(“We Found Our Son in the Subway”, di Peter Mercurio, commediografo e sceneggiatore televisivo, per The New York Times, 28.2.2013, trad. Maria G. Di Rienzo.)

La storia di come Danny ed io ci siamo sposati lo scorso luglio in un’aula di tribunale a Manhattan, con nostro figlio Kevin accanto, comincia 12 anni prima, in una scura e umida stazione della metropolitana.
Danny mi chiamò quel giorno al telefono, agitatissimo: “Ho trovato un neonato!”, urlò, “Ho chiamato il 911 (Ndt: l’equivalente del nostrano 113) ma non penso mi abbiano creduto. Non sta venendo nessuno. Non voglio lasciare il bambino da solo. Vieni qui e trascinati dietro un’auto della polizia o qualcosa del genere.”
Di natura Danny è una persona assai calma, per cui sentendo il suo cuore rimbombare attraverso la linea telefonica seppi che dovevo proprio correre. Quando giunsi all’uscita A/C/E della metropolitana sulla Eighth Avenue, Danny era ancora là in attesa di aiuto. Il bimbo, che era stato lasciato in un angolo dietro le porte girevoli, era leggermente scuro di pelle e quieto, probabilmente aveva un giorno di vita ed era avvolto in una larga felpa nera.
Nelle settimane seguenti, dopo che il tribunale familiare aveva preso in custodia il “Piccolo Asso” (Ndt: dalle lettere dell’uscita della metro che formano la parola “ace”, e cioè “asso”), come il bimbo era stato soprannominato, Danny raccontò la storia più volte, alla tv locale dapprima, e poi a familiari, amici, colleghi e conoscenti. La faccenda si diffuse come un mito urbano: non crederesti mai a cosa l’amico di un cugino di un mio collega ha trovato in metropolitana. Quello che entrambi non sapevamo, o che non prevedevamo, era che Danny non aveva solo salvato un infante abbandonato; aveva trovato nostro figlio.
Tre mesi più tardi, Danny testimoniò in tribunale per dare un resoconto del ritrovamento del bimbo. Di colpo, la giudice gli chiese: “Lei sarebbe interessato ad adottare questo bambino?” La domanda sorprese chiunque nell’aula, chiunque ad eccezione di Danny che rispose semplicemente: “Sì.”
“Ma so che non è così facile.”, disse. “Be’, può esserlo.”, assicurò la giudice prima di snocciolare una serie di ordini che cominciavano a fare di lui e per estensione di me dei futuri genitori. La mia prima reazione, quando sentii la storia, fu qualcosa del genere: “Sei pazzo? Come hai potuto dire di sì senza neppure consultarmi?” Da tre anni in coppia, non avevamo mai discusso l’adozione di un bambino. Perché avremmo dovuto? Le nostre vite non erano attrezzate per crescere un figlio. Io ero un aspirante commediografo che lavorava part-time come correttore di bozze e Danny era un rispettato, ma terribilmente sottopagato, assistente sociale. Avevamo un coabitante che dormiva dietro un separé nel nostro salotto per riuscire a pagare l’affitto. Persino se la nostra situazione finanziaria e logistica fosse stata diversa, sapevamo bene quante sfide deve affrontare di solito una coppia gay che vuole adottare un bambino. E mentre Danny aveva pazienza e generosità in abbondanza, io no. Io non sapevo nemmeno come cambiare un pannolino, figuriamoci il crescere un figlio.
Ma ecco che il destino, praticamente, ci dava un bimbo. Potevamo rifiutare? Infine la mia mente timorosa si quietò e il mio cuore prese il controllo nell’assicurarmi che potevo farcela ad essere un genitore. Chi si occupava del caso organizzò un incontro fra noi e il neonato nella casa in cui era ospitato, all’inizio di dicembre. Danny tenne la fragile creatura fra le braccia per primo, poi la pose nelle mie. Per proteggermi dal dolore futuro badavo a convincermi che non potevo e non dovevo affezionarmi troppo. Non avevo fiducia nel sistema ed ero sicuro che ci sarebbero stati ostacoli. Ma gli occhi del bimbo che mi scrutavano e l’innocenza e la speranza che lui rappresentava mi coinvolsero completamente, al pari di Danny.
Il dipendente del tribunale ci disse che il programma, che includeva uno studio della casa e lezioni su come essere genitori, avrebbe preso sino a nove mesi. Avevamo tutto il tempo per riarrangiare le nostre vite e la nostra abitazione affinché accogliessero un bambino. Ma una settimana più tardi, quando Danny apparve di fronte alla giudice per attestare ufficialmente la nostra intenzione di adottarlo, lei chiese: “Vorreste tenerlo con voi per le feste?” Che feste? Il Giorno della Memoria? Quello del Lavoro? Di sicuro non intendeva Natale, a cui mancavano pochi giorni. E di nuovo, questa volta all’unisono, dicemmo di sì. La giudice sogghignò ed ordinò il trasferimento del piccolo alla nostra custodia. I nove mesi di ponderata transizione si compattarono all’istante in mere 36 ore. Avremmo avuto un bimbo per Natale.
Passammo quell’anno come genitori affidatari mentre il dipendente del tribunale monitorava noi e il benessere del bambino. Durante quel periodo, spesso pensavamo alla giudice. Sapendo che Danny era un assistente sociale aveva pensato che sarebbe stato perciò un buon genitore? Gli avrebbe chiesto di adottare il bambino se avesse saputo che era gay e che aveva una relazione di coppia? All’udienza finale, dopo che la giudice aveva firmato l’atto ufficiale di adozione, io alzai la mano: “Vostro onore, come mai avete chiesto a Danny se era interessato all’adozione?” “Ho avuto un’intuizione.”, rispose lei, “Mi sbagliavo?” E con questo si alzò dalla sedia, ci fece le sue congratulazioni e uscì dall’aula. Così lasciammo l’aula anche noi, “Piccolo Asso” divenne Kevin, e crebbe da infante a ragazzino. E poi, nel 2011, lo stato di New York permise a Danny e a me di sposarci legalmente.
“Perché non chiedi alla giudice che ha seguito la mia adozione di sposare te e papà?”, mi suggerì una mattina Kevin mentre lo accompagnavo a scuola.
“Grande idea.”, replicai io, “Ti farebbe piacere incontrarla?”
“Certo. Pensi che si ricordi di me?”
“C’è un solo modo di scoprirlo.”
Dopo aver lasciato Kevin a scuola, composi una lettera inquisitiva e la mandai all’indirizzo e-mail per le segnalazioni del tribunale familiare di Manhattan. Nel giro di poche ore, un avvocato del tribunale chiamò per dire che la giudice ci ricordava benissimo e sarebbe stata felice di celebrare il nostro matrimonio. Tutto quel che dovevamo fare era scegliere giorno e ora. Quando ci avventurammo di nuovo nell’aula di tribunale, per la prima volta dopo oltre dieci anni, immaginavo che la giudice potesse essere nervosa all’idea di fronteggiare i risultati delle sue decisioni: e se Kevin non fosse stato felice? Se avesse desiderato genitori diversi? Anche Kevin era nervoso.
Quando era piccolo, Danny ed io avevamo composto per lui un libro illustrato che spiegava come eravamo diventati una famiglia, e il libro includeva un’immagine della giudice, con tanto di mazzuolo in mano. Un personaggio del suo libro stava per saltar fuori dalle pagine e diventare una persona reale. E se a lei non fosse piaciuto come lui era cresciuto?
Kevin si fece avanti per stringerle la mano. “Posso abbracciarti?”, chiese lei. Quando si sciolsero dall’abbraccio, la giudice chiese a Kevin della scuola, dei suoi interessi, hobby e amici, ed espresse il suo piacere di averci là. Quando finalmente ci ricordammo lo scopo della visita, e Danny ed io ci muovemmo nella posizione giusta per scambiare i nostri voti, riflettei sulle improbabili circostanze che ci avevano condotti tutti a quel momento.
Non avremmo dovuto essere là, due uomini, con un figlio che non ci saremmo mai sognati di avere al nostro fianco, ad essere sposati da una donna che ha cambiato ed arricchito le nostre vite più di quanto saprà mai. Ma là eravamo, grazie ad un ritrovamento voluto dal destino e ad una intuizione giudiziaria.
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