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Posts Tagged ‘25 novembre’

Ma sì, facciamone a meno. Del 25 novembre e dell’8 marzo, intendo. Sono “vuote ricorrenze” che per ben due giorni l’anno tolgono attenzione agli uomini e li costringono a sparare stronzate immani online e offline pur di restare saldamente sul palcoscenico. Si va dai consueti “non è vero niente”, “e allora la Pas?” (e le foibe, e il PD?), “ma quando è la festa dell’uomo” all’esilarante “le donne ora stanno benone ed è tutto merito mio”.

Salvini (testo integrale): “Grazie al CodiceRosso voluto dalla Lega e approvato dal Parlamento, adesso ogni denuncia di violenza o minaccia deve essere esaminata dalla giustizia entro tre giorni: tanto dolore evitato, tante vite salvate. Un abbraccio Amiche.”

Be’, che sollievo! Invece di chiederti com’eri vestita, perché eri là a quell’ora, se avevi bevuto e quanto e in genere cosa hai fatto per provocare la violenza dopo tre mesi, te lo chiedono dopo tre giorni. Problema risolto, infatti i fan di Salvini rispondono al messaggio così (testo integrale):

“Peccato molte donne meritano di prenderle!

Perché non vi è animale più arrogante prepotente offensiva di una donna.

Si credono intelligenti solo loro e ignoranti gli altri, pensano sempre di aver ragione soprattutto quando hanno torto.

Le donne sono capaci solo di insultare e provocare…

Hanno la parità dei diritti e non hanno rispetto dell’uomo!

Molte di queste cagne meritano di soffrire.”

E i suoi compari di partito rispondono così:

“Violenza sulle donne, bufera sul consigliere leghista di Casalecchio: Il 90% delle denunce è falso

Secondo costui, il cui nome è Umberto La Morgia e la cui impresa eroica più recente è stata il presentarsi vestito da pinguino a una manifestazione delle “sardine” a Bologna, la violenza sulle donne è “un’esagerazione della cultura dominante femminista” e dovremmo invece occuparci “della violenza delle donne sugli uomini, purtroppo ancora poco riconosciuta, poco condannata e poco dibattuta. Violenza non solo fisica, ma che si manifesta anche attraverso l’alienazione parentale (la distruzione del rapporto padre-figlio da parte della madre) e le migliaia di false denunce che le donne usano per avvantaggiarsi sull’uomo in sede di separazione civile, il quale spesso viene ridotto al lastrico.”

Lo scenario è talmente fantasy che il suo segretario locale di partito è costretto a dissociarsi e a smentirlo: La Morgia “parla evidentemente a titolo personale”, però grazie a queste personali “opinioni” come consigliere vota contro un progetto per interventi di accoglienza, ascolto ed ospitalità per donne maltrattate o che hanno subito violenza – segno che il titolo personale non è scindibile dal titolo politico. Ma poiché l’importante è occupare comunque il palcoscenico, il segretario Gianluca Vinci coglie l’occasione per ricordarci che “Le sue parole, inopportune, non cancellano però la verità dei fatti: la Lega al governo ha dimostrato concretezza nella lotta alla violenza contro le donne, tanto da aver portato in aula il Codice Rosso, che oggi è legge.”

E che non ha cambiato di una virgola l’attitudine abominevole degli uomini del suo partito e degli uomini violenti in genere verso le donne, compreso il tronfio Salvini e la sua bambola gonfiabile “somigliante alla Boldrini”, le sue cubiste al Papeete e la sua preferenza per le scollature femminili.

Ovviamente, una legge da sola non potrebbe comunque produrre il mutamento radicale necessario a mettere in soffitta la violenza di genere, generata com’è tale violenza da secoli di patriarcato, sessismo e misoginia, ma svolge egregiamente il suo ruolo di fanfara per politici opportunisti, arroganti e cialtroni. Lo dico a titolo personale e quindi politico, sia chiaro.

Maria G. Di Rienzo

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In prossimità della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne – 25 novembre – i quotidiani italiani commentano i dati forniti dalla polizia. I titoli sono più o meno di questo tipo: “Violenza sulle donne, una vittima ogni 15 minuti, 88 al giorno”, gli occhielli spiegano che “Vittime e carnefici sono italiani nell’80 per cento dei casi” (Salvini non ha commentato), negli incipit è assai frequente il termine “dati agghiaccianti” (ma in realtà, come vedremo, non si agghiaccia nessuno) e le illustrazioni sono le solite (schifezze): modella incastrata in un angolo in posizione fetale e in primo piano braccio di un uomo con la mano stretta a pugno; modella che alza un braccio con la mano aperta e distoglie il volto, ecc.

Il rapporto della polizia di stato fotografa una situazione che appare insuscettibile di mutamento: “Senza distinzione di latitudine, l’aumento di vittime di reato di sesso femminile è lo stesso in Piemonte come in Sicilia.”, di queste “Il 36% subisce maltrattamenti, il 27% stalking, il 9% violenza sessuale e il 16% percosse.”, “L′82% delle volte chi fa violenza su una donna non deve introdursi con violenza nell’abitazione, ha le chiavi di casa o lei gli si apre la porta: è infatti quasi sempre il compagno o un conoscente.”, “Il femminicidio è rimasto praticamente stabile ma è un dato che preoccupa a fronte del fatto che, nello stesso periodo, gli omicidi con vittime di sesso maschile sono diminuiti del 50 per cento.”

“Unico dato consolante del report – spiegano gli articoli – è la maggiore coscienza dei delitti subiti, una rinnovata propensione e fiducia nel denunciare: è aumentato, insomma, il numero di vittime che considerano gli atti violenti subiti un reato.” E questi stessi articoli sono circondati, ovviamente e purtroppo, da altri pezzi con titoli del tipo: “Stupra la moglie con gli amici prima della separazione. Arrestato 40enne nel lecchese – L’uomo è accusato anche di lesioni nei confronti del figlio minorenne” o “Torino, perseguita la ex: stalker arrestato due volte in 4 mesi – L’uomo è finito in manette perché, 10 giorni dopo la scarcerazione, è tornato a perseguitare la ex moglie”.

Le vittime hanno più consapevolezza di star subendo un torto, quindi, ma ai perpetratori non è arrivato un milligrammo di coscienza in più: perché a loro la società nel suo complesso non sta inviando messaggi diversi dal solito, solito sintetizzabile in “le donne sono tutte troie, false e vittimiste, provocano la violenza e poi denunciano per incastrare gli uomini e spillare loro soldi”.

In cronaca, attualmente, c’è anche questo:

“La Corte di Isleworth ha deciso: sette anni e mezzo di carcere per Nando Orlando, 25 anni, napoletano, e Lorenzo Costanzo, il suo amico bolognese di 26 anni, accusati di aver abusato di una ragazza australiana, in una stanzetta all’interno di una discoteca londinese, nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 2017”.

https://lunanuvola.wordpress.com/2019/10/17/cosa-ci-vuole/

La giovane donna in questione, reitero per chi non ha voglia di andare al link, ha dovuto essere operata per le lesioni subite durante… un frizzante rapporto occasionale e del tutto consensuale con due aitanti sconosciuti:

“Nando e Lorenzo non si erano accorti che quella ragazza era ubriaca, li aveva provocati mentre ballava, segnale chiaro – secondo l’avvocato Maurizio Capozzo – che ci stava.”

Non occorre che una donna dica, basta che segnali. Questo è il “consenso secondo Capozzo et al.”: l’interpretazione delle segnalazioni è demandata ai maschi di turno ed è pertanto incontestabile.

Ma non basta. Per Nando Orlando, nella natia Napoli, è subito partita “la mobilitazione tra gli amici” che “hanno organizzato una vera e propria catena di solidarietà” inviando a centinaia di persone messaggi su Whatsapp con la richiesta di inviare mail ai giudici inglesi.

“Sarai sicuramente a conoscenza dell’ingiustizia della quale è rimasto vittima, – scrivono gli amici – di conseguenza ti vorrei chiedere di scrivere una mail per spiegare come lo conosci, che tipo di persona è, e soprattutto che non fa uso di droga o abuso di alcol.” Altri suggerimenti includono il descrivere “il suo comportamento (da gentiluomo) nei locali notturni” e il sottolineare “l’impatto negativo” del carcere sul futuro di questo irreprensibile giovanotto “che ha sempre studiato”.

A me gli amici di Nando “agghiacciano” più delle percentuali del rapporto citato all’inizio. Il pensiero della sofferenza della ragazza non li sfiora neppure. Come la vicenda avrà impatto sul futuro di lei è per loro irrilevante. L’essere stata stuprata diventa un’ingiustizia subita dai suoi stupratori. La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza. (1984, George Orwell)

Voi capite, vero, perché a breve quei dati – una vittima ogni 15 minuti, 88 al giorno – non cambieranno?

Maria G. Di Rienzo

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Nel 1999 le Nazioni Unite stabilirono il Giorno internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, fissandolo al 25 novembre e commemorando così l’omicidio delle tre Sorelle Mirabal, dominicane oppositrici della dittatura di Rafael Trujillo assassinate appunto il 25 novembre 1960.

Perché questa giornata internazionale? – spiegano ancora in questi giorni sul sito dell’Agenzia Donne delle NU – Perché:

La violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani.

La violenza contro le donne è una conseguenza della discriminazione operata contro le donne, nella legge e in pratica, e del persistere delle diseguaglianze fra uomini e donne.

La violenza contro le donne ha un impatto sul progresso e impedisce il progresso in molte aree, incluse lo sradicamento della povertà, la lotta contro l’HIV/AIDS, la pace e la sicurezza.

La violenza contro donne e bambine non è inevitabile. La prevenzione è possibile ed essenziale.

La violenza contro le donne continua a essere una pandemia globale.”

Notando che uno dei maggiori ostacoli al lavoro in merito è la mancanza di finanziamenti, e ammettendo che per questa ragione molte delle grandi promesse fatte delle Nazioni Unite (compresa quella di metter fine alla violenza contro donne e bambine contenuta negli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile) non riescono a tradursi in cambiamenti significativi, invitano l’attivismo dei 16 giorni contro la violenza di genere – 25 novembre / 10 dicembre – a raccogliere fondi e realizzare iniziative tramite la Campagna “Colora il mondo di arancione”.

16-days-banner

Potete saperne di più qui:

http://www.unwomen.org/en/what-we-do/ending-violence-against-women/take-action/16-days-of-activism

Sempre il 25 novembre, nel 1916, moriva di anemia perniciosa a soli trent’anni Inez Milholland.

Crollò perdendo i sensi mentre teneva un discorso per il “Partito nazionale della Donna” a Los Angeles, in California. Le ultime parole che pronunciò davanti al suo pubblico furono: “Signor Presidente, quanto a lungo devono aspettare le donne per avere la libertà?”

Una vita breve ma luminosa come una stella, giacché Inez fu una delle più famose suffragiste statunitensi, avvocata del lavoro, sindacalista, attivista pacifista che si spinse a testimoniare direttamente la guerra quale corrispondente e lottò per la riforma carceraria e l’eguaglianza degli afroamericani.

Nell’immagine qui sotto la vedete tre anni prima, il 3 marzo 1913, in procinto di aprire a cavallo la grande manifestazione per il voto alle donne nota come “Woman Suffrage Parade” in quel di Washington, DC.

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Qualsiasi cosa facciate in questi giorni contro la violenza diretta a donne e bambine, per la loro effettiva eguaglianza, per il rispetto a loro dovuto, per amore di tutta l’umanità che le comprende, so che Inez cavalcherà fiera al vostro fianco… e se vi guarderete alle spalle, vedrete dietro di lei una fila interminabile di donne di ogni nazione, le sorelle e le madri che vi hanno preceduto in questa lotta e che continuano a sostenervi. Maria G. Di Rienzo

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(i brani sono tratti da: “Violence against women is a barrier to the effective exercise of all human rights”, di Rashida Manjoo, Special Rapporteur delle Nazioni Unite sulla violenza contro donne e bambine, 10 novembre 2014, trad. Maria G. Di Rienzo.)

La violenza contro donne e bambine è una violazione pervasiva e diffusa di cui fanno esperienza le donne in tutto il mondo. Ha raggiunto proporzioni epidemiche in alcune zone e nessun paese sta avendo successo nell’eliminare questa violazione dei diritti umani. Un recente rapporto dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità indica la violenza contro le donne come la causa principale di morte e disabilità per le donne stesse.

Persiste una cultura dell’impunità che contribuisce all’impossibilità di raggiungere lo scopo di una vita priva di violenza per donne e bambine.

red shoes

Un cambiamento trasformativo richiede uno spostamento nel modo in cui si pensa alla “norma” e richiede impegno, coraggio ed un’etica della cura che superi gli interessi di parte e le posizioni trincerate, e richiede anche una sfida allo status quo, inclusa la sfida a quegli stessi argomenti che furono usati vent’anni fa per evitare di affrontare il divario normativo nel diritto internazionale sulla violenza contro le donne.

(A questo servono le “vuote ricorrenze”, gli “inutili giorni di questo e quello”, “la solita solfa sulle donne”, o signori disturbati dal 25 novembre: a ricordarvi che le cose come sono non sono le cose come dovrebbero essere. Maria G. Di Rienzo.)

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abalone conchiglia

L’aliotide, o orecchia di mare, è un mollusco con conchiglia (appunto a forma di orecchia) il cui strato madreperlaceo mostra una viva, bellissima, iridescenza. E’ comune lungo le spiagge dei mari caldi europei ed una sua specie (Haliotis tuberculata) si trova facilmente in Italia.

La storia che voglio raccontarvi al proposito, però, è preservata nelle tradizioni di diverse nazioni indigene americane con insediamenti costieri. Riguarda la Donna-Aliotide, o Donna-Conchiglia – Hiwat/Hiwot a seconda delle lingue – e la condivido con voi perché le attiviste antiviolenza indigene la condividono con altre donne in special modo in prossimità del 25 novembre, Giorno internazionale contro la violenza sulle donne.

“La Donna-Conchiglia viveva sulla costa dell’oceano. Stando seduta sulla spiaggia, rifletteva i suoi splendidi colori nel cielo. Anziani e anziane dicevano alla Donna-Conchiglia: “I tuoi colori meravigliosi sono un dono speciale, che dev’essere trattato con onore e cura amorevole.”

Un uomo del Nord vide i riflessi della Donna-Conchiglia nel cielo e disse: “Devo trovarla, devo trovare la donna che rende il cielo così bello.”

L’uomo viaggiò, percorse grandi distanze ed infine la raggiunse. Era là, sulla spiaggia, raggiante dei colori con cui faceva splendere la volta celeste. L’uomo si presentò, sedette con lei e le parlò e passò il tempo con lei. Dopo un po’ i due si innamorarono.

All’inizio, l’uomo del Nord era molto gentile con la Donna-Conchiglia e lei ricordava ciò che le era stato detto dalle persone anziane, come i suoi colori dovessero essere trattati con rispetto e affetto, e continuava a rifletterli nel cielo con ancora più gioia, perché l’uomo del Nord poteva vederli e goderne.

abalone woman

Ma con il passar del tempo, l’uomo cominciò a trattare malamente la Donna-Conchiglia. Tentando di renderlo felice, lei lavorava sui suoi colori per farli ancora più brillanti, e ancora di più, e ancora di più. L’uomo non cambiò il suo atteggiamento per questo: divenne invece sempre più folle e crudele verso di lei. E un giorno, su quella stessa spiaggia dove il loro amore era iniziato, la ferì gravemente.

La ferì in un modo che nessuna mano umana avrebbe potuto guarire. La ferì per sempre. Nel suo terribile dolore, la Donna-Conchiglia guardò il profondo cielo blu e cominciò a piangere. Come rivi che corrono all’oceano, le lacrime della Donna-Conchiglia scorrevano sul suo viso e cadevano in acqua. E l’acqua cominciò a brillare dei suoi magnifici colori! Ogni lacrima, nel mare, diventava una conchiglia iridescente.

spilla conchiglia

E la Donna-Conchiglia stessa si divise in mille conchiglie splendenti, mutando forma ma non perdendo affatto il suo dono speciale. La conchiglia ci ricorda che le donne hanno la capacità di splendere. Questa capacità dev’essere trattata con onore e cura amorevole dalle donne e dagli uomini. E affinché l’amore fra loro non sia vano, donne e uomini devono trattarsi reciprocamente con onore e cura amorevole.” Maria G. Di Rienzo

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Parte della ragione per avere un movimento femminista anziché l’impresa femminista solitaria è che non si tratta della spinta di una persona per ottenere successo, gloria e potere. Si tratta di tutte noi che lottiamo insieme. E sapete cosa significa? Significa che quando una di noi cade, quando una di noi ha bisogno di una pausa, quando una di noi ha condotto una battaglia ed è sotto attacco, il resto di noi si fa avanti e la sostituisce. Abbiamo persino una parola per questo. Si chiama sorellanza.” Caroline Criado-Perez (17 ottobre 2013 – tanto per rinfrescare la memoria.)astronave

Certo che è strano. Credevo di essere piuttosto in minoranza come scrittrice di fantascienza. Invece salta fuori che praticamente ogni quotidiano del mainstream italiano ne ha in forze una o ne ospita una. Trattasi di donna iconoclasta, eretica, “fuori dal coro”, trasgressiva, che denuncia… il declino in autonomia e deontologia professionale del giornalismo? No. La corruzione diffusa in politica/economia? Neppure. L’abbandono di ogni tutela del lavoro? Ma figuriamoci. I livelli stratosferici di violenza contro le donne? Ah, be’. Bisogna distinguere.

Assai più coraggiosamente, queste figure denunciano in modo reiterato l’insopportabile e soffocante moralismo che pervade la società italiana e di cui tutte/i avrete sicuramente fatto esperienza: è assai comune, ad esempio, avere agenti della buoncostume che frugano negli scomparti dell’armadio alla ricerca di biancheria intima non regolamentare, e la pubblicità sembra ossessionata da immagini di scafandri, sacchi informi e vergini di Norimberga in cui rinchiudere i corpi umani… Non si vede più neppure un gomito scoperto. La colpa? Delle femministe. O meglio, delle femministe bacchettone, retrograde, sbagliate, odiatrici di uomini, disinformate, ostili, liberticide, frigide, confuse, che hanno invaso ogni sede decisionale ad ogni possibile livello, imposto all’Italia la loro bigotta visione del mondo ed attrezzato una spietata magistratura che vuole impedire alle minorenni di divertirsi e perseguita un noto miliardario pregiudicato. Difatti, sui media a tiratura e diffusione nazionale, il 99% degli interventi di donne su femminismo, libertà femminile, violenza di genere, prostituzione… è di competenza delle iconoclaste e trasgressive, nonché a volte femministe “vere” o “giuste” o “intellettualmente superiori”, che denunciano questo orrendo stato di polizia.

Ripeto, è strano. Non mi tornano i conti. Perché, se il nostro paese è regolato da una narrativa biecamente moralista e dittatoriale, lo spazio di parola appartiene pressocché in toto alla, diciamo, controparte? Perché sugli stessi giornali non leggo mai un solo intervento, lettera, articolo o ultimatum delle dominatrici moraliste? A meno di star parlando di uno scenario fantascientifico: allora è a posto, se ciò di cui faccio esperienza non risponde nemmeno per una virgola a ciò che le alfiere della libertà raccontano è perché stanno descrivendo un mondo alternativo, e non quello in cui vivo io. Sapete, ci sono però in giro menti più suggestionabili della mia: non sarebbe male se dopo aver scritto del pianeta-che-vi-siete-sognate-stanotte aggiungeste la nota a piè di pagina che dice “Questo accade a Phurbonax, pianeta orbitante nel sistema di Upsilon Andromedae – Nebulosa di Andromeda”. In questi giorni dovreste farlo, a parer mio, per almeno tre motivi.

1) Perché in Italia i bambini NON stanno imparando a scuola che “ogni corpo nudo conduce alla violenza” e i corpi nudi delle intrattenitrici e delle pubblicità non sono proprio classificabili come “ogni”: sono un mix (assai minoritario) di chirurgia plastica e photoshop e rispondono a criteri molto precisi di “estetica” – cioè di soddisfazione dello sguardo maschile. Una mia amica, questa sì davvero un po’ iconoclasta, dice ad esempio che è facilissimo ottenere il peso delle modelle, basta fare una dieta di sperma e crack.

2) Perché se qualcuna/o oggi 25 novembre – Giorno internazionale contro la violenza sulle donne – decide di vestirsi di rosso o di mettere un panno rosso alla finestra, NON sta inneggiando alla “vittimizzazione” o degradando un colore che un tempo era il simbolo della lotta blah blah. Sta manifestando il suo impegno contro la violenza e il suo dissenso sulla violenza in un modo che può non piacervi, e che nessuno vi obbliga ad imitare, ma chi sta facendo retorica sulle vittime siete voi: perché usate il termine come un tratto della personalità invece che nella sua corretta definizione di “persona che fa/ha fatto esperienza di violenza nei propri confronti”. Il pensiero neo-liberista, se avete notato, le “vittime” le odia: parlare di vulnerabilità immediatamente punta nella direzione di una società ingiusta, per cui meglio fare un tabù del parlare di vittime: se non ci sono vittime, non ci sono offensori. Una visione un po’ stronza, a parer mio che sono un’illetterata retrograda ecc. ecc., ma se preferite, diciamo… cinica e fredda e falsa e interessata e autoritaria? Non si accoppia bene comunque all’eresia trasgressiva fuori dal coro ecc. ecc., purtroppo. A meno che non sia sommamente innovativo e rivoluzionario dire a chi si è presa le botte o ha subito lo stupro: “E non ti vittimizzare, perdinci, su con la vita!”, e quando finisce in una cassa di mogano ripetere scuotendo il capino: “Eh, poveraccia, era una debole, faceva la vittima, non può che biasimare se stessa, glielo avevo detto di star su con la vita…”

rossa

3) Perché il fatto che, sempre oggi in occasione del 25 novembre, alcune donne abbiano definito la loro azione “sciopero” non giustifica la tonnellata di accorati e indispettiti distinguo sul termine. Infatti NON è vero che per avere uno sciopero sia necessario identificare “il datore di lavoro”, essere maestranze e che l’azione sia sempre diretta contro la direzione dell’azienda: i lavoratori e le lavoratrici, storicamente, hanno scioperato e scioperano contro manovre economiche governative, contro la guerra, per rovesciare regimi, in solidarietà con altre categorie (studenti, prigionieri e perseguitati politici). E gruppi e singoli/e hanno attraversato e attraversano scioperi per qualsiasi causa – dalle condizioni di detenzione alla costruzione di dighe – e in una notevole varietà di sistemi: scioperi della fame, scioperi dell’uso di mezzi di trasporto pubblici, scioperi dei consumi. Siete sicuramente abbastanza istruite (dopotutto gestite autorevoli rubriche su quotidiani) perché non vi sia necessario ricevere queste informazioni da me: se ne deduce che il vostro disagio deve originarsi altrove. Ditelo apertamente, magari una soluzione diversa dal noioso deprecare ad libitum un “moralismo” inesistente si trova. Maria G. Di Rienzo

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(e noi abbiamo molte mani per smantellarla!)

albero mani

Mancano tre giorni al 25 novembre, Giorno Internazionale contro la violenza sulle donne. Ci sono numerose iniziative in programma ovunque, ideate con mezzi e in spazi diversi per utilizzare questo “pegno di memoria” al meglio, e sicuramente c’è qualcosa vicino a voi a cui potete unirvi se lo desiderate. Le cifre della violenza di genere, in Italia e nel mondo, sono allucinanti quanto facilmente reperibili; quest’anno non mi darò la pena di scriverle, e dico pena con cognizione di causa, perché dietro ogni singolo numero che compone le cifre ci sono esseri umani: donne, ragazze, bambine, neonate – segnate da cicatrici fisiche e psichiche, o morte, e dietro ognuno di questi esseri umani ce ne sono altri, femmine e maschi, colpiti dall’onda lunga della violenza subita da qualcuna che amavano.

La violenza contro le donne può prendere molte forme. Le più eclatanti sono facilmente riconoscibili. Picchiare, uccidere, stuprare, mutilare, affamare, ecc. sono atti che non abbiamo grosse difficoltà a definire giustamente come violenti, anche quando cerchiamo scuse per chi li commette. Altre forme sembrano più nebulose: per la negazione di diritti, l’impedimento all’accesso delle risorse e il restringimento delle libertà personali le giustificazioni abbondano, spesso fornite dalla triade religione-tradizione-cultura che in Italia è una divinità bipartisan adorata da sinistra a destra seppure in maniere differenti. Ma ancora, almeno nel quadro dell’universalità e della non-negoziabilità dei diritti umani, la violenza di queste azioni è visibile. Quello che troppo spesso non vogliamo vedere è il loro fondamento.

Chiedo scusa a chi mi ha già sentito dire quello che dirò tra poco cento o mille volte; purtroppo non posso smettere, giacché il contesto non sta cambiando. Quindi: l’oggettificazione delle donne è il primo irrinunciabile passo che porta ad ogni tipo di violenza di genere. E’ un dato di fatto. Per qualsiasi tipo di violenza è necessaria la “riduzione” della vittima ad un suo segmento connotato negativamente (sia la sua religione o la sua squadra di calcio o il fatto che non ci paga un debito o ci ha offesi o ci rifiuta qualcosa); la “visione tunnel” che ne scaturisce, riducendo un complesso essere umano a un punto d’odio ideologico, permette di agire nei suoi confronti in modi disumani. Non è più una persona, è un maledetto scarafaggio, fa parte dei bastardi, ecc.

Quando parlo di oggettificazione non mi riferisco solo alle immagini sessualizzate che rigurgitano da quotidiani e riviste, programmi televisivi e film, annunci pubblicitari e internet. L’aspetto sessuale dell’oggettificazione è enorme, ma non è l’unico. In una miriade di altre situazioni che incontriamo quotidianamente, e che rispondono ad una narrativa dominante, le donne sono accessori, presenze mute, “cose” su cui si agisce. Il messaggio comincia diritto dalla culla. Nei libri per bambini i personaggi maschili sommergono per numero quelli femminili, che hanno più spesso il ruolo di “aiutante” dell’eroe o di “premio” per l’eroe. Negli show televisivi, sempre per bambini, le protagoniste ammontano ad un terzo e sono per lo più collocate secondo il “principio Puffetta”: un solo personaggio di sesso femminile in mezzo ad un intero cast di personaggi maschili. Vedete, questi ultimi si differenziano: il burbero, il capo, il grande guerriero, il pasticcione… Ma se sei femmina ti deve bastare, è già una caratteristica no? Ecco, in più sarai “bella”, accontentati.

Se cresci a pietanze maschili, e il massimo spazio per il femminile è quello del piatto decorato e sempre uguale su cui le diverse pietanze si posano, succede che la maggioranza dei film raccontano le storie di uomini e ragazzi, e le donne sono nella storia come le fidanzate di, le mogli di, le madri di, o in ruoli periferici. In un anno, di media, circa il 12% dei grandi film di Hollywood sono centrati su storie di donne e ragazze. (I dati li traggo da istituti di ricerca come quello di Geena Davis e da vari studi universitari.) E’ vero che c’è il cinema indipendente, è vero che ci sono media alternativi: ma la diffusione dei loro prodotti raggiunge un’esigua porzione di pubblico per un’altrettanta esigua porzione di tempo, e se lo quantifichiamo in modo simbolico come “un’ora”, nelle altre 23 ci sorbiamo la minestra sopra descritta. Fa differenza, mi spiace.

E non sono solo i media. Nelle conversazioni quotidiane i nomi e i pronomi maschili dominano il nostro discorrere e le nostre idee. L’umanità è fatta da uomini, letteralmente. Siamo nel 2013 e dire “l’avvocata” o “la vigile” o “la ministra” fa ancora venire brividi di ripulsa a tanti fini pensatori e qualche fine pensatrice. Cancellare le donne come soggetti invece va bene, perché l’effetto cumulativo di tutto questo è che socializziamo generazione dopo generazione ad una visione del mondo in cui le donne ci sono, ma solo dal punto di vista degli uomini, solo per come gli uomini le guardano, solo per come gli uomini decidono di usarle.

E’ perché la società ci presenta le donne come oggetti che in ogni caso di violenza maschile tutti guardano subito alla vicenda dal punto di vista dell’offensore: “Dev’essere stato provocato.”, “Ci si chiede come un padre e marito esemplare…”, “Uno stimato professionista forse accusato ingiustamente.”, “Aveva problemi, era depresso, era disoccupato, era geloso, non voleva che la loro storia finisse…” Con ogni commento di questo tipo, che getta il biasimo sulla vittima, la società rivela con quali occhi sta guardando il fatto: invariabilmente, con quelli dell’uomo.

E’ perché la società ci presenta le donne come oggetti che persino uomini decenti, quando parlano contro la violenza di genere, dicono ad altri uomini di immaginare la vittima come “moglie, madre, figlia e sorella” di qualcuno (un soggetto), e non passa loro per la testa che forse la donna “qualcuno” (soggetto) lo è già. Una volta che si guardi a quanto in profondità è radicata l’oggettificazione delle donne c’è d’aver paura.

Noi donne non cresciamo all’esterno di questa cultura ed anche quando prendiamo coscienza della sua abissale falsità e della sua terribile ingiustizia, non ne siamo immuni. E’ per questo che continuiamo a girare intorno a inutili dibattiti sulle “scelte” che le donne fanno, soprattutto in materia di commercializzazione dei loro corpi. Sempre, anche dentro ad una gabbia con seicento lucchetti, si fanno scelte. Non sei mai schiava del tutto, neppure quando hai la catena alla caviglia. Perciò, sì, le donne fanno scelte individuali e cercano di essere le disegnatrici delle proprie esistenze, ma quelle scelte le fanno all’interno di un sistema sociale. Detto sistema regola premi e castighi, pro e contro, strade per il successo e strade per lo strapiombo. Nessun ammontare di argomentazioni sulle scelte cambia questa realtà. Per cui, una può di propria volontà commercializzare il proprio corpo, ad esempio vendendo sesso o cercando di diventare Lady Gaga, semplicemente perché è quel tipo di cosa che la società premia con soldi e fama: questa non è libertà, è strategia. O, in sociologia, è “il compromesso patriarcale”. In genere, consiste nel manipolare il sistema massimizzando il proprio profitto senza che il sistema stesso venga messo in discussione.

Tutte e tutti facciamo di questi compromessi, piccoli o grandi, per sopravvivere e la moralità c’entra come il cavolo a merenda, per cui scordatevela. E capiamoci: una donna che si oggettifica di propria volontà sta facendo una scelta? Sì. Quella scelta può essere onestamente descritta come un avanzamento per le donne, come una scossa al sistema, come mezzo per uscire dalla violenza, come cambiamento dello status quo? No. Il dominio funziona così, assorbe e trasforma scelte a proprio vantaggio, per continuare ad esistere. Accettare le sue regole si traduce in guadagni individuali, ma non rende proprio il mondo un posto migliore per viverci tutti, donne ed uomini. Il “successo” di una escort o di una velina è l’affermazione chiara e semplice che il valore di una donna è relativo alla sua volontà di far merce della propria sessualità e del proprio corpo. E quest’attitudine, fosse rivolta ad una qualsiasi altra categoria di persone, sarebbe vista com’è: violenza. Maria G. Di Rienzo

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25 novembre, “Giornata mondiale contro la violenza sulle donne”. Se fate tale ricerca sul web in questi giorni troverete un bel mucchio di articoli e riflessioni su violenza domestica, femminicidio, stupro. Probabilmente vi aspettate che anch’io scriva di questi temi in occasione del 25 novembre, ma la verità è che lo faccio già per circa 200/250 giorni l’anno – i restanti sono dedicati alle altre cose che mi interessano in questo mondo, e vi assicuro che sono tante. Per cui, vorrei invece cogliere l’occasione per parlare di un’altra forma di violenza contro le donne, quella che in nome del loro “benessere” o del loro “successo” comincia a farle oggetto di bullismo da quando frequentano le scuole elementari: e ormai ci sono abbastanza casi per dire che si sta scivolando verso il “da quando indossano il grembiulino dell’asilo”. Mia nipote, uno scricciolo che oggi ha 10 anni, lo frequentava ancora quando una sua amichetta le disse che mangiare la tal caramella l’avrebbe fatta ingrassare. La mamma aveva istruito questa bimba per tempo su cosa ci si aspetta da una femmina, e cioè l’adesione acritica e ansiogena al modello in voga, e se interrogata al proposito poteva (e può) trincerarsi dietro il baluardo della “salute”. E’ sano per una bambina preoccuparsi delle calorie contenute in una caramella alla matura età di anni cinque, senza dubbio. Purtroppo, anche se al ventre in costante tensione della signora corrisponde una testa farcita di input pseudoscientifici provenienti dagli “studi americani che provano”, e di angoscia e disprezzo rispetto al proprio corpo, la signora stessa si sbaglia. Potrei provarlo con una caterva di citazioni e di link a documenti e articoli, ma sono una conferenziera che non vuole annoiare il proprio pubblico. Per cui, farò un solo esempio.

“Look AHEAD”, scritto proprio così (significa “Guarda avanti”), è un esperimento scientifico durato 11 anni, a cui è stata messa fine nell’ottobre 2012 perché non è riuscito a provare quel che doveva. E cioè che perdere peso è a priori un beneficio per la salute. L’esperimento ha coinvolto 5.000 diabetici, metà dei quali hanno partecipato ad un programma con stretta sorveglianza che ha limitato i loro pasti a 1.200/1.800 calorie al giorno e li ha fatti esercitare per almeno tre ore a settimana. Il gruppo di controllo, l’altra metà, ha vissuto esistenze normali. E i risultati non presentano alcuna ambiguità: perdere peso non ha significato nulla in termini di riduzione di rischio per le malattie cardiovascolari e gli infarti. Inoltre, l’impegno intensivo di 11 anni a regime dietetico e fisico non ha prodotto, di media, che meno del 5% di perdita del peso complessivo. Francamente, non posso dire di averlo visto riportato dai media italiani, che pure strillano “una ricerca dagli Stati Uniti!” ogni qualvolta devono confermare un pregiudizio sessista, razziale, classista, eccetera. E’ probabile che non sia conveniente, in un momento in cui il Ministero per l’Istruzione e la Ricerca universitaria (non della Sanità) manda gli industriali dell’alimentazione nelle scuole a “combattere il sovrappeso”. Ma potrebbe tornare utile in un secondo momento, quando l’industria farmaceutica lo userà per dire: se lo stile di vita non ha funzionato, ecco qua la nostra nuova medicina dimagrante.

Perché siamo arrivati a questo scenario? Perché per controllare qualsiasi gruppo si voglia tenere in subordine, in questo caso le donne, non c’è niente di meglio che il produrre in loro l’interiorizzazione dell’inferiorità e della colpa. Come ci siamo arrivati? Così:

1. Convincete la popolazione che non essere magri è una malattia che va curata. Accoppiate a questo concetto quello che la vera bellezza in una donna è “pelle e ossa con grandi tette” e l’industria dei prodotti dietetici e i chirurghi plastici vi saranno immensamente grati, per non parlare dei creatori di moda che disegnano vestiti per il loro efebo ideale e fanno diventare le donne cadaveri ambulanti affinché riescano a indossarli. Televisione, giornali e cinema vi daranno entusiasticamente una mano. Tutto quello che può tenere le donne in stato di perpetua angoscia e disistima va di sicuro incoraggiato.

2. Premete perché le istituzioni implementino programmi di salute pubblica in accordo con le compagnie industriali, entrino nelle scuole e veicolino i concetti di cui sopra, spalmando sulla cancrena che in realtà essi sono una pesante verniciata di “scienza” (pseudo). Il principio all’opera, qui, è io do una mazzetta /un posto in Consiglio d’Amministrazione a te, tu dai un appalto pubblico a me.

3. Alzate, per così dire, il livello dello scontro: la malattia del non essere magri deve assumere proporzioni bibliche, da film horror, da catastrofe ambientale. Parlate di “epidemie” di obesità, della “piaga” del sovrappeso, fingete di essere assai interessati alla salute dei bambini, e non preoccupatevi se dite queste fregnacce mentre personalmente siete una taglia 56: l’importante è che siate un maschio. Per un uomo potente o ricco la ciccia sui fianchi fa solo “maniglie dell’amore”, e comunque la “bellezza” non è determinante in un uomo, ci mancherebbe, ma tanto per dare un altro aiutino ai nostri sponsor abbiamo bibite energomaschie e steroidi per i poveracci che ricchi e potenti non sono.

4. L’industria farmaceutica stappa a questo punto un’intera cassa di bottiglie di spumante, perché tutti i suoi nuovi inutili prodotti per dimagrire alzeranno alle stelle i dividendi degli azionisti e un simile lieto suono di cin cin viene dalle mafie che controllano lo spaccio di cocaina (vox populi dice che una bella bruciata di naso brucia un’altrettanto bella quantità di grasso).

5. Fate questo per un periodo abbastanza lungo di tempo, premiando le donne che hanno abbastanza soldi per la chirurgia plastica con l’apparizione in programmi televisivi e una manciata di seggi parlamentari. Sono serve mute e sono in trenta, ma non ha importanza, spacciatele come simboli che chiunque, se non è una schifosa cagna ingorda ed è disposta a darla via a comando come una cagna ben addestrata, può riuscirci… tanto, sempre una cagna resta.

6. Disumanizzate chi non si conforma al modello. Se dovete usare l’immagine di una donna grassa nascondete la sua testa e concentratevi sulle sue natiche o sulle sue cosce. Tanto, non sarà mica così svergognata da volersi far riconoscere, no? E se non è possibile, istruitela a mantenere gli occhi bassi e l’espressione afflitta. Dev’essere chiaro che è infelice, che si sente una cacca, che vorrebbe disperatamente essere magra, che è colpevole e schifosa. D’altronde, se la mostraste contenta e se qualcuno potesse guardarla negli occhi, c’è il rischio che la si consideri un essere umano.

Non so cosa stiate facendo o intendiate fare per il 25 novembre, ma fareste qualcosa per voi stesse oggi? Allora ripetete con me:

Il mio corpo non è malato.

Io non sono malata perché il mio corpo non corrisponde a degli standard altrui.

Il mio corpo non è qualcosa che deve essere “prevenuto” o “sradicato”.

Il mio corpo non è un marchio di vergogna o un indicatore di fallimento.

Nessuno, nessuna organizzazione, compagnia commerciale, istituto o individuo ha il diritto di dirmi che devo “disfarmi” del mio corpo.

La mia carne, grasso compreso, non è un parassita che dev’essere tolto da me, ne’ un virus contro cui si deve essere vaccinati, ne’ un contagio che dev’essere messo in quarantena per salvaguardare il resto della società: è il mio corpo.

Il mio corpo è me, ed io ho il diritto di vivere la mia vita senza essere insultata e soggetta a stigmatizzazione.

Il mio corpo è me, ed io non mi scuserò perché esisto.

Per finire, vi dirò che capisco bene perché le donne “larghe” (che spesso sono anche muscolose e forti) disturbano lo status quo con il solo atto di esistere. Non sta bene che una donna occupi tanto spazio, metaforicamente o fisicamente. Spazio e visibilità hanno a che fare strettamente con il potere (il potere di fare, di decidere, di avere signoria su di sé), e il potere è ancora, ovunque, una cittadella patriarcale con i suoi riti bellici, di volta in volta omicidi o ridicoli, e la sua fraseologia da postribolo. Se non riuscite ad amare il vostro corpo largo per nessun’altra ragione, fatelo per questa: è un corpo radicale, trasgressivo, rivoluzionario. Il solo rifiutare di odiarlo, come tutto intorno a voi vi suggerisce, è un atto politico. Maria G. Di Rienzo

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25 novembre 2011 – Giornata internazionale contro la violenza sulle donne

Gruppo Marija Gimbutas

Con il patrocinio dell’Assessorato alle Pari opportunità e alla Scuola della Città di Sasso Marconi

RESPIRARE VIOLENZA

L’immagine della donna trasmessa dai media e la sua influenza nell’educazione delle future donne e dei futuri uomini

Venerdì 25 novembre 2011, h. 20.00, Sala Consiglio del Comune (Piazza Martiri), Sasso Marconi

– Letture da Michela Marzano “Sii bella e stai zitta”, da Concita De Gregorio “Malamore”, da Maria G. Di Rienzo “Voci dalla rete” ed altri testi in tema. Proiezione di un breve video.

– Lettura da parte di ragazze e ragazzi della Scuole Media di Sasso di loro messaggi e presentazione di materiali prodotti nel corso del progetto, proposto dal Gruppo Gimbutas e sviluppato in collaborazione con le insegnanti di lettere.

– Interventi del pubblico e delle associazioni aderenti.

In collaborazione con la Scuola secondaria di primo grado “G. Galilei” di Sasso Marconi.

L’iniziativa fa parte del programma del Festival “La violenza illustrata”, VI a edizione, organizzato da Casa delle Donne per non subire violenza di Bologna

Danza tradizionale per la Luna

LUNA E L’ALTRA TEATRO in LUNA DI MELE

Di e con Adriana Giacchetti e Francesca Varsori

VENERDI’ 25 NOVEMBRE 2011 – ore 20.30

Palazzo Muratori – Romano di Lombardia (BG)

a cura del gruppo SCONFINATE

MARTEDì 29 NOVEMBRE 2011 – ore 20.30

Teatrino Franco e Franca Basaglia

Parco di San Giovanni – Trieste

promosso da Provincia di Trieste e Casa internazionale delle Donne

Ingresso libero

CRISTINA TRIVULZIO DI BELGIOJOSO – Una donna d’ Italia

Di e con Eleonora Dall’Ovo – Associazione Culturale Tramanti

Venerdì 25  novembre 2011  ore 18.00

Negozio Civico ChiAmaMilano Largo Corsia dei Servi – Milano

INGRESSO GRATUITO

Una lettura teatrale per ricordare Principessa Libertà, la donna inquieta che fu il simbolo del femminismo risorgimentale: patriota militante e giornalista illuminata,

amante passionale e madre amorevole, una donna moderna che ai suoi contemporanei sembrò tutto e il contrario di tutto.

Una narratrice, attraverso documenti e immagini recuperati da diversi archivi storici, traccerà la vita e le opere di Cristina Trivulzio di Belgiojoso: dalle riforme sociali agli avventurosi viaggi, dalle battaglie per l’Italia unita alle rivendicazioni per il suffragio universale. Un appassionato racconto per ridare voce ad una donna dimenticata dai libri di storia.

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