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Posts Tagged ‘agroecologia’

(“In rural Paraguay, women are on the frontlines of a ‘race against time’ to save native seeds”, di Maria Sanz Dominguez – che ha anche scattato la foto di Ceferina Guerrero riprodotta qui – per Awid e Open Democracy 50.50, 11.9.2018, trad. Maria G. Di Rienzo.)

ceferina guerrero - immagine di maria sanz dominguez

A Chacore, a circa 200 chilometri di distanza dalla capitale del Paraguay Asunción, la 68enne Ceferina Guerrero cammina accanto a scaffali pieni di bottiglie di plastica e lattine accuratamente etichettate. Ognuna di esse contiene una varietà nativa di semi essenziali per la dieta delle comunità rurali.

Le etichette riportano i nomi in guarani, lingua indigena e seconda lingua ufficiale del Paraguay, così come in spagnolo. Guerrero presenta i semi con calore, come farebbe una madre con i propri figli: questo è un fagiolo, questa è una nocciolina, questo è mais.

Conosciuta come Ña Cefe nella sua comunità, Guerrero dice che il suo cognome (“guerriero” in spagnolo) le calza come un guanto. E’ una delle fondatrici del Coordinamento delle donne rurali e indigene in Paraguay (Conamuri).

Conamuri ha avuto inizio negli anni ’90 come piccolo gruppo. Oggi i suoi membri includono donne da più di 200 comunità rurali in Paraguay e l’associazione è anche collegata ai propri alleati in tutto il mondo come parte del movimento internazionale contadino La Via Campesina.

Pure, dice Guerrero, “non dobbiamo dimenticare il nostro principale obiettivo”: raccogliere e preservare semi nativi nell’intero paese. Lei descrive ciò come una corsa contro il tempo – e contro l’espansione dell’agricoltura industriale su larga scala.

“Attualmente abbiamo perso almeno il 60% delle varietà native. – mi ha detto – Ci sono persino comunità che non ne hanno affatto.”

Secondo l’organizzazione per il cibo e l’agricoltura delle Nazioni Unite (FAO), a livello globale il 60-80% del cibo nella maggioranza dei paesi in via di sviluppo, e metà del rifornimento mondiale di cibo, è piantato dalle donne.

Nel frattempo, il mondo ha perso il 75% del suo differente campionario di semi durante il ventesimo secolo. Ora, nove sole colture comprendono il 66% della produzione agricola globale. Unicamente tre di queste – grano, riso e mais – rappresentano circa la metà delle calorie giornaliere della popolazione mondiale.

Queste tendenze hanno allarmato ong, organizzazioni rurali e istituzioni internazionali. Mantenere la biodiversità, insiste la FAO, è “fondamentale” per la sicurezza alimentare e la capacità di adattarsi alla crescita della popolazione e al cambiamento climatico.

La perdita di biodiversità ha anche un “impatto specifico” sulle donne che “sono state per tradizione le custodi di una profonda conoscenza su piante, animali e processi ecologici”, hanno aggiunto nel 2016 gli esperti del comitato internazionale dell’IPES sui sistemi alimentari sostenibili.

In Paraguay, il mero 5% della popolazione possiede il 90% della terra. La maggioranza di quest’ultima è usata da grossi agribusiness per coltivare solo una manciata di varietà (incluse la soia, il grano, il riso e il mais) su vaste piantagioni a scopo di esporto internazionale.

L’anno scorso, il paese ha importato almeno 24.000 tonnellate di semi. La maggior parte era diretta a queste coltivazioni da esporto. Meno dell’1% erano semi di frutta o vegetali, per lo più patate. Il resto includeva il frutto nazionale del Paraguay: mburucuya (maracuja o frutto della passione).

Intanto, 28 coltivazioni geneticamente modificate (in gran parte varietà di soia, mais e cotone) sono state approvate dal governo dal 2001 in poi, quando la Monsanto ha cominciato a produrre qui la sua sua soia resistente al pesticida Roundup. Nel mezzo della pressione esercitata dalle corporazioni sull’agricoltura e la produzione di cibo, le donne che preservano le varietà native, come Guerrero a Chacore, sono “rare, come aghi nel pagliaio” dice Inés Franceschelli, una ricercatrice per l’ong Heñoi (‘germinare’). “E se il Paraguay è cosi dipendente (dalle compagnie straniere) per una faccenda così di base come il cibo – ha aggiunto – significa che questo è un paese subordinato.”

A seguito di un’intensa campagna di mega-fusioni partita nel 2016, un piccolo gruppo composto di tre corporazioni giganti (Bayer-Monsanto, DowDuPont e Chemchina-Syngenta) ora controlla più della metà del mercato mondiale dei semi. Questi semi e i giganti dell’agrochimica sono attivi anche in Paraguay, dove è stato loro permesso di piantare mais, cotone e soia transgenici.

Guerrero mi ha detto che i semi nativi crescono senza insetticidi, mentre alcuni semi transgenici possono “produrre una bella pianta, con bei frutti, ma se tu raccogli i semi e li pianti di nuovo, non germineranno. Non puoi riusare i loro semi e sei costretta a comprarli ancora e ancora.” Ciò che lei descrive suona come l’effetto di una controversa modifica genetica che produce semi sterili una volta che la pianta abbia dato i suoi frutti.

Alcuni li chiamano i “semi terminator”, alcune ong e organizzazioni rurali mettono in guardia sul fatto che l’uso delle Genetic Use Restriction Technologies (GURT) può rimpiazzare le varietà native e minacciare la sicurezza alimentare locale. Il Paraguay è anche uno dei paesi firmatari della Convenzione sulla diversità biologica delle Nazioni Unite, che nel 2000 raccomandava una moratoria de facto dei test sui campi e della vendita dei semi “terminator”.

Si crede che le maggiori compagnie mondiali abbiano brevetti per tali tecnologie, sebbene esse neghino di usarli. La Monsanto, per esempio, ha detto di “non aver mai commercializzato una biotecnologia che risultasse in semi sterili – o terminator” per i raccolti di cibo e di “non avere piani o ricerche che violerebbero questo impegno.”

In questo momento si sta anche facendo pressione affinché il Paraguay adotti il controverso accordo sui semi “UPOV 91”, come parte del trattato sul libero commercio che viene negoziato fra l’Unione Europea e il blocco commerciale sudamericano Mercosur.

Le organizzazioni rurali temono che questo renderebbe possibili azioni legali contro i contadini per la condivisione e lo scambio di semi nativi, poiché essi non sarebbero in grado di soddisfare i requisiti richiesti per la registrazione all’interno dell’accordo.

Durante l’ultimo decennio, Conamuri ha sviluppato le sue proprie proposte di legge per proteggere i semi nativi e “creoli” (che non sono nativi, ma si sono adattati nei secoli alle condizioni locali). Queste proposte sono state respinte nel 2012, dopo l’impeachment del Presidente Fernando Lugo (visto come qualcuno disponibile ad accettarle). “Abbiamo capito allora che il potere politico era instabile e che perciò dare al governo il controllo sui nostri semi non era una garanzia per la sovranità e la sicurezza alimentare.” – mi ha detto Perla Álvarez di Conamuri – I semi devono stare nelle mani della gente di campagna.”

“La gente di campagna ha potere nel proprio stile di vita tradizionale.”, aggiunge Franceschelli dell’ong Heñoi, dal potere di un’alimentazione sana e di una gestione sostenibile della terra a quello di “vivere senza essere dipendenti dalla corporazioni. La resistenza è situata nelle comunità rurali e indigene in tutto il mondo. E questa resistenza è più forte nelle donne.” In Paraguay, nel mezzo del diffondersi dell’agricoltura industriale, delle coltivazioni transgeniche e dei brevetti sui semi, donne come Guerrero sono in prima linea nella battaglia per salvare le varietà native, prima che sia troppo tardi.

Queste donne stanno producendo “fertilizzanti verdi” che aiutano la terra coltivabile a rinvigorirsi per la prossima stagione e insegnano ad altre persone la coltivazione agro-ecologica che tiene conto degli ecosistemi naturali e incoraggia a piantare una varietà di semi. Stanno accuratamente etichettando recipienti in cui immagazzinano le stesse varietà di mais che le loro nonne usavano per cucinare, molto tempo fa. Stanno anche riscoprendo e preservando i semi nativi che non sono stati usati per molti anni.

A Chacore, la Semilla Róga (la casa dei semi) è un progetto di Conamuri che ospita ogni mese contadini provenienti da tutto il Paraguay per lo scambio dei semi e per l’apprendimento alla preservazione di varietà native e creole. Qui, Guerrero insegna come far crescere cibo senza pesticidi o insetticidi. Ha anche il suo magazzino di semi a casa, in cui preserva 60 varietà di semi e li condivide con i suoi vicini. “Sin dall’inizio dell’agricoltura – dice – i semi nativi sono stati collegati alle donne, che sono state le prime a raccogliere, conservare e piantare semi.”

Il progetto Semilla Róga mira pure a preservare la conoscenza e le tradizioni delle comunità che usano i semi nativi. “Ciascuna varietà di mais è adatta a diversi tipi di cibo e appartiene a differenti gruppi di persone. – ha spiegato Álvarez – Per esempio, le genti indigene come gli avá gli mbya guaraní usano il mais colorato per i rituali, perciò questa pianta ha anche valore culturale.”

Le medicine naturali derivate dai semi crudi sono pure popolari in Paraguay, dove sono spesso usate come alternative meno costose alle medicine convenzionali. Il seme di coriandolo, per esempio, è usato per aumentare le difese naturali dopo una malattia.

“Se perdiamo il kuratu (coriandolo), se perdiamo l’andai (varietà locale di zucca), noi stiamo perdendo la medicina e stiamo perdendo il nostro cibo, una parte delle nostre tradizioni come gente di campagna e una parte della nostra cultura e della nostra identità.”, mi ha detto Guerrero. Tenendo in mano una grande foglia di mais rosso nativo, Guerrero spiega che dovrebbe essere raccolto durante la luna piena, quando l’atmosfera è meno umida. Mi mostra come raccogliere i piccoli semi da ambo le estremità per il cibo: quelli nel mezzo saranno immagazzinati per la semina della prossima stagione.

“Alcuni mi chiedono quanti dollari spendo al giorno. Io non capisco la domanda, perché produco quel di cui ho bisogno e per settimane intere non spendo un dollaro. – dice – Quando hai semi in casa, non avrai mai fame.”

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(“The Women Leading This Kenyan Environmental Group Are Thriving Where Men Failed”, di Daniel Sitole per News Deeply, 4 gennaio 2018, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

Foresta di Kakamega, Kenya – Quando Maridah Khalawa ha dato inizio al Gruppo Agricoltori di Muliru per la Conservazione, circa un decennio fa, sapeva di voler trovare un modo di generare reddito per se stessa e altre donne che vivono nei pressi della foresta Kakamega nel Kenya occidentale, senza sfruttare le già risicate risorse dell’area.

Quel che non poteva sapere era che la loro piccola impresa comunitaria sarebbe cresciuta sino a contribuire al sostegno di centinaia di famiglie, avrebbe vinto riconoscimenti internazionali e si sarebbe dimostrata più efficace di molti dei gruppi di uomini che tentato di fare la stessa cosa.

La chiave dell’impresa sostenibile del gruppo di Muliru è il basilico canforato.

basilico canforato

La pianta indigena, Ocimum kilimandscharicum, chiamata “Mwonyi” nel locale dialetto Luhya, è stata a lungo usata dalla popolazione attorno alla foresta Kakamega per curare influenza e tosse, per tenere distanti i parassiti dal grano immagazzinato e come repellente per le zanzare.

A partire dal 1999, con il piccolo capitale iniziale e il lavoro gratuito fornito dai membri, più della metà dei quali sono donne, il gruppo di auto-aiuto di Muliru ha cominciato a coltivare e a trattare il basilico canforato per trasformarlo in un unguento da vendere localmente. L’idea era di attingere a un’abbondante e poco apprezzata risorsa della foresta Kakamega, l’ultima foresta pluviale del Kenya che ancora sopravvive, beneficiando nel contempo finanziariamente le comunità locali. Per giunta, una parte dei guadagni provenienti dall’iniziativa sarebbero andati alla ricerca per la preservazione ambientale.

“Uno dei nostri iniziali scopi relativi alla conservazione era l’agire andando oltre il metodo tradizionale, usando tecnologia moderna e abbracciando la cooperazione con altre organizzazioni interessate.”, dice Maridah Khalawa, 54enne, che non hai mai finito le scuole superiori perché i suoi genitori non potevano permettersi di pagare le tasse relative.

Muliru

(Muliru – Maridah Khalawa è a destra accanto al distillatore)

Lo sforzo del gruppo ha subito attirato i donatori. Nel 2.000, Il Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite ha dato al gruppo 4 milioni e mezzo di scellini kenyoti (poco più di 37.000 euro) per comprare macchinario da distillazione in grado di estrarre gli oli essenziali del basilico. In precedenza, la comunità era solita bollire la pianta come da medicina tradizionale. Cinque anni più tardi la Fondazione Ford, tramite il Centro Internazionale di Fisiologia e Ecologia degli Insetti, finanziò parzialmente la costruzione di due edifici per la produzione, lo stoccaggio e gli uffici amministrativi del gruppo.

Altri donatori seguirono, sebbene non senza incontrare resistenza da parte di alcuni membri dell’organizzazione: “Non è stato facile convincere altri abitanti del villaggio a pensare globalmente e ad accettare di lavorare con stranieri.”, dice ancora Khalawa. Ora il Gruppo Agricoltori di Muliru per la Conservazione è rinomato per il suo unguento erbaceo basato sul basilico canforato, che è sul mercato con il nome di Naturub ed è registrato come medicina in Kenya per la cura dei sintomi dell’influenza, come sollievo per il dolore e i morsi di insetti. Oltre all’unguento, il gruppo fa anche repellente per zanzare.

I prodotti sono venduti a negozi, supermercati e farmacie nel Kenya occidentale e distribuiti tramite agenti in altre parti del paese. James Ligale, l’addetto del gruppo alle pubbliche relazioni, dice che il valore dei loro beni patrimoniali ammonta a più di 15 milioni di scellini kenyoti (circa 124.000 euro), valore della terra compreso. Vendono annualmente 36.000 flaconi di unguento.

I benefici vanno ben oltre i membri di Muliru, di cui più del 40% riceve tutti i propri guadagni dal progetto. Il gruppo fornisce reddito regolare per 400 agricoltori che coltivano le piante per il materiale grezzo e che a loro volta impiegano circa 1.000 dipendenti.

Come integrazione ai propri guadagni, Muliru ospita turisti che pagano dai 12 ai 29 euro per apprendere le storie della conservazione della foresta di Kakamega, della pianta Ocimum e del processo di produzione di Naturub – dalle fattorie ai macchinari.

Il lavoro del gruppo ha vinto diversi premi, inclusi due dall’UNDP: l’Equator Prize nel settembre 2010, che fu conferito durante l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York e il Seed Award nel dicembre dello stesso anno.

“E’ l’impresa di preservazione ambientale più di successo e meglio amministrata diretta da una donna in Kenya. – dice l’esperto di conservazione di risorse naturali, ora in pensione, John Kimeto – Gli uomini hanno tentato di imitare Maridah ma hanno tutti fallito.”

Khalawa attribuisce il suo successo all’instancabile sostegno delle donne membri del gruppo. Dice che si è presa l’impegno di far spazio alle vedute e alle opinioni delle persone al di là della loro età, affiliazione politica o comprensione delle istanze, ma che non permetterà ai politici di professione di interferire nella gestione degli affari. “Le organizzazioni comunitarie sono soggette a manipolazioni politiche, e ai politici piace essere membri, patrocinatori o sponsor di tali gruppi. Io ho tenuto con fermezza i politici fuori da Muliru.”, spiega.

Nonostante la sua comprovata e forte esperienza, Muliru affronta ancora difficoltà nel mentre tenta di ingrandirsi ed espandersi. Cerca di guadagnare abbastanza per i costi del marketing o per assumere impiegati dalle specifiche abilità – come ingegneri di produzione o contabili – che facciano funzionare l’organizzazione. I membri più anziani trattano gli affari del gruppo essi stessi, a volte andando per tentativi e errori.

Tuttavia, Maridah Khalawa e la sua compagine si dedicheranno a dirigere l’impresa in modo sostenibile e per il beneficio della loro comunità locale il più a lungo possibile: “Quelli che volevano stare dalla parte “giusta” politicamente sono collassati, ma noi siamo qui per restare.”, dice.

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(“Meet Mariama Sonko, Senegal” – Nobel Women’s Initiative, 1° dicembre 2017. Trad. Maria G. Di Rienzo.)

Mariama Sonko

Contadina e organizzatrice per le donne rurali, Mariama è la coordinatrice nazionale di “Nous sommes la solution” (Noi siamo la soluzione) in Senegal, un movimento di agricoltrici per la sovranità alimentare che si sta diffondendo anche in Burkina Faso, Mali, Ghana e Guinea. Tramite le pratiche agro-ecologiche, Mariana e il suo movimento lavorano con le donne rurali per prendere il controllo dei propri mezzi di sussistenza e creare una forte rete di sostegno l’una per l’altra.

Puoi dirci qualcosa del tuo lavoro?

Il nostro movimento è nato dai dialoghi fra le organizzazioni degli agricoltori e la società civile su come resistere alle politiche agricole imposte dalle corporazioni multinazionali. Questo movimento è afro-centrato e propone l’agro-ecologia come alternativa per sostenere una maggior sicurezza alimentare in Africa.

Le donne giocano un ruolo indiscutibile in agricoltura: nella produzione, nella commercializzazione delle coltivazioni domestiche, nel consumo. Il nostro movimento è radicato nella visione di un’Africa in cui le donne rurali sono coinvolte in ogni processo decisionale e coltivano, vendono e consumano i prodotti delle loro fattorie di famiglia.

Come si è diffuso il vostro movimento sino a ora?

Abbiamo avuto un bel po’ di successo, principalmente perché siamo state capaci di rinforzare le capacità delle donne leader di esporre il valore del movimento proprio dal suo inizio. Ciò ci ha permesso di organizzarci con le donne coinvolte a livello di base e ora abbiamo una piattaforma di circa 100 associazioni locali.

Lavoriamo anche con i media, giornali e radio, per diffondere il nostro messaggio. Sebbene il movimento sia stato creato dalle donne ci siamo espanse e abbiamo incluso uomini, gioventù, politici e altre persone che credono nel nostro lavoro. Oggi abbiamo una fattoria modello diretta da donne rurali e un negozio dove vendiamo i nostri prodotti. Sta tutto nel trasformare le parole in azione.

Facciamo molto a livello locale, ma crediamo sempre di più che sia cruciale avere anche reti a livello internazionale, per dare maggiore visibilità al movimento. Questa può essere una risorsa potente per il nostro attivismo.

Quale ritieni essere la sfida maggiore che avete davanti?

Le donne sono le persone chiave, ma il loro lavoro non è compreso e neppure compensato. Perciò, questo è il motivo per cui dobbiamo continuare a costruire l’abilità delle donne di comunicare le nostre opinioni e di entrare in relazione con altri, di modo che sappiamo che cosa stiamo chiedendo e cosa dobbiamo fare.

Quale azione diresti essenziale per l’attivismo?

E’ essenziale essere collegati con altri movimenti in altri paesi, per sapere meglio cosa stanno difendendo e per cosa stanno lavorando e vedere come i legami d’alleanza possono essere più forti. Non possiamo limitarci a quel che facciamo noi. Dobbiamo conoscere cosa altri fanno per ricevere o dare lezioni che ci conducano a uno sviluppo più armonioso.

Cosa significa la parola “femminismo” per te?

Femminismo significa semplicemente giustizia sociale nella nostra comunità. L’ingiustizia verso le donne è stata presente sin dai giorni dei nostri antenati. Il femminismo corregge questa ingiustizia a livello locale, nazionale e internazionale. E questo è ciò che ci sprona a essere e lavorare nel movimento femminista globale, il tentare davvero di risolvere questa ingiustizia, di dare valore al ruolo che le donne svolgono e al loro posto nella nostra comunità.

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(“Women taking control over the coffee supply chain”, di Zaza Fetriza, 24 settembre 2015, trad. Maria G. Di Rienzo.)

Java Mountain Coffee

Lasciatemi cominciare con qualche statistica relativa alla tazza di caffè sul vostro tavolo al mattino, o nelle vostre mani mentre viaggiate per andare al lavoro:

* Di tutto il lavoro umano necessario a produrre caffè, circa l’80% è svolto da donne rurali.

* Un chilogrammo di caffè verde equivale a 80 macchiati, in vendita a circa 3 dollari a tazza. Questo fa più o meno 240 dollari per un chilo di caffè.

* Tuttavia, le donne lavoratrici rurali sono pagate 1 dollaro e 75 centesimi al giorno.

Queste sono alcune delle ragioni per cui pensiamo che voi e altri bevitori di caffè in tutto il mondo potreste preferire il caffè prodotto delle donne imprenditrici sociali.

La missione del “Caffè di Montagna di Giava” è di contrastare e mettere fine, una volta per tutte, all’antiquato modello della catena di produzione e distribuzione del caffè in Indonesia, modello che fu creato 300 anni fa da coloni uomini per altri uomini, con ben poco valore posto sulla nostra gente e sul nostro ambiente.

Il modo globale in cui si fanno gli affari sul caffè è ben poco cambiato in tutto questo tempo. Fairtrade International stima che il 42% della catena relativa alla fornitura del caffè è controllato da solo tre compagnie. E, naturalmente, circa il 100% dell’intera filiera è controllato da uomini che preferiscono interagire con altri uomini, non con le contadine che fanno crescere le piante e portano il raccolto.

L’8 marzo 2015, il Giorno Internazionale delle Donne, noi abbiamo lanciato la nostra impresa sociale usando i princìpi sull’empowerment delle donne come guida. Miriamo a far sì che un milione di donne controllino le loro coltivazioni e le loro contrattazioni finanziare con i dettaglianti e i bevitori di caffè. Miriamo a mettere in terra tre milioni di pianticelle entro il 2020.

Piantiamo anche alberi da frutta che danno ai cespugli del caffè l’ombra vitale di cui essi hanno bisogno e generano un introito secondario per le famiglie. Vogliamo aiutare le coltivatrici a dirigere i loro affari in modo sostenibile e sano a livello ambientale.

Ma cos’è che rende il “Caffè di Montagna di Giava” così differente dal caffè che comprate ora? Quando noi produciamo il nostro caffè, ed è la prima volta per i chicchi di Giava da 300 anni a questa parte, lo micro-tostiamo immediatamente dopo la raccolta, lo imballiamo fresco e lo mandiamo ai mercati globali pronto per essere venduto. In Indonesia, moltissime delle nostre risorse e merci sono esportate allo stato naturale e le compagnie internazionali raccolgono anche il valore aggiunto del guadagno relativo al farle trasformare altrove. Tuttavia questo è un sistema antiquato che non è sostenibile ne’ per la nostra gente, ne’ per il nostro pianeta.

Trasporti moderni, tecniche moderne di lavorazione e imballo significano che non c’è ragione per cui le agricoltrici indonesiane (sono in maggioranza donne) non possano tenere per se stesse i guadagni sulla lavorazione di quel che producono.

Vogliamo distanziarci dal sistema attuale, che prevede lo stoccaggio del caffè nella sua forma grezza qui in Indonesia dopo il raccolto, a volte per mese, e poi il suo invio ai mercati globali dove viene di nuovo immagazzinato prima di essere tostato. E può restare nei magazzini per mesi e persino per anni prima che i consumatori lo bevano.

Il “Caffè di Montagna di Giava” rappresenta anche un’altra anteprima. E’ la prima volta che le donne si fanno carica della filiera di fornitura reclamando il loro diritto ad un trattamento equo all’interno di tale catena. Almeno il 10% del guadagno di ogni vendita sarà reinvestito nell’agricoltura delle donne tramite il nostro programma di sostenibilità. Il programma è stato elaborato in collaborazione con i programmi globali di certificazione come Fairtrade, RainForest Alliance, UTZ Certified. Il nostro caffè organico per la cui coltivazione si usano energie rinnovabili – ed è quindi un caffè a “zero emissioni” – è stato anche certificato dalla GoldStandard Foundation.

Nel mentre questi programmi sono stati d’aiuto affinché le contadine ricevessero un guadagno più giusto per ciò che producono, hanno fatto poco nell’affrontare la questione dell’eguaglianza di genere. Pure, questa è la chiave, giacché così tanto lavoro in agricoltura è svolto dalle donne ed esse ricevono una frazione minima del valore delle loro colture.

Fairtrade International, per esempio, opera da 27 anni e ha le sue radici a Giava. Pure, nel suo milione e mezzo di membri coltivatori certificati e lavoratori c’è solo il 25% di donne. Almeno, ha una banca dati di genere: nessuno degli altri programmi di certificazione ha informazioni specifiche su quanti partecipanti o produttori sono donne.

Fairtrade International stima che mentre le donne svolgono l’80% della produzione del caffè, esse ricevono il 7% o meno delle entrate che il loro lavoro genera.

Per favore, aiutateci a cambiare davvero questo.

tazzina artistica

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(“Women Ecowarriors”, di Vandana Shiva per Common Dreams, 26.3.2014, trad. Maria G. Di Rienzo.)

Chipko

Negli ultimi quarant’anni, ho servito la Terra e i movimenti ecologisti di base, a cominciare dallo storico movimento Chipko (“Abbraccia gli alberi”) nell’Himalaya centrale. In ogni movimento a cui ho partecipato, ho notato che le donne erano le decisore – decidevano il corso dell’azione ed erano persistenti nel proteggere la terra e le fonti del loro sostentamento e della loro sopravvivenza.
Le donne che furono parte del movimento Chipko stavano proteggendo le foreste perché la deforestazione e i tagli per il ricavo di legname a Uttarakhand provocavano inondazioni, siccità, frane e altri disastri naturali di questo tipo. Generavano scarsità di alimenti e foraggio. Causarono la scomparsa di fonti e ruscelli, costringendo le donne e percorsi più lunghi e distanti per avere acqua.
Il paradigma dominante delle attività forestali è basato su monoculture di specie commerciali, ove le foreste sono viste come miniere di legname da cui ricavare introiti e profitti. Le donne del movimento Chipko insegnarono al mondo che legname, introiti e profitti non erano i veri prodotti della foresta: i veri prodotti della foresta erano suolo, acqua e aria pura. Oggi, la scienza si riferisce ad essi come alle funzioni ecologiche degli ecosistemi. Donne illetterate della regione Garhwal Himalaya erano quattro decenni più avanti degli scienziati mondiali. Nel 1981, il governo fu costretto a smettere di deforestare l’Himalaya.
Il 22 aprile 2002, durante il Giorno della Terra, fui invitata dalle donne di un piccolo borgo chiamato Plachimada in Palghat, nel Kerala, ad unirmi alla loro lotta contro la Coca Cola che aspirava un milione e mezzo di litri d’acqua al giorno e inquinava l’acqua che restava nei loro pozzi. Le donne erano costrette a camminare per dieci chilometri ogni giorno in cerca di acqua pulita da bere. Mylamma, una donna tribale che guidava il movimento, a un certo punto disse che non avrebbero camminato più. La Coca Cola doveva smettere di rubare la loro acqua. Queste donne decisero di allestire un “campo satyagraha” (Ndt: satyagraha, una delle parole chiave della nonviolenza significa letteralmente “attenersi fermamente alla verità”) di fronte alla fabbrica della Coca Cola. Io mi unii a loro in solidarietà e le sostenni durante gli anni. Nel 2004, la Coca Cola fu forzata a chiudere lo stabilimento.
Nel 1984, un terribile disastro causato da una perdita dell’impianto produttore di pesticidi della Union Carbide a Bhopal uccise all’istante 3.000 persone. Migliaia di bambini nascono tuttora con disabilità. La Union Carbide è ora proprietà di Dow, che rifiuta di assumersi responsabilità. Nel 1984, in risposta al disastro, io diedi inizio alla campagna “Non più Bhopal, piantate un albero Neem” (Ndt., si legge “nim”; nome scientifico: Azadirachta Indica).
Le donne di Bhopal furono anch’esse vittime del disastro. Ma non lasciarono andare le loro speranze e lottarono per la giustizia. Per esempio, Rashidabi e Champadevi Shukla hanno portato avanti la lotta. Forniscono anche riabilitazioni per i bimbi disabili; hanno organizzato il Fondo Chingari per onorare le donne che si oppongono all’ingiustizia delle corporazioni economiche. Nel 2012, mi invitarono per consegnare il premio Chingari a donne che lottano contro l’impianto nucleare di Kudankulam, nello stato indiano di Tamil Nadu.
Nel 1994, venni a sapere che l’uso dell’albero Neem per controllare insetti nocivi e malattie in agricoltura era stato brevettato dal Dipartimento Agricoltura statunitense e dalla multinazionale WR Grace. Lanciammo una “campagna-neem” per sfidare la biopirateria. Più di 100.000 indiani firmarono per dare inizio alla causa legale all’European Patent Office. Unii le mie mani a quelle di Magda Alvoet, presidente dei Verdi Europei e a quelle di Linda Bullard, presidente della Fondazione per l’agricoltura organica. Abbiamo lottato su questo caso per 11 anni. L’8 marzo 2005, nel Giorno Internazionale delle Donne, l’ufficio brevetti europeo ha disconosciuto il brevetto “biopiratato”.

vandana shiva

Perché c’è un trend di donne che guidano movimenti ecologisti contro la deforestazione e l’inquinamento delle acque, contro i rischi tossici e nucleari? In parte, credo, perché nella divisione del lavoro sono le donne ad essere state lasciate ad occuparsi della sussistenza – provvedere cibo, acqua, salute, cura. Quando si tratta della sostenibilità dell’economia, le donne agiscono allo stesso tempo come esperte e provveditrici. Ed anche se il lavoro delle donne nel fornire sussistenza è l’attività umana maggiormente vitale, un’economia patriarcale che definisce l’economia come mercato la tratta come non-lavoro. Il modello patriarcale dell’economia è dominato da una figura, il prodotto interno lordo, che è misurato sulla base di confini produttivi creati artificialmente: se produci quel che consumi, non produci.
Quando le crisi ecologiche create da un paradigma economico ecologicamente cieco conducono alla scomparsa delle foreste e dell’acqua, diffondono malattie derivate da sostanze tossiche e veleni, e di conseguenza minacciano la vita e la sopravvivenza, sono le donne che si sollevano a risvegliare la società rendendola consapevole della crisi, sono le donne che si sollevano a difendere la Terra e le esistenze. Le donne stanno guidando il cambio di paradigma per allineare l’economia all’ecologia. Dopo tutto, entrambe hanno la loro radice nella parola “oikos” – la nostra casa.
Non solo le donne sono esperte di economia di sussistenza. Sono esperte in scienza ecologica tramite la loro partecipazione quotidiana ai processi che forniscono sussistenza. La loro competenza si radica nell’esperienza vissuta e non in conoscenza astratta e frammentata, che non riesce a vedere attraverso le connessioni della rete della vita. Il sorgere della scienza maschilista con Rene Descartes, Isaac Newton, Bacon, condusse al dominio della scienza meccanicistica riduzionista, e al soggiogamento dei sistemi di conoscenza basati sull’interconnessione e le relazioni. Ciò include tutti i sistemi di conoscenza indigeni e la conoscenza delle donne.
La più violenta dimostrazione di scienza meccanicista è la promozione dell’agricoltura industriale, inclusi gli organismi geneticamente modificati come soluzione alla fame e alla malnutrizione. L’agricoltura industriale usa prodotti chimici sviluppati per la guerra come basi di partenza. L’ingegneria genetica è basata sull’idea dei geni come di “molecole padrone” che danno comandi unidirezionali al resto dell’organismo. La realtà è che i sistemi viventi sono auto-organizzati, interattivi e dinamici. Il genoma è fluido.
Mentre tali questioni si muovono al centro dell’attenzione in ogni società, sono le donne che portano le alternative tramite la biodiversità e l’agroecologia che offrono soluzioni reali alle crisi alimentari e nutrizionali. Come ho appreso in oltre trent’anni di costruzione del movimento Navdanya, la biodiversità produce più delle monoculture. Le piccole fattorie familiari basate sulla partecipazione delle donne forniscono il 75% del cibo mangiato nel mondo. L’agricoltura industriale produce solo il 25%, nel mentre usa e distrugge il 75% delle risorse della Terra.
Quando bisogna arrivare a soluzioni reali per i problemi reali affrontati dal pianeta e dalle persone, è nella conoscenza soggiogata e nel lavoro invisibile delle donne, basato sulla co-creazione e la co-produzione, che la natura mostrerà la via all’umana sopravvivenza e al benessere futuro.

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