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(“France/Algeria: Hijab Day – Background & History – 1997 Algerian Amel Zeoune Assassinated for Refusing to Wear a Veil”, di Zazi Sadou per Siawi, 24 aprile 2016, trad. Maria G. Di Rienzo. Zazi Sadou, in immagine, è stata per molti anni la portavoce dell’Assemblea algerina delle donne democratiche – Rassemblement Algérien des Femmes Démocrates. Il 20 aprile 2016, alcuni studenti dell’Istituto parigino di Scienze Politiche hanno organizzato un “Giorno dell’hijab”: delle sue implicazioni tratta il presente articolo.)

Zazi Sadou

Amel Zenoune, giovane studente universitaria, stava lasciando Algeri in un autobus dell’ateneo per tornare a casa a Sidi Moussa, circa un’ora prima dell’interruzione del digiuno. Domenica 26 gennaio 1997, il 17° giorno del Ramadan, l’autobus fu fermato a uno di quelli che la gente algerina chiamava “falsi posti di controllo” per differenziarli da quelli che erano sotto il controllo dell’esercito.

L’agguato era stato predisposto dai terroristi del GIA (Gruppo islamista armato) in una frazione, chiamata Benedja, del Comune di Benthala – Benthala che resta nei nostri ricordi come il luogo in cui avvenne uno dei più terribili massacri degli anni ’90.

I passeggeri dell’autobus tremavano di paura e pensavano di star guardando la morte negli occhi. Ma i terroristi non mostrarono interesse per loro: cercavano una sola persona, Amel Zenoune. Le ordinarono di scendere dall’autobus e la giovane donna così fece, con molto coraggio.

Uno degli uomini armati affilò il coltello su una pietra e, senza palesare alcuna emozione, le tagliò la gola sotto gli occhi dei passeggeri orripilati. L’uomo disse poi che quello sarebbe servito da deterrente per tutte le donne che andavano all’università e al lavoro senza essere velate. Era un messaggio terrificante mandato a coloro che rifiutavano di piegarsi al loro “ordine morale”.

Amel aveva solo 22 anni. Doveva servire da esempio per terrorizzare le donne e le ragazze che in Algeria resistevano ai diktat del FIS (Fronte di salvezza islamico) e delle sue varie branche armate.

In altri paesi del mondo, in cui l’Islam prevale, milioni di donne – come fece Amel Zenoune – continuano in ogni possibile modo a resistere al fondamentalismo musulmano e alla sua illimitata ambizione di forzare le donne e le società all’interno del loro retrogrado progetto teocratico.

Oggi a Parigi, la capitale della Francia laica e l’erede dell’era dell’Illuminismo e della Repubblica, che promuove i diritti umani e l’eguaglianza di diritti fra uomini e donne, una nuova iniziativa viene lanciata: è il cosiddetto “Giorno dell’hijab”. Quest’iniziativa internazionale è stata iniziata nel 2013 da un network che ha realizzato completamente il suo marketing politico in Europa. La prova è sotto i vostri occhi: l’azione si tiene in una scuola universitaria prestigiosa ove si insegna la ragione affinché essa illumini la mente!

Quali che siano le motivazioni delle giovani studenti che si sono mobilitare per sostenere le loro “compagne velate”, esse non dovrebbero dimenticare le centinaia di migliaia – no, i milioni – di donne musulmane che con le teste scoperte rischiano le loro vite apparendo negli spazi pubblici dei loro stessi paesi. Costoro resistono con ogni mezzo per affermare il desiderio di essere libere e di non sottomettersi a un ordine morale che nasconde le donne in quanto oggetti sessuali. Quante di loro hanno pagato il più alto dei prezzi, essendo stuprate e uccise come “bottino di guerra”?

Queste giovani studenti francesi, di sicuro laiche e emancipate, non dovrebbero scordare che la battaglia sul “velo” è usata, soprattutto, per occultare l’ambizione di forze violente politico-religiose determinate alla conquista e al trasformare i “cittadini” in comunità di soli credenti, all’interno di un sistema totalitario dove le donne sono obbligate a nascondersi, a svanire, a obbedire, a scomparire…

Per quel che riguarda le giovani velate corteggiate da predicatori e “venditori di paradiso” tramite un ingannevole discorso di tolleranza e benevolenza, dovrebbero sforzarsi di mettere in discussione questa pratica che è imposta fuori dal suo contesto e che si situa a mille miglia di distanza dall’Islam illuminato che essi pretendono di rappresentare. Dovrebbero leggere Ibn Sina, Ibn Rochd, Mohamed Arkoun, Fatima Mernissi, così da poter promuovere uno spirito dell’Islam che sia altro rispetto a quello che marcia in uniforme.

La mia posizione di certo non sarà largamente accettata: io sto solo urlando qui il mio sdegno quale attivista femminista algerina che ha vissuto, assieme a centinaia di migliaia di altri cittadini, sotto il sorgente ordine fondamentalista. Senza la resistenza delle donne e di tutti i cittadini che credevano nella democrazia nel suo più pieno senso umanista, l’Algeria sarebbe stata trasformata radicalmente.

Sicuro, la Francia non è ne’ l’Algeria, ne’ la Tunisia, ne’ l’Iraq, ne’ l’Egitto. Tuttavia, non dimentichiamo che quella è la convinzione principale di tutti i movimenti fondamentalisti di estrema destra e che – in qualsiasi modo si camuffino – le loro prime vittime sono le donne. Questa è la lezione che apprendiamo ogni giorno dalla Storia.

Indossare un velo è una questione di libertà garantita dalla democrazia? Io non la penso così. La “battaglia sul velo” è solo l’espressione più visibile della volontà dei fondamentalisti di portare la donne alla sottomissione. Brandire i principi di democrazia e libertà sono solo i mezzi per avere successo in questo.

Quindi, non dimentichiamo il sacrifico della studente Amel, dell’agronoma Rachida, della veterinaria Khadidja, dell’insegnante Lila, della casalinga Rabéa, della lunga lunga lista delle donne resistenti…

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A volte è utile ricordare che mentre noi, in prossimità dell’8 marzo, dobbiamo schivare mimose e spogliarelli (e un sacco di discorsi vieti, inutili, stantii e semplicemente stronzi), molte nostre simili quello stesso giorno cercano di schivare pallottole di gomma e manganelli.

Quest’anno, per fare solo due esempi, è successo in Palestina, al checkpoint di Qalandiya fra Gerusalemme e Ramallah, e ad Algiers in Algeria. Nel primo caso, circa 1.500 fra donne palestinesi e donne israeliane hanno manifestato in modo congiunto e pacifico da ambo le parti del muro che le divide, chiedendo la fine dell’occupazione israeliana e dell’assedio di Gaza e rivendicando i loro diritti, come donne, di sperimentare libertà e vivere in pace.

palestina 7 marzo 2015

La foto riprende un momento della manifestazione in Palestina, 7 marzo 2015. La donna con il megafono è Amal Khreishe, direttrice dell’Associazione Lavoratrici Palestinesi per lo Sviluppo.

Quando le donne di Ramallah hanno raggiunto il checkpoint, armate di voci sicuramente mortali e di pericolosissimi cartelli, i soldati israeliani hanno sparato loro addosso dapprima gas lacrimogeno e spray al peperoncino, per passare ai proiettili di gomma quando è stato chiaro che le donne non se ne sarebbero andate.

Amal Khreishe è stata colpita da una scarica di pallottole e ha dovuto essere trasportata all’ospedale. Sama Aweideh – direttrice del Centro Studi delle Donne, nell’immagine sottostante – ha invece perso i sensi per l’esposizione al gas lacrimogeno ed è stata soccorsa con somministrazione di ossigeno sul posto. (Entrambe si sono riprese e sono attualmente di nuovo al lavoro.)

Sama Aweideh

Le donne dall’altra parte del checkpoint non sono state attaccate, ma hanno espresso angoscia, frustrazione e rabbia nel dover essere testimoni dell’uso ingiustificato della forza contro le dimostranti palestinesi.

In Algeria, il giorno dopo, Cherifa Kheddar – Presidente di “Djazairouna”, l’Associazione delle Vittime del terrorismo islamico in Algeria – è stata assalita dalla polizia ed arrestata assieme a numerose altre donne. Le manifestanti reggevano cartelli con i nomi delle donne uccise dai gruppi armati fondamentalisti in Algeria negli anni ’90 (inclusa la sorella di Cherifa, l’avvocata Leila Kheddar). Rilasciata dopo alcune ore con un bel po’ di lividi che prima non aveva, Cherifa Kheddar è riuscita a scrivere il seguente comunicato l’11 marzo:

cherifa

“In occasione dell’8 marzo, sono stata arrestata per aver organizzato una dimostrazione pacifica in ricordo delle donne vittime del terrorismo (che furono stuprate e assassinate). Le autorità ora stanno negando persino il diritto alla memoria. Sono stata picchiata, insultata, chiamata con epiteti squallidi e volgari all’interno della stazione di polizia ad Algiers. Ho ricevuto il primo colpo mentre ero ancora davanti agli Uffici Centrali delle Poste, e l’ho ricevuto dal comandante della stazione di polizia in persona. Sono stata liberata la sera stessa. Tutto questo per aver semplicemente srotolato uno striscione che mostrava la lista delle vittime.”

Ci sono anche i casi in cui le donne non riescono neppure a raggiungerle, le strade e le piazze in cui intendono protestare: in Cina, il 6 marzo 2015, le hanno arrestate prima, andando a prenderle direttamente in casa senza alcun mandato legale. Le principali attiviste femministe del paese, tutte giovani fra i venti e i trent’anni, hanno passato il Giorno Internazionale della Donna in galera, dove si trovano a tutt’oggi (18 marzo, mentre scrivo). La loro intenzione – pubblica, dichiarata, non in contrasto con la legge – era di distribuire volantini anti-molestie sugli autobus in un’azione concertata.

Sono Li Tingting (conosciuta anche come Li Maizi), attivista per i diritti delle donne e delle persone LGBTQ che lavora per il Centro Yreinping di Pechino, un’ong dedita a promuovere giustizia sociale e salute pubblica; Wei Tingting (soprannominata “Waiting”) dell’Istituto per l’educazione al genere e alla salute di Pechino; Zheng Churan (conosciuta anche come Datu – coniglio gigante) di Guangzhou, attivista femminista antiviolenza a cui nel novembre 2014 le autorità cinesi hanno negato il permesso di viaggiare fuori dal paese per partecipare ad un forum di organizzazioni asiatiche della società civile: la giovane femminista che la sostituì partecipò con la gigantografia di Zheng Churan appesa alla schiena; Wu Rongrong, femminista che lavora in un gruppo di Hangzhou contro la violenza di genere; Wang Man, femminista di Pechino che lavora contro la discriminazione di genere e per il rafforzamento economico delle donne: il suo slogan personale è “Wang Man si dedica a sradicare la povertà”.

Li Tingting / Maizi. La scritta sulla maglietta dice: questo è l'aspetto di una femminista.

Li Tingting / Maizi. La scritta sulla maglietta dice: questo è l’aspetto di una femminista.

Dopo alcuni giorni di agghiacciante silenzio da parte delle autorità, i familiari delle giovani sono riusciti a sapere dove si trovano e ad inviare loro abiti, cibo e medicinali e gli avvocati hanno potuto vederle. Secondo altre femministe e alcune giornaliste cinesi, dovrebbero essere rilasciate a breve senza subire ulteriori danni… ovviamente non sempre le attiviste escono da queste situazioni ammaccate ma ancora vive e non sono sempre agenzie di stato a rispondere con la violenza alle richieste e al lavoro delle donne in materia di diritti umani. Il 24 febbraio scorso – a Tripoli, in Libia – abbiamo perso Intissar Al Hasairi, uccisa a colpi di arma da fuoco assieme a sua zia. I due cadaveri sono stati ritrovati nel bagagliaio dell’auto di proprietà dell’attivista. Intissar Al Hasairi era co-fondatrice del Movimento Tamweer, un gruppo che promuove pace e cultura in Libia ed aveva partecipato a manifestazioni che chiedevano uno stato democratico e il rispetto della legge.

Intissar

Tripoli è sotto il controllo di un’alleanza di gruppi islamisti armati, detta “Fajr Libya” (“L’alba della Libia”) dall’estate del 2014. L’alleanza ha creato un governo parallelo a Tripoli, forzando quello esistente a ritirarsi al confine con l’Egitto, ed ha una speciale “lista nera” per chi, sia donna o uomo, lavora per i diritti umani, promuove l’idea di uno stato democratico, chiede il rispetto delle leggi vigenti prima del loro arrivo, eccetera. Fra i bersagli in lista figurava ad esempio l’avvocata per i diritti umani Salwa Bugaighis, poi in effetti uccisa nella propria casa di Benghazi, il 26 giugno 2014, da un gruppo di uomini armati non identificati che indossavano uniformi militari.

Riguardate tutti i volti delle donne di questo articolo, prima di passare ad altro. Ecco che aspetto hanno le femministe, ecco cosa desiderano, cosa fanno, come vivono. Ecco come muoiono. Ecco perché continuano a lottare. Maria G. Di Rienzo

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(tratto da “Women wage anti-terrorism & anti-jihad activism but rarely make headlines”, un più ampio articolo di Karima Bennoune per Reuters, 1.10.2014, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. Di Karima potete anche leggere: https://lunanuvola.wordpress.com/2012/06/10/la-vostra-fatwa-non-si-applica-qui/ )

lahore dimostrazione

Sfortunatamente i jihadisti hanno i titoli in prima pagina, raramente quelli che agiscono contro di loro li ottengono. Dopotutto, chiunque ha sentito parlare di Osama bin Laden, ma molto pochi sanno di coloro che si oppongono agli aspiranti bin Laden in tutto il mondo.

C’è una lunga e non narrata storia di individui coraggiosi, di discendenza musulmana, che hanno sfidato gli estremisti.

Negli anni ’90, il gruppo di donne conosciuto come Raduno Algerino delle Donne Democratiche o RAFD (Rifiuta) osò farlo durante la “decade oscura” delle atrocità commesse dal Gruppo Islamico Armato che che si batteva contro lo stato d’Algeria. Questa violenza reclamò almeno 200.000 vite.

Le proteste organizzate dalle donne di RAFD attirarono migliaia di dimostranti, nonostante il pericolo. Nell’ottobre 1993, mentre la violenza cominciava a peggiorare, indossarono bersagli di stoffa davanti all’ufficio del Presidente, per condannare le minacce alle donne e ai laici. L’intero elenco delle leader di RAFD finì sulla lista della morte dei fondamentalisti, ma esse non si ritirarono.

Il giorno dopo il bombardamento mortale di una strada affollata di Algeri, nel 1995, RAFD andò a protestare sul luogo stesso del cratere. La polizia disse loro che era troppo pericoloso, ma le attiviste si radunarono comunque e riempirono il cratere di fiori. Lo stesso anno le donne dell’organizzazione tennero in Algeri un processo simbolico al Fronte di Salvezza Islamico, nonostante fossero stati affissi manifesti che chiunque vi partecipasse sarebbe stato ucciso.

Tramite azioni come queste, le attiviste contribuirono a galvanizzare e a pubblicizzare il crescente rigetto della popolazione al progetto di uno stato islamico in Algeria. Nonostante ciò, il lavoro di RAFD ricevette scarsa attenzione a livello internazionale. Peggio ancora, fu bersaglio delle critiche dell’intellighenzia e della stampa occidentali, che suggerivano come le attiviste fossero “non autentiche” e “occidentalizzate”.

Perché furono etichettate in questo modo? Una ragione è che i media occidentali spesso inquadrano il conflitto come se si desse fra estremisti musulmani e Occidente, piuttosto che come una battaglia per i diritti umani all’interno delle società a maggioranza musulmana. In narrativa siffatta, l’opposizione all’estremismo è giudicata “occidentale”. E’ un completo errore.

istanbul 2012

Quando l’Occidente inquadra il conflitto in questo modo, può spingersi sino a descriverlo come “scontro di civiltà”. Ma non è così. C’è uno scontro di ideologie – non di civiltà – e sta accadendo in ogni singolo paese affetto dall’estremismo. La comunità internazionale dovrebbe fare un lavoro migliore nel sostenere coloro che sono la versione odierna di RAFD e riconoscere che rappresentano una voce legittima all’interno delle loro società. E di tali voci ce ne sono molte.

L’Organizzazione per la libertà delle donne in Iraq (OWFI) denuncia pubblicamente l’ISIS, dall’interno della zona in pericolo, per la sua campagna di genocidio contro le minoranze, per gli stupri di donne, per l’imposizione di un rigido codice di abbigliamento femminile e per l’aver messo in piedi un “mercato delle concubine” in cui si vendono donne e ragazze come schiave sessuali.

L’OWFI gestisce una linea telefonica d’emergenza e persino un rifugio per le donne che fuggono dalle persecuzioni dell’ISIS.

L’architetta irachena Yanar Mohammed,

( https://lunanuvola.wordpress.com/2010/01/08/auguri-dalliraq/ )

un’oppositrice all’invasione americana dell’Iraq, fondò il gruppo nel 2003 dopo la caduta di Saddam Hussein. Il suo scopo era promuovere i diritti delle donne lavorando per un Iraq laico e non settario. Come le donne del RAFD in precedenza, l’OWFI ha ricevuto minacce, in questo caso sia dagli estremisti Sunniti sia da quelli Sciiti, e in particolare minacce di morte alla sua fondatrice. Nonostante il suo coraggio, Yanar mi ha detto che ha accesso limitato ai media occidentali. Fa eco a quel che mi ha detto di recente la portavoce di RAFD, Zazi Sadou, del responso internazionale ai loro sforzi: “Nessuno voleva ascoltarci.”

Anche oggi, l’Occidente non sta ascoltando le voci degli iracheni che si oppongono agli estremisti. Questo deve cambiare. Se la comunità internazionale vuole che più individui reagiscano, deve offrir loro il suo sostegno. Mentre i forzieri del Qatar hanno nutrito i jihadisti in tutta la regione, i gruppi laici che contrastano gli islamisti non hanno fondi.

Se non si affronta tutto questo, allora c’è il rischio reale che i fondamentalisti musulmani – armati di denaro, armi, combattenti stranieri e retorica emotiva religiosa – vinceranno sia sul fronte della propaganda, sia sul fronte delle battaglie militari.

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(“Algeria – Citizen Barakat Movement for Democracy”, intervista a Amira Bouraoui, co-fondatrice del movimento Barakat (Basta), di Karima Bennoune per Open Democracy, 2 aprile 2014, trad. Maria G. Di Rienzo)

amira bouraoui

Karima Bennoune (KB): Puoi spiegare gli scopi del movimento Barakat e la storia recente che gli ha dato forma?
Amira Bouraoui (AB): Lo scopo del movimento Barakat è stabilire la democrazia in Algeria. Per troppo tempo il popolo algerino è stato soggetto alle leggi di un regime che non applica le regole della democrazia. In effetti, l’Algeria ha attraversato tempi molto difficili. Ci fu già una sorta di movimento Barakat nel 1988 quando, motivata dall’ingiustizia sociale, la gioventù scese in strada per esprimersi. Successivamente, poiché le persone non potevano esprimere se stesse, parte della società cercò rifugio fra le braccia di dio. Alcuni si unirono ad un partito politico (il Fronte di salvezza islamico, FSI) che tentò di monopolizzare la religione. Ma, ciò che appartiene a tutti – perché la maggioranza degli algerini sono musulmani – non può appartenere ad un partito politico. Nel frattempo, il partito al governo (Fronte di liberazione nazionale, FLN) tentò di monopolizzare la storia algerina. Anche la storia appartiene a tutti, e non può essere di proprietà di un singolo partito politico. Quel che vogliamo oggi è una democrazia che ci ripari dai rischi di tutti questi eccessi.
KB: Che cosa, negli atti del Presidente Bouteflika, ha ispirato la vostra protesta?
AB: Il signor Abdelaziz Bouteflika andò al potere nel 1999 – 15 anni fa. La Costituzione algerina era stata emendata alcuni anni prima, e uno dei risultati fu che il suo Art. 74 limitava i mandati presidenziali a due. Nel 2008, Bouteflika aumentò i salari dei legislatori. In tal modo influenzò i deputati a violare la Costituzione emendandola senza referendum, senza che le opinioni del popolo fossero espresse, e così fu “rubato” il terzo mandato.
Eravamo molto affezionati, per così dire, all’Art. 74, perché anche se Bouteflika era stato “eletto” in condizioni non molto trasparenti, la gente diceva: “Resterà solo due mandati, e poi se andrà.” Quando un Presidente ha limiti di mandato – come in molti paesi democratici – sa che dovrà andarsene, un giorno, e sa che un giorno dovrà dare un resoconto di quel che ha fatto. Quando sai che dovrai rispondere delle tue azioni lavori intensamente e cerchi di non fare errori. Ma quando decidi che resterai al potere sino alla morte, come un dittatore o un monarca, puoi fare quel che ti pare. Pensi che la Repubblica appartenga a te, e non è proprio il caso.
Se andiamo indietro al discorso del Presidente Bouteflika nel maggio 2012, lui dice “la mia generazione è finita”. Dice che un uomo deve conoscere i propri limiti. Lo dice in arabo. Ci sentimmo rassicurati, nel maggio 2012, quando disse “dobbiamo passare la fiaccola – una fiaccola preferibilmente accesa e non spenta”. Nonostante il terzo mandato di straforo, pensammo che avremmo avuto finalmente delle elezioni e che esse avrebbero riportato speranza.
Ogni generazione ha bisogno di speranza. Un Presidente che resta al potere per più di dieci anni, per più di due mandati, vede passare una transizione generazionale. E la nuova generazione non è più connessa a un Presidente che resta così a lungo in carica. Nondimeno, quest’anno abbiamo visto politici chiedere al Presidente di presentarsi per un quarto mandato, anche se è molto malato, è stato al potere per 15 anni, la Costituzione è stata violata e non lo vediamo apparire in pubblico da due anni. Da due anni non fa neppure un discorso. Fisicamente e mentalmente, non è nelle condizioni di governare. Perciò, abbiamo deciso con gli amici attivisti di scendere in strada e dire “No”, “Basta”. Non ci aspettavamo la popolarità che Barakat ha rapidamente guadagnato: il movimento è stato creato il 1° di marzo.
KB: Cosa rende un quarto mandato così inaccettabile?
AB: Prima che la candidatura del Presidente Bouteflika fosse annunciata, moltissimi algerini – nelle università, nei caffè, negli uffici, negli ospedali – dicevano: “No, non oserà tentare un quarto mandato.” E’ improponibile. Il quarto mandato è semplicemente il simbolo di un regime e di un sistema arcaici. Questo regime e questo sistema disprezzano il popolo, lo giudicano immaturo. Pensano che la gente sia stupida. Ma non capiscono che le persone sono così consapevoli della situazione che hanno smesso di votare. Non hanno il diritto a una scelta vera.
Noi stiamo testimoniando una mascherata elettorale, un processo mirato ad imporre Abdelaziz Bouteflika per il quarto mandato. Invece, noi chiediamo che il popolo sia davvero consultato sulla scelta del leader.
KB: La minaccia dell’instabilità è spesso usata per ridurre al silenzio le proteste in Algeria, dati i terribili eventi della decade degli anni ’90. Come rispondi a questo argomento?
AB: La nostra rabbia, il nostro rigetto, hanno avuto inizio quando il Presidente Bouteflika ha violato la Costituzione. All’epoca, scrivemmo e firmammo petizioni. Tentammo di protestare, anche se eravamo appena usciti dal decennio dell’orrore.
I cittadini algerini avevano paura: paura di destabilizzare il paese, paura di cadere di nuovo in un ciclo che ci aveva ferito così tanto in passato. Ma abbiamo scoperto che questa “stabilità sotto ricatto” che il regime ora ci offre, dicendoci di chiudere il becco perché altrimenti destabilizziamo l’Algeria, è inaccettabile. Non giocheremo a questo gioco. E’ come se ci dicessero: “Lasciateci governare il paese in maniera non trasparente. Fate quel che vogliamo noi. E, in cambio, potete avere stabilità”. Noi pensiamo che a destabilizzare effettivamente Tunisia, Libia e Siria, e i paesi della “Primavera Araba”, siano stati proprio i dittatori che non sapevano quando era il momento di andarsene.
KB: Qual è la vostra strategia da oggi alle elezioni del 17 aprile prossimo? E, forse ancora più importante, quale sarà la vostra strategia dopo le elezioni?
AB: Da oggi al 17 aprile continueremo ad organizzare azioni per fare pressione su un regime sordo, e tenteremo di fargli ascoltare qualche ragione. Il regime tenta di giustificare ciò che è ingiustificabile. Difende l’indifendibile. Chi è al potere deve capire che sta correndo diritto verso un muro. Dopo il 17, continueremo a lottare, e continueremo ad essere presenti sul territorio, per rigettare questo presidente illegittimamente eletto. La maggioranza degli algerini non hanno una tessera di voto, non l’hanno mai avuta, e non hanno in programma di votare perché il risultato è già deciso.

Basta bugie - Amira sit in Algeri 24 marzo 2014

KB: Il movimento Barakat ha detto più volte che è un movimento composto da cittadini, che è un movimento politico ma non fa riferimento ai partiti. Cosa significa esattamente?
AB: Siamo un movimento composto da cittadini algerini che non erano già tutti attivisti politici. Lavoriamo per la democrazia e l’acquisizione di cittadinanza. Se non hai scelto il tuo Presidente non sei più di un progetto pilota come cittadino. Non sei un cittadino effettivo.
Direi che al momento Barakat è “supra-politico”, perché per permettere ai partiti politici di prendere parte alla democrazia devi avere regole del gioco chiare, trasparenti e rispettate. Il movimento dei cittadini aspira a creare tali regole. Non siamo un partito e non vogliamo diventarlo.
KB: Tu ricevuto un grande sostegno (penso ai 3.000 “like” sulla tua pagina FB in un mese) ma sei anche stata aspramente criticata in quello che sembra un modo organizzato. Come mai è accaduto questo, quando il movimento è così giovane?
AB: Il governo non si aspettava una società civile così vigile. Pensavano: “Abbiamo avuto il terzo mandato, perciò adesso avremo il quarto e tutti staranno zitti”. Pensavano che in qualche modo fossimo morti, ma eravamo solo convalescenti. Stavamo imparando di nuovo a camminare, e presto saremo capaci di correre, e perciò di proteggere la Repubblica e la democrazia.
Il governo ha usato ogni tipo di propaganda per danneggiare la reputazione del nostro movimento. Hanno inventato così tante bugie, e ci hanno chiamati con tutti i nomi possibili, solo perché aspiriamo ad essere davvero cittadini e a difendere la democrazia. Ma non ci fermeremo. Loro hanno la capacità di infliggere danni con la propaganda perché hanno televisione e giornali a disposizione. Stanno tentando di alienarci l’opinione pubblica. Hanno detto che siamo gli “attrezzi degli stranieri”, che siamo sionisti. Hanno detto allo stesso tempo che siamo sostenitori del FSI e che siamo “sradicatori” (termine denigratorio per gli oppositori dei fondamentalismi) – tutto fa brodo per dare di noi una cattiva immagine. Ad ogni modo, terremo duro.
KB: Barakat è principalmente un movimento algerino che parla ad un pubblico algerino, ma avete un messaggio per la comunità internazionale?
AB: Siamo per la libertà di ogni popolazione e vorremmo che l’Algeria lavorasse con altri paesi, occidentali e no. Ma, vorremmo questo in un contesto in cui entrambi si vince, non in una situazione in cui dev’esserci un perdente.
Abbiamo sentore, ora, che il governo tenti di comprare il silenzio della comunità internazionale aprendo le valvole del petrolio. A noi piacerebbe che la libertà di un popolo non avesse il cartellino del prezzo. L’Algeria non è sola al mondo, aspira al lavoro con altri, ma questo deve andare a beneficio di tutti. E non vogliamo che alla nostra gioventù non resti altro sogno che un visto d’ingresso per fuggire in qualche El Dorado – paesi che spesso attualmente sono anche loro in crisi economica. Vogliamo giustizia e democrazia, e non c’è altro che possa portare alla pace fra i popoli.
KB: Come è stato il primo mese di Barakat per te, che sei una delle rappresentanti più visibili del movimento?
AB: Ho dovuto prendere 15 giorni di ferie al lavoro (sono una medica) perché sono stata malmenata durante i miei primi arresti. E’ stato duro per me perché ho avuto un’operazione chirurgica alla schiena, in passato. Torno al lavoro domani. Amo il mio lavoro.
Io penso che gli esseri umani non siano nati semplicemente per mangiare e dormire. Siamo nati per sognare la libertà, per rendere reali i nostri sogni, per difendere le nostre idee, per pensare. In Algeria vogliono impedirci di pensare e di esprimerci.
Per questo, io sono stata arrestata cinque volte. Sono stata arrestata anche nel 2011, e prima ancora, perché non è la prima volta che sono attiva contro questo governo. Non mi piace l’ingiustizia. Mi fa provare dolore, chiunque ne sia vittima. Immagino che sia un tratto del mio carattere.
Come vivo quel che sta accadendo? Non mi aspettavo tutta questa attenzione da parte dei media. In genere preferisco essere discreta, per cui è stato davvero difficile. Mi sono sentita sotto pressione, e anche i membri della mia famiglia sono stati sotto pressione.
Ma, se la la mia voce e la mia immagine aiutano la causa, allora ne vale la pena.

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Intervista a Karima Bennoune (di Anna Louie Sussman, per Women in the World Foundation, 6.6.2012, trad. Maria G. Di Rienzo)

“Non arrendersi mai.” Questo l’avvocata Karima Bennoune, esperta di diritto internazionale in relazione ai diritti umani, attivista di lungo corso per i diritti delle donne, dice di aver imparato da suo padre, attivista e dissidente algerino che aveva combattuto nella guerra per l’indipendenza del paese. Successivamente, divenne uno dei principali critici dei fondamentalisti algerini, un’istanza che Karima ha preso su di sé. “Sino alla fine della sua vita mio padre non smise di tenere incontri e conferenze. Era a stento in grado di parlare a causa dei suoi problemi di salute, ma non intendeva arrendersi.” Docente universitaria, collaboratrice regolare del quotidiano “The Guardian”, Karima sta attualmente lavorando ad un libro dal titolo “La vostra fatwa non si applica qui.”: tratta di quei musulmani in tutto il mondo che si stanno opponendo ai fondamentalismi.

Tu hai scritto che la laicità e la separazione fra legge e religione sono cruciali per proteggere i diritti delle donne. Ci sono però gruppi che usano interpretazioni progressiste dei testi religiosi per sostenere i loro argomenti in contesti locali. Tu cosa pensi di questa strategia?

Io faccio parte del direttivo della rete “Women Living Under Muslim Laws” (WLUML – “Donne che vivono sotto le leggi musulmane”). Una delle ragioni per cui ritengo significativo lavorare con questa organizzazione è che essa mette insieme donne che stanno usando una vasta gamma di strategie: laiche, basate sui diritti umani universali, o sull’interpretazione progressista e la reinterpretazione della religione. Certamente non vedo le due cose come contraddittorie ma sono infastidita da quel che noto a livello internazionale, una cosa che potremmo chiamare “eccezionalismo islamico” come mi ha detto un’attivista iraniana. Quest’attitudine sembra progressista, ma in effetti finisce per indebolire le persone che lavorano sul campo, che magari hanno una fede personale ma stanno usando argomentazioni laiche per raggiungere i loro scopi. Rispetto chi ha strategie multiple, ma quando guardo a ciò che sta succedendo nell’Africa del nord sono sempre più convinta che la laicità è la chiave per l’ottenimento nella regione di diritti umani e di diritti per le donne in particolare.

Chi sono le persone che descrivi nel libro a cui stai lavorando e che si oppongono ai fondamentalismi?

Il libro inizia con la storia di mio padre, minacciato di morte da gruppi armati fondamentalisti negli anni ’90. A causa di ciò smise di insegnare all’Università, ma non lasciò l’Algeria, ne’ smise di scrivere o parlare. L’unica cosa che cambiò fu la casa in cui abitava, perché aveva trovato sul tavolo della cucina un biglietto con su scritto “Considerati morto”. Una delle cose che lo demoralizzava profondamente era la scarsità della solidarietà internazionale, in special modo l’atteggiamento di molte persone sedicenti progressiste: costoro pensavano e pensano di dover essere di sostegno ai fondamentalisti perché questi si dichiarano anti-imperialisti, o qualcosa del genere, nel mentre hanno per bersagli gli individui progressisti locali. Per cui, il libro nasce dal tentativo di capire perché le persone come mio padre sono ignorate e dal desiderio di portare le loro storie ad un pubblico più vasto. La gente si chiede: “Ma dove sono i musulmani contrari all’estremismo?”. Sono dappertutto, ma nessuno presta loro attenzione.

Io ho intervistato oltre 250 persone provenienti da più di venti paesi. Sono andata in Senegal, in Nigeria, nei Territori Palestinesi, in Afghanistan e in Pakistan. Ho parlato con gli algerini della diaspora in Francia. Sono stata in Russia ed ho incontrato persone da tutta l’Asia centrale e dal Caucaso. Sono in partenza questa settimana per il Canada e l’Algeria. Ho parlato con un’ampia gamma di persone. Naturalmente sono diverse, tu noteresti la differenza se ad esempio andassi nelle Filippine e in Italia per capire le diverse prospettive di persone con un background cristiano.

Una delle cose su cui i fondamentalisti musulmani e cristiani si stanno davvero impegnando è l’organizzarsi a livello internazionale e stabilire connessioni: hanno una grande disponibilità finanziaria per farlo. Chi si oppone ai fondamentalisti non ha questo tipo di sostegno. Ci sono reti come WLUML, per esempio, ma non sono neppure paragonabili. Parte del mio progetto è il tentativo di mettere queste persone in contatto le une con le altre e di fare in modo che siano ascoltate a livello internazionale. Sono dappertutto: avvocati e medici e gente comune, contadini algerini che sono stati vittime del terrorismo fondamentalista negli anni ’90, organizzatori comunitari a tempo pieno e volontari.

Perché sono stati ignorati sino ad ora?

Non sono sicura del perché, ma penso ci siano un paio di ragioni. Ad esempio, è molto più facile essere ascoltati se si assume una posizione estrema. Se la tua posizione è ragionevole è molto più difficile ottenere l’ascolto. Le esplosioni riverberano, letteralmente, ma le persone che lavorano quietamente contro di esse fanno molta più fatica a raggiungere le prime pagine dei giornali.

Un’altra ragione è che non rispondono alle aspettative. Si battono per i diritti umani, o per interpretazioni dell’Islam in cui l’indossare un fazzoletto in testa è opzionale e la violenza di genere contraria agli insegnamenti: non rispondono agli stereotipi che la gente di destra e quella di sinistra hanno rispetto ai musulmani. Perciò sono sconvenienti, fuori tema. Di solito sono anche persone molto critiche sulle politiche occidentali e questa può essere in parte un’altra ragione per non ascoltarli.

Io ritengo assolutamente necessario ascoltare queste persone, imparare dal loro lavoro e dalle loro esperienze, e trovare modi sensati con cui sostenere il loro lavoro: almeno, non minare quel che stanno facendo. Per cui sono stata molto attenta a non generalizzare. La cosa interessante è che, praticamente in tutti i contesti, questi attivisti hanno identificato la crescita dei fondamentalismi come uno dei maggiori pericoli per i diritti umani.

Negli Usa è in atto una specie di contrattacco sui diritti delle donne e in parte sembra verniciato di religione. Cosa possono apprendere le attiviste di qui dalle persone che tu hai intervistato?

C’è molto da imparare. Le donne tunisine mi hanno davvero impressionata per il modo in cui rifiutano di cedere sulle loro richieste. Sono andata in Tunisia nel marzo 2011, un paio di mesi dopo la caduta di Ben Ali. Eravamo ancora sull’onda di un momento euforico, i fondamentalisti stavano uscendo allo scoperto e diventavano più attivi. Pure, le donne che ho intervistato non intendevano “moderare” nessuna delle loro richieste. Erano di una chiarezza cristallina: volevano una Costituzione laica. In effetti, volevano anche di più! Stavano premendo perché le riserve espresse dalla Tunisia alla CEDAW (Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione verso le donne – NU 1979) fossero ritirate. E’ stato risposto loro positivamente in via ufficiale, ma la richiesta vera e propria al Segretario Generale delle Nazioni Unite deve ancora arrivare.

Questo è veramente critico: non perdere il punto. Non perdere il punto perché le tue argomentazioni stanno diventando meno popolari e sempre più pressione religiosa si accalca sulla sfera politica.

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Il 9 giugno 1984, membri del Parlamento algerino ebbero successo nel far passare un nuovo “Codice di Famiglia”. In base a tale legge, le donne non potevano scegliersi liberamente un marito senza ottenere il previo consenso dei loro “guardiani” o “tutori” (usualmente i padri, ma anche fratelli, zii e persino figli). All’interno del matrimonio, sempre secondo il Codice, le donne erano tenute ad obbedire ai loro mariti e non avevano custodia legale dei figli. L’accesso delle donne al divorzio era limitato e dovevano ricevere una quota minore delle eventuali eredità rispetto ai parenti di sesso maschile. Secondo i sostenitori del Codice di Famiglia algerino, esso era coerente con la giurisprudenza e l’etica islamiche, secondo le donne istituzionalizzava una classe inferiore di cittadinanza.

Il 2004 segnò il ventennale delle legge. Determinate, in tale occasione, a mettere fine all’oppressione sistematica che la legge comportava, un gruppo di donne algerine fondò il collettivo “20 ans, Barakat!” (20 anni sono abbastanza!) e produsse un video musicale che denunciava il Codice di Famiglia.

Venti donne provenienti da retroscena differenti registrarono la canzone “Ouek dek yal qadi” (“Che ti è preso, giudice?”) e proclamarono: “Questa legge dev’essere disfatta e mai più rifatta.” Distribuito via radio, tramite la tv francese e internet, il video musicale è un esempio di come le donne, lavorando creativamente, incitarono l’opinione pubblica a cambiare le politiche algerine.

(Guardatelo su: http://imow.org/wpp/stories/viewStory?storyid=1328)

Quella che segue è parte di un’intervista che l’International Musuem of Women fece a Caroline Brac de la Perrière, membro del collettivo che produsse il video.

Come si formò “20 ans, Barakat!”?

Nel 2004 il Codice di Famiglia sarebbe stato in vigore da vent’anni. Io ho una figlia e pensavo: “Mia figlia conoscerà solo questo Codice. Non è possibile, non voglio questo!”. Ne avevamo veramente abbastanza, ed è così che il nome “Barakat” è venuto fuori, ma si riferisce anche alla guerra d’indipendenza algerina (1954-1962). Alla fine dei sette anni di guerra contro la Francia, gli algerini cominciarono a combattere gli uni contro gli altri. Reagendo alla persistente violenza la gente sciamò nelle strade gridando: “Sette anni sono abbastanza!”. Pensammo quindi che questo nome si sarebbe fissato nella mente delle persone.

Perché avete usato la musica per ottenere la riforma?

Volevamo fortemente che i giovani si unissero a noi, perché stavamo diventando esauste e sì, stavamo anche invecchiando. Pensammo: “E va bene, facciamo una canzone.” Ma che tipo di canzone? Amici del collettivo erano molto vicini ad alcuni musicisti e conduttori radiofonici algerini. Erano molto conosciuti e avevano connessioni in Algeria e un po’ ovunque. Così decidemmo di lavorare insieme con loro, perché anche a loro andava bene: ognuno può fare qualcosa. Fu una cosa buona che venne dalla nostra diaspora, perché molti vivevano in Francia e potemmo registrare il video a Parigi. Tutte le artiste parteciparono gratuitamente e le intervistammo sulla loro relazione con il Codice di Famiglia e sulle loro vite come cantanti algerine.

Eravamo molto ambiziose. Volevamo una canzone che piacesse ai giovani, ma volevamo anche una canzone che ogni donna anziana potesse ascoltare alla radio della cucina. Poiché molto raramente una donna anziana lascia la casa, volevamo capisse che la canzone e il messaggio erano diretti anche a lei. Era necessario che la canzone fosse molto “algerina”, che i suoni fossero realmente algerini. E volevamo che le tre lingue parlate nel paese – arabo, berbero e francese – si sentissero nel video.

Avete incluso nel progetto molte persone diverse, e anche uomini. Come mai?

Desideravamo che la canzone parlasse a tutti gli algerini, femmine o maschi. Perciò invitammo una donna dal sud dell’Algeria, una dall’ovest e una dall’est. Abbiamo coinvolto donne di tutte le origini. Abbiamo anche tentato di avere persone conosciute. E volevamo che la canzone risuonasse con i migranti. Per cui, quando nel video vedi donne che cantano in francese, quelle sono donne migranti, più esattamente sono donne algerine migranti. Sebbene non conoscano l’arabo sono algerine e sono comprese nel Codice di Famiglia, perché queste leggi ti seguono ovunque tu vada. Ci siamo assicurate la partecipazione di professioniste, alcune molto note altre meno. Una di loro recitava in una soap opera algerina, e tutti la conoscevano, perciò siamo state molto felici che volesse partecipare. Abbiamo chiesto la presenza di due cantanti internazionali: le puoi vedere nel video, sono Annie Flore Batchiellilys, la voce d’oro dell’Africa, e Barbara Luna che è argentina. Barbara ha imparato a cantare in arabo per il video.

E poi volevamo coinvolgere gli uomini, è per quello che alla fine del video appaiono. In effetti, gli uomini non erano poi così convinti: dei quindici a cui chiedemmo di partecipare solo quattro risposero positivamente. Ad ogni modo, volevamo il loro coinvolgimento perché sebbene fosse importante per noi parlare del peso che le donne sopportavano, volevamo dire che il futuro è qualcosa che appartiene a tutti.

Che impatto ha avuto la canzone?

Da quando il nostro movimento è nato (ed ora è pieno di giovani donne e giovani uomini), si sono cominciati a verificare cambiamenti nel Codice di Famiglia. Non voglio dire sia tutto merito nostro, non so effettivamente quanto abbiamo contribuito, ma dal video in poi nel 2005 ogni giorno il Codice di Famiglia era discusso sulla stampa algerina. Il dovere di una moglie di obbedire al marito è stato rimosso, e questa è una gran cosa. Le divorziate ora hanno la custodia legale dei loro figli: le vedove hanno visto finalmente le loro vite cambiare. La parte sul divorzio non è ancora egualitaria. Ad ogni modo, siamo felici dei cambiamenti che ci sono stati: significano che il Codice può essere cambiato, che alcuni articoli possono essere rimossi. Prima era un tabù, non potevi parlarne. Adesso non è più un argomento proibito. (trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo)

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(di Mustapha Benfodil, scrittore e giornalista. Fonte: Women Living Under Muslim Laws. Trad. Maria G. Di Rienzo)

 

 

Proprio mentre la primavera araba si diffonde in tutta la regione, ho appreso con grande sconcerto che il Sig. Jack Persekian, direttore della Sharjah Art Foundation, è stato licenziato come “castigo” per avere permesso totale libertà di espressione ad un artista inviato alla Biennale della Fondazione stessa.

Io sono l’artista in questione. La mia installazione “Maportaliche/Ecritures sauvages” (“Non ha importanza/Scritture selvagge”) è stata censurata e rimossa dalla Biennale. Nello scrivere questa dichiarazione, vorrei esprimere la mia profonda indignazione per questi atti vergognosi e la mia solidarietà al Sig. Persekian ed ai suoi straordinari collaboratori.

Vorrei anche spiegare che pezzo ho presentato alla Biennale. Poiché il tema di questa decima sua edizione è il tradimento, ho voluto discutere attraverso la mia installazione le risonanze e le dissonanze fra uno scrittore e la società in cui lo scrittore vive. Perciò, l’installazione lavora su tre livelli: testi, suono e graffiti. Il pezzo centrale è la parodia di una partita di calcio che coinvolge 23 manichini senza testa. Sulle magliette indossate da una delle squadre sono stampati estratti dai miei scritti (racconti, piece teatrali, poesie), mentre le magliette dell’altra squadra mostrano ibridi fra la cultura popolare algerina ed altri “significatori urbani” (canzoni, battute, poesie popolari, ricette, giochi da tavolo). Naturalmente i miei testi, in particolare i graffiti, non sono particolarmente “corretti”. In effetti, sono modellati dall’estensione della violenza sociale e politica che mi circonda. Forse è un errore mio l’aver ingenuamente creduto che la vita non sia “corretta”. E’ che l’arte sia libera di essere scorretta ed impertinente.

Il testo della controversia è un monologo, “Il soliloquio di Sherifa”, tratto dal mio pezzo teatrale “Les Borgnes” che è stato rappresentato in numerosi paesi, città e festival: a Parigi, a Marsiglia, ad Aix-en-Provence, a Montreal, e anche ad Algeri. Fa parte della mia serie “Pièces détachées – Lectures sauvages” (“Pezzi di ricambio – Letture selvagge”). Alcuni dei visitatori e degli organizzatori hanno criticato questo testo dicendolo osceno e blasfemo. Può darsi che le parole siano interpretabili come pornografiche, ma la verità è questa sequenza è il resoconto allucinato dello stupro di una giovane donna da parte di jihadisti fanatici, e rappresenta l’islamismo radicale di cui il mio paese ha fatto esperienza durante la guerra civile negli anni ’90.

Le parole possono essere scioccanti, ma questo accade perché nulla è più scioccante dello stupro in se stesso, e tutte le parole del mondo non possono dire l’atroce sofferenza di un corpo mutilato. Ciò che viene narrato in questo pezzo, tristemente, non è frutto dell’immaginazione. Migliaia di donne in Algeria hanno sofferto questo destino durante il conflitto, una verità che ancora non è stata detta abbastanza.

Nonostante ciò, questo testo è stato interpretato come un attacco all’Islam. Permettetemi di chiarire che il monologo di Sherifa si riferisce ad un dio fallocratico, barbaro e fondamentalmente liberticida. E’ il dio del GIA, il Gruppo islamico armato, la sinistra setta che ha stuprato, violato e massacrato decine di migliaia di Sherifa in nome un paradigma rivoluzionario patologico, che si suppone ispirato dall’etica coranica.

Senza volere assolutamente giustificarmi, devo però semplicemente far notare che l’Allah che io conosco non ha niente a che vedere con le devastanti e distruttive divinità reclamate da questi movimenti millenaristici algerini, le cui legioni di barbari con barbe hanno decimato la mia gente con l’attiva complicità dei nostri apparati di sicurezza.

Infine, vorrei aggiungere che in questa particolare intensa congiuntura che interessa le società arabe, è deplorevole perdere l’opportunità di situare la libertà al centro del dibattito. In effetti, la squadra di curatori della Biennale della Sharjah Art Foundation ha messo in luce l’impatto e la pertinenza di questa sfida, in tandem con la marcia dei popoli arabi verso la democrazia. Perciò, porgo il mio omaggio ai curatori ed alle curatrici Rasha Salti, Suzanne Cotter e Haig Aivazian per il loro eccezionale lavoro, e per aver avuto fiducia in me.

A me sembra un buon segno, di salute culturale e politica, se l’arte incontra la strada, e gli artisti ascoltano il sussurro della vita reale. Spero veramente questo corso impetuoso, questo ciclo di rivoluzioni arabe che ha scosso i nostri regimi tirannici e medievali, spingerà oltre anche la nostra immaginazione, i nostri gusti, la nostra estetica, i nostri canoni ed i processi del nostro pensiero. Possa contribuire a rinnovare i nostri segni e le nostre parole.

I nostrani guardiani della virtù farebbero meglio a riflettere sulla bellezza della primavera democratica araba, e a smettere di ridipingere il muro ogni volta in cui un ragazzo ci dipinge i suoi sogni insolenti.

Mustapha Benfodil, scrittore algerino, Algeri, 6 aprile 2011.

 

Petizione online a sostegno del direttore artistico licenziato:

http://www.ipetitions.com/petition/sharjahcall4action/

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Marieme Hélie-Lucas, per la newsletter di Women Living Under Muslim Laws (WLUML) dell’estate 2010, trad. M.G. Di Rienzo

 

Un paio di mesi fa, alle networkers di WLUML fu chiesto di sostenere Gita Sahgal, l’allora responsabile dell’unità sul genere di Amnesty International (AI), che pubblicamente aveva esposto ai media – dopo averlo fatto invano all’interno – la non così santa alleanza fra questa prominente organizzazione per i diritti umani ed i fondamentalisti musulmani. AI è ben distante dall’essere la sola organizzazione per i diritti umani a fare quest’errore politico ed a praticare una rottura allarmante del suo mandato sui diritti umani. E Gita è lungi dall’essere l’unica ad essersi confrontata con la gerarchia su questa istanza. Tutti coloro che hanno osato dar voce al proprio dissenso sono stati licenziati o ridotti al silenzio (Conscientious objection: AI persists in suppressing dissent, www.sabrang.com/cc/archive/2010/mar10/humanrights1.html).

So per esperienza personale che questa politica si è data almeno negli ultimi trent’anni. Per esempio, durante tutti gli anni ’90 in Algeria, AI e Human Rights Watch (HWR) riportarono quasi esclusivamente le violazioni commesse dalle forze di stato (confrontate con i rapporti annuali di AI e HRW per questo decennio), mentre nulla o poco fu detto sui gruppi fondamentalisti armati (GIA, AIS, ecc.) che incitati dal partito politico “Fronte di salvezza islamico” (FIS) agivano quella che noi chiamavano “una guerra contro i civili”, poiché era il contrario di una “guerra civile”, la quale fece circa 200.000 vittime in dieci anni (www.sabrang.com/cc/comold/april98/world.htm).

Durante questo periodo, mentre noi ci rivolgevamo disperate alle organizzazioni pro diritti umani per chiedere aiuto, esse continuavano ad invitare i fondamentalisti ed i loro avvocati ai loro incontri, in questo modo sostenendo e propagandando le loro opinioni. E li aiutarono ad ottenere asilo in Europa, da dove raccolsero fondi e prepararono ancora azioni violente da svolgere in Algeria. Nel frattempo alle vittime dei fondamentalisti venivano negati l’asilo e il sostegno di base, per la ragione che esse non erano perseguitate dallo stato, ma da attori non statali…

Nonostante la dichiarazione delle organizzazioni per i diritti umani di non prender parte in politica e di non avere un’agenda politica, definire cosa costituisca una violazione dei diritti umani non è mai un esercizio oggettivo e apolitico, in particolar modo quando alcune vittime sono, allo stesso tempo, perpetratori. Sembra che le organizzazioni per i diritti umani siano rimaste incastrate in questa vecchia cornice ideologica che si concentra solo sulla responsabilità degli stati, che è stata disegnata cinquant’anni orsono, in un periodo in cui gli stati erano potenti e le forze non statali – come contro-poteri – non esistevano nella scala in cui esistono oggi, e in un tempo in cui i conflitti si davano per la maggior parte tra due eserciti di due diverse nazioni mentre attualmente la maggior parte dei conflitti coinvolgono uno o più attori non-statali.

Sembra anche che le organizzazioni per i diritti umani non riuscissero a maneggiare la complessità della doppia identità dei fondamentalisti, allo stesso tempo vittime di repressione statale e perpetratori delle più gravi violazioni contro persone innocenti che loro trovavano non essere abbastanza “musulmane”, marchiavano come “kafir” (infedeli) e quindi giustiziavano. E infine, sembra che le organizzazioni per i diritti umani non riuscissero a fare differenza tra il difendere i basilari diritti umani di ognuno, sia lui o lei criminale o meno, ed il fornire una piattaforma politica.

Parecchi anni fa, le donne afgane mi dissero che avevano avuto le stesse discussioni, anche loro invano, con le organizzazioni per i diritti umani che sostenevano ciecamente l’Alleanza del nord che combatteva l’occupazione sovietica, mentre queste donne – sebbene condannassero l’occupazione – li mettevano in guardia sul fatto che i ‘mujahiddin’ erano pericolosi per le donne e per i diritti umani in generale. Io credo fosse l’anti-sovietismo la ragione per sostenere i fondamentalisti musulmani in Afghanistan, quale che fosse la loro agenda rispetto alle donne o alla società, invece della mera difesa dei loro diritti umani fondamentali.

Sia in Algeria sia in Afghanistan, la posizione presa dalle organizzazioni per i diritti umani costruì una gerarchia dei diritti in cui i diritti delle donne venivano per ultimi, dopo i diritti religiosi, i diritti culturali e i diritti delle minoranze. In più, ha anche creato una gerarchia fra le vittime: da una parte le vittime della repressione di stato erano appoggiate, e dall’altra le vittime di attacchi da parte di attori non statali non erano neppure menzionate nei rapporti annuali delle organizzazioni. Questo è un grave abbandono del principio della difesa dei diritti umani di tutti.

Il problema del sostegno “de facto” dato ai fondamentalisti musulmani dalle organizzazioni pro diritti umani è stato sollevato anche all’interno della “Coalizione delle donne difensore dei diritti umani”, di cui WLUML è membro fondatore ed attivo partecipante. Sin dal suo inizio nel dicembre 2005, l’istanza è stata pubblicamente sollevata durante la consultazione che si diede a Colombo. (When women human rights defenders face political non state actors,

www.defendingwomen-defendingrights.org/resources.php

e www.humanrights-for-all.org/spip.php?article51)

Nel giugno del 2009, la Coalizione tenne una conversazione di pianificazione (“Occuparsi delle mancanze nella difesa delle difensore dei diritti umani delle donne”) ed una delle tre preoccupazioni tematiche era la responsabilità diretta delle forze fondamentaliste. Durante questo seminario fu discusso come la comprensione limitata dei collegamenti estesi delle forze fondamentaliste, del loro uso di enti di beneficienza come schermi, della loro manipolazioni delle crisi umanitarie, e della natura trasnazionale delle reti dei gruppi fondamentalisti nel Regno Unito e negli Usa, così come la cornice stato-centrica dei diritti umani, abbiano “igienizzato” gli attori non statali come i gruppi fondamentalisti che violano i diritti delle donne e chi li difende. Il seminario sottolineò il fatto che la questione era stata manifestata ripetutamente.

In una recente (giugno 2010) lettera aperta inviata ai revisori di AI, la Coalizione ha scritto che ciò: “è stato causa di preoccupazione, in particolar modo fra le organizzazioni pro diritti umani per le donne, perché indebolisce l’esteso lavoro che è stato fatto affinché le forze fondamentaliste che propagano sistematica discriminazione contro le donne ed altri generi rispondano dei loro atti. La controversia porta alla luce l’inadeguatezza (…) di una campagna per la giustizia iscritta nella rubrica dei diritti umani, ma che non vi integra a pieno i diritti delle donne e l’eguaglianza di genere. Se questi diritti fossero pienamente integrati, AI non sarebbe vigile solo sui diritti civili e politici, ma sarebbe anche preoccupata di non difendere tali diritti al prezzo del condonare la negazione dei diritti umani delle donne.”

Tuttavia, nelle settimane che seguirono l’uscita pubblica di Gita, il Segretario generale di AI attestò pubblicamente che “la jihad difensiva” non è “antitetica ai diritti umani” (By Human Rights Alone, 4 aprile 2010, e Daily News and Analysis, Gita Sahgal, 18 aprile 2010), rendendo in questo modo esplicita la posizione politica dell’organizzazione.

Lo svelamento operato da Gita intendeva condurre ad un dibattito pubblico. Il dibattito non ci sarà. AI ha deciso di condurre una revisione interna dei propri processi rispetto alla formazione di alleanze, e solo parti selezionate del rapporto finale saranno accessibili al pubblico.

Notiamo di passaggio che il gruppo di algerini, tutti noti al quartier generale di AI, (Statement by Algerians on the affair Gita Sahgal vs AI/Moazzam Begg, www.siawi.org/article1670.html), che immediatamente sostennero l’azione di Gita, non sono stati contattati dai revisori…

Questa sembra un’operazione di candeggiamento piuttosto che il mostrare la volontà di accettare un dibattito onesto e trasparente con coloro che l’hanno richiesto per decenni. La “Coalizione delle donne difensore dei diritti umani” e WLUML hanno chiesto e chiedono tuttora un dibattito pubblico in presenza di Gita e degli altri attivisti di AI che sono stati sanzionati in passato per aver sollevato la questione.

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