Quasi sette milioni: è il numero delle donne italiane che hanno fatto esperienza di violenza fisica / sessuale inflitta loro da uno o più uomini. L’ampiezza del numero fa sì che è molto probabile per ciascuno di noi conoscerne qualcuna, anche senza sapere quel che le è accaduto.
La violenza di genere nasce e si sviluppa all’interno di un contesto sociale: la rappresentazione ipersessualizzata e degradata delle donne è uno degli elementi principali di tale contesto. Per essere messa in atto, la violenza ha bisogno di ridurre l’umanità di una persona a un singolo fattore (la cosiddetta “visione tunnel” o “visione da caccia”): nel caso delle donne, possiamo semplificare con un singolo termine plurivalente – troia. La “troia” può essere tale perché attiva sessualmente, perché la si ritiene colpevole di infedeltà o tradimento anche non sessuale, perché non ha osservato qualcuna delle regole imposte al suo genere dall’ambiente socio-culturale di riferimento o dagli uomini (compagni o parenti) con cui ha relazioni… o solo perché è femmina: sono tutte troie, a prescindere.
La classificazione, come si è detto, azzera ogni altra sua peculiarità: chi è, quel che fa, come si muove nel mondo, come si definisce, aspirazioni e speranze, pregi e difetti, storia personale. Ridurla a “troia” permette e legittima ogni tipo di violenza nei suoi confronti. Se vogliamo parlare di “mostrificazione” questo quadro la esemplifica e non è assolutamente paragonabile al criticare o rifiutare prodotti di intrattenimento, a chiedere rispetto negli spazi pubblici o a contestare una presenza televisiva.
In questi giorni ci hanno fatto sapere che il “cantante mascherato” al centro delle polemiche su Sanremo, il grande artista di “Gioia fa la troia”, è stato molto malato, da bambino era infelice e vedeva i fantasmi in ospedale: perciò, “non gridate al mostro senza prima conoscerlo”.
Ma conoscere la troia a costoro non interessa per niente. Cos’ha passato da bambina, quanto è stata infelice in passato o quanto lo è ora, se è stata molto malata o no, come le hanno tarpato le ali in famiglia, a scuola, sul lavoro (tutti ambiti in cui le statistiche sfavorevoli alle donne sono consistenti come macigni), quante volte è stata assalita, insultata, molestata, disprezzata.
La troia è un fantoccio intercambiabile, ben più senza volto e senza storia di chi l’ha resa tale – ed è ben vero che non si tratta solo del tizio in questione, come ci ricordano gli avvocati e le avvocate di cui sopra: “Ehi troia! Vieni in camera con la tua amica porca”, “(…) ‘ste puttane da backstage sono luride. Che simpaticone! Vogliono un c… che non ride, sono scorcia-troie”, eccetera. Il consiglio di costoro al proposito è: “Forse sarebbe meglio interrogarsi su una generazione lasciata sola nella pornografia, non solo dei corpi ma anche dei sentimenti.” E quando ci siamo interrogati che succede? Il fatto è che tutti i nostri tentativi di mettere in discussione quella pornografia, di corpi e sentimenti, gli stessi difensori del giovane “artista” (contesto che i parti suddetti, suoi e altrui, siano arte) li respingono continuamente come censura, come livore invidioso, come bigottismo, come vecchiume vetero-qualcosa, come attentato alla bellezza, e chi più ne ha più ne metta. E allora facciano un piacere, prima di dare consigli diano il buon esempio e si interroghino loro per primi.
Più che generazionale, tra l’altro, il problema sembra epocale (della nostra epoca). Questo qui sotto non è un rapper, anche se la scarsa conoscenza della lingua italiana è equiparabile: “A proposito mi vergogno di quel cantante che paragona Donne come troie, violentate, sequestrate, stuprate e usate come oggetti. Lo fai a casa tua, non in diretta sulla Rai e a nome della musica italiana”.
Vedete, come sta ripetendo nella sua delirante campagna elettorale lui ha dei valori: “La mamma, il papà, la famiglia e il parmigiano”. E la denuncia delle troie che ne hanno di diversi.
Maria G. Di Rienzo