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Okja e Mija

Dopo essere riuscita a vederlo con qualche difficoltà – ed essere rimasta perplessa e un po’ delusa – ero incerta se recensire o meno “Okja” (sapete, il film che è stato al centro delle polemiche a Cannes perché è una produzione Netflix e non passa per i cinematografi). Poi ho pensato che dovevo dirlo: Ahn Seo-Hyeon, la ragazzina che regge l’intera storia sulle proprie spalle, è un’attrice straordinaria e nel mio cuore ha già vinto palme d’oro, leoni di diamante e… maialini di platino.

Il regista è quel Bong Joon-ho che aveva superato in modo magistrale la sfida di “Snowpiercer” e, per quanto riguarda i momenti “motivazionali” e d’azione del film, quando Seo-Hyeon è presente va tutto alla perfezione. Il problema è che gli altri personaggi sono francamente non verosimili e sembrano cartoni animati o immagini generate al computer ben più del super-maiale Okja.

La vicenda è questa: una corporazione economica con una brutta fama di sfruttamento dei lavoratori alle spalle, la Mirando, lancia tramite la nuova presidente (Tilda Swinton) il progetto propagandistico che deve salvarne le sorti. Fingendo di aver semplicemente “scoperto” i maiali giganti che ha creato in laboratorio modificandoli a livello genetico, ne consegna 26 alle altrettanti sedi che ha in giro per il mondo, affinché siano allevati “in modo naturale” in fattorie locali nei dieci anni necessari a raggiungere la maturità – e possano essere trasformati in salsicce per “combattere la fame nel mondo”. Quest’ultima è la giustificazione che i produttori di ogm hanno sempre dato per i loro esperimenti del menga – e dico “del menga” senza tema di smentita perché sono stati tutti fallimenti, dalle sementi modificate che hanno invaso e distrutto altre colture e non hanno dato resa superiore alle loro equivalenti naturali, al geniale progetto di far mangiare patate crude “potenziate” con vitamine alle popolazioni povere e afflitte da malattie relative a una nutrizione insufficiente. Se poi vogliamo parlare di quanti contadini sono stati ridotti in miseria da queste redditizie frodi e di quanti, soprattutto in India, si sono tolti la vita grazie ad esse, possiamo aggiungere a “frodi” una sola specificazione: esiziali per l’ecosistema terrestre, umanità compresa.

Ad ogni modo, tornando alla trama, in Corea del Sud la maialina Okja cresce assieme alla bambina Mija nella fattoria del nonno di quest’ultima, diventandone la migliore amica. Quando gli uomini della corporazione vengono a riprendere l’animale, dicendo che vogliono mostrarlo alla loro fiera in programma a New York, a Mija resta la statuetta d’oro di un maiale come dono compensatorio e la sensazione che qualcosa non stia funzionando: perciò decide di seguire Okja. Lo farà per tutto il resto del film, con tutto quel che ha, con una determinazione e una forza commoventi, rischiando la vita nello sfondare vetrate e nel saltare da terrazze sopra automezzi in movimento, resistendo o negoziando, ma senza un solo attimo di cedimento. I momenti in cui riesce a riunirsi a Okja e le due “si parlano”, con sussurri nell’orecchio e carezze da parte della bambina, e movimenti e occhiate inequivocabili da parte dell’animale (che nella fattoria aveva imparato ad alzarsi su due zampe per abbracciare l’amica) sono i più intensi e i più “veri”.

friends

Purtroppo, come ho già detto, il resto degli attori sembra fatto di compensato, “finto” persino nelle scelte di abbigliamento e nelle espressioni facciali: perciò non riusciamo ad interessarci alla competizione interna alla Mirando – la presidente ha una gemella ancora più carogna e bugiarda di lei – e non riusciamo ad avvicinarci alla comprensione di una squadra di militanti dell’Animal Liberation Front presentata in modo ridicolo, in cui per esempio uno dei membri ha smesso di mangiare “per lasciare minor impronta ecologica sul pianeta”… La parte finale, ambientata nell’allevamento intensivo dei super-maiali nel New Jersey che assomiglia in tutto e per tutto a un campo di concentramento, è invece assai verosimile e difficile da maneggiare perché mostra senza veli l’ammontare di inutile (e qualche volta compiaciuta) crudeltà diretta agli animali destinati a diventare cibo per gli esseri umani. Io non l’ho retta completamente e ho dovuto saltare qualche pezzetto.

La dichiarazione del regista – e sceneggiatore assieme al giornalista Jon Ronson – Bong Joon-ho non sembra essere “anti-carne”, infatti mostra Mija e il nonno che mangiano pesci e pollo senza porsi il problema, ma sicuramente mette all’indice un determinato modo di produrre carne da consumo umano privo di qualsiasi traccia di etica e di responsabilità. La ragazzina alla fine vince: comprerà la salvezza di Okja con la statuetta d’oro, ma la camminata che la porta fuori dal macello con la sua amica – resa nei toni di un grigio metallico con poche pennellate di colore – è una via crucis costellata dalle grida degli altri animali e dalla visione delle torture a loro inflitte. La scena finale del ritorno di Okja e Mija alla fattoria e alla vita precedente resta dolce-amara, macchiata dalla consapevolezza che tutto quel che abbiamo visto pochi secondi prima sta ancora accadendo. Maria G. Di Rienzo

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Doni con le ali

doni

Quelli che vedete sono solo alcuni dei doni che Gabi Mann, una bimba di 8 anni di Seattle (Usa), riceve da un paio d’anni dai suoi amici. Ne ha scatole e scatole – e ogni oggetto ha un’etichetta con la data e una descrizione sommaria: un pezzo di lampadina, un frammento di vetro giallo levigato dall’acqua, una pallina d’argento, un bottone nero, una graffetta blu, un pezzo di Lego. Non giudicate male gli amici di Gabi. Per lei questi regali valgono più dell’oro. E i suoi amici sono corvi.

gabi

Gabi ha cominciato ad attirare la loro attenzione quando non aveva più di quattro anni ed era incline a lasciar cadere pezzetti di quel mangiava (che i corvi recuperavano subito). Mentre cresceva, cominciò a condividere con loro la merenda quando andava a prendere l’autobus per recarsi all’asilo e poi a scuola. Il suo fratellino minore prese ad imitarla e mamma Lisa a mettere nei cestini un po’ di cibo in più: “Mi piace che amino gli animali e che siano disposti a condividere quel che hanno. Non avevo mai prestato attenzione ai corvi, sino a che mia figlia non si è interessata a loro. E’ stata una sorta di trasformazione.”

Nel 2013, Gabi e sua madre hanno preso ad offrire cibo ai corvi giornalmente nel giardino sul retro della loro casa: lo hanno attrezzato con una vaschetta d’acqua fresca per il bagno dei volatili e piattaforme per le arachidi; in più, Gabi getta manciate di croccantini per cani sull’erba del prato. Mentre madre e figlia lavorano, i corvi aspettano sui fili delle linee telefoniche, salutandole rumorosamente. Poco tempo dopo l’adozione di questa routine, sono cominciati ad arrivare i doni.

I corvi li lasciano al posto delle arachidi che spazzano via: cose luminose e abbastanza piccole per essere portate nel becco, cose che dicono “grazie”.

Gabi ne è assolutamente consapevole: “Una volta hanno lasciato un pezzo di metallo con su incisa la parola migliore. Non so se hanno ancora l’altra parte, quella con su scritto amica.”, e ride, deliziata all’idea di un corvo con addosso una collanina che combaci con la sua. Ma il regalo che le è più caro è un cuoricino color perla: “Mostra quanto mi vogliono bene.”

ospite a cena

La mamma di Gabi adesso fotografa regolarmente i corvi e gli altri uccelli del vicinato. Qualche settimana fa ha perso il cappuccio di una lente fotografica mentre riprendeva un’aquila. Non ha dovuto fare lo sforzo di mettersi a cercarlo. Come mostra il filmato della telecamera in giardino, un corvo gentile l’ha recuperato, l’ha sciacquato più volte nella vaschetta dell’acqua e gliel’ha posato sul bordo della stessa.

Non so voi, ma io ogni tanto ho bisogno di storie come questa. Mi fanno respirare come se l’aria fosse nuova di zecca, allegra e piena di promesse.

Maria G. Di Rienzo

N.B.: Le immagini sono particolari di fotografie di Lisa Mann (Gabi e il corvo) e di Katy Sewall (i doni). Quest’ultima ha scritto un ampio articolo sulla vicenda per BBC News Magazine.

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conto su di te

Non credo sia la nascita, a caso, a fare delle persone sorelle o fratelli. Li fa consanguinei, dà loro la mutualità della parentela. La sorellanza e la fratellanza sono condizioni su cui le persone devono lavorare. Maya Angelou

Ma è un lavoro d’amore, e non è così difficile. Vedete come non-umani ci riescono benissimo? Buona giornata, mie care e miei cari. Maria G. Di Rienzo

mi piace averti vicino

ti metto a posto i capelli

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Cosa faccio se un’amica (una collega, una parente, una conoscente, una vicina di casa…) mi dice che sta subendo violenza domestica? Visto che spesso questa domanda mi viene posta durante i seminari che tengo su violenza/nonviolenza, ho pensato che forse anche qualche mia lettrice o qualche mio lettore si trova ora in una situazione simile. Ecco la risposta.

 amiche

ASCOLTALA: Dai all’amica la tua completa attenzione. Falle capire che hai compreso quel che è stato detto. Fai domande in modo e in tono rispettoso.

CREDILE: Credi a ciò che ti sta dicendo. Dai riconoscimento al fatto che aprirsi a te le ha richiesto una grande dose di forza e di coraggio. E’ raro che qualcuno menta in tema di violenza domestica.

CERCA DI CAPIRE: Sforzati di comprendere i pensieri, i sentimenti, le esperienze che lei ha scelto di dividere con te. Puoi dire cose del tipo: “Deve averti spaventato molto”, oppure “Mi dispiace tanto che questo sia accaduto”.

LEGITTIMA I SUOI SENTIMENTI E LA SUA FORZA: Nell’aprirsi a te, la tua amica ha appena compiuto un passo fondamentale nel maneggiare il dolore di una relazione violenta. E’ estremamente importante che tu dia valore sia ai sentimenti espressi sia alla forza che è stata necessaria per condividerli: “Sono contenta che tu lo stia dicendo a me”; “Grazie per la fiducia che hai in me”.

AIUTALA A FARE PIANI PER LA SUA SICUREZZA: E’ essenziale toccare il tema della sua sicurezza fisica. Puoi cominciare il dialogo così: “Sono preoccupata per la tua salute, la tua sicurezza, il tuo benessere. Possiamo parlare di come potresti tentare di essere più al sicuro?”

AIUTALA A CAPIRE CHE LA VIOLENZA NON E’ COLPA SUA: La tua amica potrebbe sentirsi in colpa per svariate ragioni. La nostra cultura reitera questo tipo di idee: 1) le donne determinano da sole il successo o il fallimento delle loro relazioni; 2) le donne hanno il compito di rendere felici gli uomini; 3) una donna può “cambiare” il comportamento di un uomo o “salvare” un uomo dal suo comportamento; 4) le donne sono da biasimare se il loro partner sceglie di abusare di loro. NESSUNA DI QUESTE IDEE E’ VERA. Aiuta la tua amica a cominciare a cancellare il senso di colpa, dicendole ad esempio: “Questo non dipende da te”; “Non è colpa tua”; “Non hai fatto nulla che meriti questo tipo di trattamento”.

SOSTIENI IL SUO DIRITTO DI CONTROLLARE LA SUA VITA: Potresti pensare di sapere cos’è meglio per lei, ma non aspettarti che segua i tuoi consigli. Ricordati che è lei ad essere in carico delle decisioni che riguardano la sua vita. Puoi dire, per esempio: “So che questa è una decisione che solo tu puoi prendere. Ma qualsiasi cosa tu decida di fare, ricorda che io sono al tuo fianco.”

FORNISCILE INFORMAZIONI UTILI: C’è una Casa delle donne per non subire violenza, in città? C’è un numero verde antiviolenza? C’è un gruppo di auto-aiuto? Puoi chiamarli dapprima tu, se così la tua amica preferisce, per sapere che tipi di sostegno sono disponibili. Puoi anche suggerirle di farsi vedere da un medico, se la situazione lo richiede.

PROTEGGI IL SUO DIRITTO ALLA PRIVACY: La tua amica ha scelto di aprirsi a te. Rispetta il suo diritto di parlarne con chi lei sceglie. Non riguarda te informare altre persone. Maria G. Di Rienzo

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Scozia, 2005. Durante la notte a Drumchapel, Glasgow, una famiglia è sgomberata di forza dalla propria casa e portata via per essere successivamente deportata. Si tratta di rifugiati Rom provenienti dal Kosovo e la loro vicenda non era inusuale in quel periodo: dalla fine degli anni ’90 il numero di richiedenti asilo nel paese era costantemente aumentato e nel 2005 un alunno su otto al Liceo di Drumchapel era un rifugiato. Tuttavia, se l’asilo non veniva garantito, i funzionari dell’Home Office arrivavano in massa a prendere le persone mentre queste dormivano e le trasferivano ai centri di detenzione. E’ proprio al Liceo di Drumchapel che comincia la nostra storia perché la famiglia fuggita dalla guerra in Kosovo, e residente in Scozia ormai da anni, aveva una figlia che lo frequentava, Agnesa Murselaj, e Agnesa aveva delle amiche.

Erano le sue compagne di scuola Amal Azzudin (originaria della Somalia), Roza Salih (dal Kurdistan), Ewelina Siwak (Rom polacca) e le native di Drumchapel Emma Clifford, Jennifer McCarron e Toni Henderson. Costoro diedero vita ad una campagna straordinaria, per visibilità e coinvolgimento della comunità locale, contro i raid notturni e per i diritti dei rifugiati, confrontandosi coraggiosamente con l’Home Office e il governo scozzese e costringendo infine il Primo Ministro a rispondere pubblicamente alle loro preoccupazioni. Nel frattempo avevano mobilitato amici e parenti e dato vita ad un sistema di allarme preventivo contro le deportazioni con base nei vari quartieri. La lotta per la vita della loro amica divenne il simbolo di una nuova Scozia interculturale, giusta e aperta. Dove gli adulti e i politici avevano fallito le “Ragazze di Glasgow”, come da allora furono chiamate, vinsero. Agnesa e la sua famiglia restarono a Drumchapel, i raid notturni cessarono, i regolamenti sul diritto d’asilo furono rivisti.

La BBC ha prodotto due documentari su questa vicenda, ma ora essa è approdata al teatro in forma di musical grazie alla regista Cora Bissett (autrice di un lavoro rinomato come “Roadkill” sul traffico a scopo di sfruttamento sessuale) e al librettista David Greig. Il musical “Glasgow Girls” viene rappresentato attualmente al Citizens Theatre di Glasgow (31 ottobre/17 novembre) e nella primavera del 2013 raggiungerà il Theatre Royal Stratford East di Londra.

Emma Clifford, che oggi lavora proprio per la BBC, dice di essere stata, all’inizio, molto sorpresa da quest’ultima idea: “Ho pensato: santo cielo, fanno un musical su un gruppo di ragazze di Drumchapel che hanno lottato per i diritti dei richiedenti asilo, non vedo come il jazz riuscirà ad incastrarsi in questa cosa. Ma poi, riflettendoci su, ho pensato anche che la musica è stata una grande parte della nostra campagna. Che fossimo sulle strade o che celebrassimo un risultato c’era sempre della musica, e ci ispirava.”

A distanza di sette anni, e su diversi sentieri professionali o di studio (Jennifer in una scuola materna, Agnesa nell’amministrazione sanitaria, Roza fra poco laureata in legge…), le ragazze si incontrano regolarmente e il loro legame ha la stessa forza di quando lo strinsero a 15/16 anni. Tutte dicono: “Non è qualcosa che vogliamo o possiamo perdere. Non molte persone cementano la propria amicizia attraversando quel che noi abbiamo attraversato.” Maria G. Di Rienzo

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C’è qualcosa di speciale nell’amicizia fra animali di specie diverse, forse perché dimostra che se le loro differenze non creano ostacolo nell’avere una relazione affettuosa e fiduciosa, non si vede perché gli umani non possano imitarli (tanto più appartenendo alla stessa specie, ed essendo fra loro meno diversi di un gatto e un cane, o di un cane e una volpe). Come disse Albert Einstein: “Il nostro compito dev’essere liberare noi stessi… allargando il cerchio della nostra compassione affinché abbracci tutte le creature viventi e l’intera natura nella sua bellezza.” Maria G. Di Rienzo

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(tratto da “The Spirit of Sisterhood Is in the Air and on the Air”, di Natalie Angier per il New York Times, 23.4.2012, trad. Maria G. Di Rienzo)

I ricercatori hanno di recente raccolto abbondante evidenza del fatto che l’amicizia fra femmine è uno degli attrezzi narrativi preferiti dalla natura. Per animali diversi come gli elefanti africani, i topini da fattoria, le scimmie blu del Kenya e i cavalli selvaggi della Nuova Zelanda, relazioni durevoli e mutualmente benefiche tra femmine sono l’unità base della vita sociale, la forza che non solo lega insieme i singoli nei gruppi esistenti, ma spiega anche come mai molti antenati degli animali odierni decisero di fare branco.

La ricerca ha mostrato che i babbuini femmine con forti legami di sorellanza hanno un livello di stress ormonale più basso, vivono significativamente più a lungo e crescono un maggior numero di cuccioli sino a condurli all’indipendenza rispetto alle loro pari meno socializzate. Allo stesso modo, cavalle selvatiche con amiche “litigano” meno con gli stalloni ed i loro puledri sopravvivono più facilmente. Le topine che si scelgono un’amica di nido avranno più cuccioli di quelle costrette a dividere lo spazio con un topino o una topina che a loro non piace. E le elefantesse si mantegono in contatto con le amiche attraverso vocalizzazioni di tono basso dette anche “brontolii”. “E’ come un cellulare per elefanti.”, spiega lo scienziato Joseph Soltis, “Praticamente si mandano degli sms: Io sono quaggiù, tu dove sei?

E’ importante avere un’amica del cuore, la compagna ideale? “Avere tre amicizie solide sembra importante per le scimmie.”, dice la primatologa Joan B. Silk dell’Università di California, Los Angeles, “Con un trio su cui far affidamento si crea quella relazione forte e stabile che aiuta le femmine a maneggiare bene ogni tipo di stress.” Alcuni segni d’amicizia fra femmine sono facili da individuare: le leonesse allattano i figli delle amiche, le iene si festeggiano l’un l’altra attraverso elaborati cerimoniali che esprimono fiducia reciproca, fra cui l’esposizione dei genitali al fiuto delle altre, le elefantesse si toccano le proboscidi, condividono il cibo e fanno da sentinelle a turno, giornalmente, per la salvaguardia del gruppo. Il dottor Soltis cita il caso di un’elefantessa che ha salvato il figlioletto vagabondo della sua migliore amica dalla pozza d’acqua profonda in cui era caduto, sollevando il cucciolo in panico con la sua proboscide. Poi si è prodotta nei “brontolii” necessari a chiamare la madre: Ehi, Ortensia, dove sei? Ho ripescato Dumbo. Porta un asciugamano.

Come riportano Robert M. Seyfarth dell’Università di Pennsylvania e la sua collega Dorothy L. Cheney nell’Annual Review of Psychology sulle origini evolutive dell’amicizia, la vita per un babbuino può essere estremamente difficile, in special modo per una femmina. I maschi sono più grossi e fastidiosi. Quelli che conosci possono morderti via un pezzo d’orecchia per fare i boss. Quelli che non conosci possono ucciderti i neonati. I leopardi sono sempre in agguato. Il cibo è scarso. “Devi avere qualcuno su cui contare.”, dice il dottor Seyfarth, “Un’amica ti dà un elemento di prevedibilità e di sicurezza, e tu puoi usarlo come cuscinetto per arginare tutte le cose su cui non hai controllo. C’è una componente biochimica, in questo.”

Un’amica ti calma e ti riporta in equilibrio, prosciuga i picchi di cortisolo che possono indebolire il tuo sistema immunitario e nel far ciò ti allunga la vita: e questo è vero per i babbuini come per gli esseri umani. “Sì, prendere un caffé con le amiche o gli amici è una buona cosa.”, dice il dottor Silk, “E tutti, maschi e femmine, dovremmo farlo spesso.”

Sei splendida. Prendi un biscotto. E adesso dimmi a cosa pensi.

Nota della traduttrice: Mi chiedo perché mai i nostrani giornali strombettino a titoloni “ricerche” fasulle come quella del “punto g” – c’è sicuramente, no non tutte ce l’hanno, è una ricerca che viene dagli Stati Uniti, no viene dalla Spagna, passami un compasso sterilizzato che tento di misurarmi – o le abominevoli ancor più fasulle “scoperte” in tema di maschi alfa/femmine beta/omosessuali gamma, e non abbiano minimamente notato l’articolo del New York Times. Scherzo, in realtà lo so. E lo sapete anche voi lettrici e lettori. Maria G. Di Rienzo

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