Viaggiatrice, viaggiatore, dunque vuoi leggere un articolo? Ebbene, le tradizioni del mio regno impongono che tu risolva tre indovinelli: su, ti sfido!
“Porto sulla schiena tutto il mio possedimento: pure, camminando, lascio tracce d’argento.”
Facilino, eh? No, non sono io che vago con uno zainetto scuotendo dietro di me la cenere della sigaretta… E’ la lumaca, ok.
“Nel bosco l’ho presa e come l’ho avuta che io sia dannata se l’avevo voluta. Così l’ho cercata, trovata poi no e finisce che a casa me la porterò.”
Questo è un po’ più duro, ma nessuna fatina dei boschi è stata presa prigioniera, ve lo giuro. Spremete le meningi… Ci siamo? La scheggia.
“Se te danno una ne hai almeno due, o nessuna.”
Vi arrendete? No? La risposta è proprio la scelta, brave/i. Adesso devo mantenere la promessa, che è quella di raccontarvi una storia.
I tre indovinelli, o i tre scrigni protetti da un indovinello, o anche l’indovinello singolo, sono un artificio narrativo assai antico e diffuso. Principesse e principi e nobildonne e gentiluomini e poveracci purché arguti sembrano particolarmente inclini a farne uso nelle fiabe e nel folklore prima di convolare a (giuste?) nozze: in realtà, nella maggioranza dei casi solo uno dei due futuri sposi, quello di sesso maschile, vuole il matrimonio. La donzella rigetta l’eroe ma lo accetterà dopo che egli abbia dimostrato il suo valore di enigmista, oppure è vincolata da un regale diktat paterno a prendere marito in questo modo e deve dare indizi al suo amato affinché la testa di costui non finisca ad ornare le mura esterne del palazzo. Non sempre, ma pure qui nella maggioranza dei casi, perdere la gara degli indovinelli significa infatti la morte del pretendente. La Figlia di Antioco con il suo indovinello in “Pericle, principe di Tiro” e Portia con i suoi tre scrigni ne “Il mercante di Venezia”, solo per stare nel canone scespiriano, sono due egregi esempi di come la faccenda funziona.

Un nome che però deve esservi saltato subito in mente è Turandot.
Nel 1710, lo storico francese François Pétis de la Croix si imbatte per caso in svariate menzioni di una discendente di Gengis Khan mentre fa ricerche su quest’ultimo. La vicenda così com’è però non deve piacergli abbastanza, perché cambia il nome della principessa in una parola persiana, “Turandokht” = “Figlia dell’Asia Centrale” da cui deriverà poi Turandot, e la include in un suo libro su fiabe e leggende asiatiche narrando di come imponga ai suoi spasimanti la soluzione di tre indovinelli: se non riescono nella prova li mette a morte. In realtà, la nostra eroina si chiamava Khutulun (1260 circa – 1306 circa), che significa “luce lunare”, era la assai famosa figlia di Kaidu, il più potente dei leader mongoli dell’epoca, e nipote di Kublai Khan. Di lei hanno scritto sia Marco Polo sia alcuni viaggiatori musulmani, fra cui lo statista, storico e medico persiano Rashid al-Din (1247–1318). Ed è vero che non voleva sposarsi, per quante offerte ricevesse e per quante pressioni le venissero fatte, però il suo metodo di tenere a bada gli aspiranti mariti era un po’ diverso. Chiedeva loro di scommettere 100 cavalli e poi di batterla in un incontro di lotta libera. Il mito vuole che finisse in questo modo per possedere una mandria di oltre 10.000 cavalli…
Khutulun era una guerriera, un’eccezionale guerriera se dobbiamo dar credito alle descrizioni di chi la vide in azione, cavallerizza ed arciera eccellente, molto apprezzata dal padre al cui fianco combatteva e la sua posizione non era troppo inusuale fra la sua gente (numerosi resoconti medievali riportano donne combattenti nelle “orde” mongole).
In una cultura in cui l’abilità fisica era altamente apprezzata, sino al punto da incorporare una componente spirituale, la presenza di Khutulun fra i guerrieri diventava una protezione divina e un talismano che assicurava la vittoria. Ad ogni modo, nessuno riuscì a sposarla battendola in un incontro di lotta. Scelse un marito fra i seguaci di suo padre, senza scommessa, solo per proteggere quest’ultimo dai pettegolezzi che i suoi nemici interni fomentavano: e cioè che Khutulun rifiutava il matrimonio perché aveva una relazione incestuosa con lui. La principessa restò la preferita fra i figli del Khan Kaidu (aveva qualcosa come 14 fratelli nati prima di lei), che ne stimava anche i consigli strategici e politici. Secondo alcune fonti, avrebbe voluto farne la sua successora, progetto su cui non riuscì, ovviamente, ad ottenere il completo consenso di figliolanza e membri influenti della tribù. Kaidu morì nel 1301. I fratelli si divisero e Khutulun, non accettando il partito che aveva preso il potere, fu sfidata e dovette combattere contro alcuni di essi. Con quelli che la sostenevano protesse la tomba del padre sino alla propria, di dipartita, che avvenne non molto più tardi.
Cinquant’anni dopo la prima manipolazione di François Pétis de la Croix, il nostro Carlo Gozzi fa di Khutulun, ormai diventata Turandot in pianta stabile, una donna-tigre feroce e crudele che rifiuta gli uomini per smisurato orgoglio. La cosa piace a Friedrich von Schiller che traduce la “fiaba teatrale” in tedesco come “Turandot, Prinzessin von China” (1801) e Johann Wolfgang von Goethe la dirige sul palcoscenico a Weimar nel 1802. Quest’ultima versione fu usata come base per il libretto dell’opera lirica di Puccini, “Turandot”, che morì nel 1924 mentre ancora ci lavorava. La figura della principessa resta invariata: ove la cultura mongola la ricorda come atleta e difensora della propria tribù, l’adattamento artistico occidentale ne fa un’insensibile e arrogante torturatrice che infine “soccombe all’amore” e si scusa per aver odiato gli uomini. L’opera lirica ci dà anche una spiegazione pseudo-psicologica dell’atteggiamento della principessa, che sarebbe derivato dalla paura di fare la fine di una sua zia, “conquistata” (è un eufemismo) da uno straniero.
Ora: “Turandot” ha una bellissima musica e io sono solita canticchiare “Nessun dorma” come migliaia di altre persone in tutto il mondo, ma la storia non è così intrigante, per me, quanto quella vera. Credo che la vita di Khutulun potrebbe dare origine a trasposizioni teatrali, cinematografiche, ecc. senza dover necessariamente passare per l’equivalenza “se non vuole sposarsi allora odia gli uomini” e il suo derivato “li odia perché ne ha paura, ma poi arriva il virile eroe che la mette a posto”. Inoltre, se proprio vogliamo romanzare un po’ la faccenda, la principessa non potrebbe innamorarsi (compatriota o straniero che sia) di un eroe differente? Uno che non eccelle come guerriero o enigmista, ma che suscita il suo interesse perché sa curare i cavalli, studia i moti delle stelle e le proprietà delle erbe medicinali e tenta di inventare un nuovo alfabeto? Credo che Khutulun potrebbe definitivamente sbirciarlo con stupefatto cipiglio e poi con piacere, da dietro la palizzata dove ha appena steso nella polvere l’ennesimo sbruffone. Maria G. Di Rienzo

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