry” di Bob Marley. Questo, più o meno, il testo:

No donna, non guidare. Ricordo quando eri solita sederti nella macchina di famiglia, ma sul retro.

No sorellina, non toccare quel volante. Così le tue ovaie saranno a posto e potrai fare tanti, tanti bambini.

I tuoi piedi sono il tuo unico mezzo di trasporto, ma solo in casa. E dico sul serio.

No donna, non guidare. Piuttosto cucinami il pranzo, e io poi lo dividerò con te. E tutto andrà bene.

Maria G. Di Rienzo

Read Full Post »

Older Posts »

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: