“La verità è che non siamo un popolo che ama la parità.
Siamo un popolo di maschilisti uomini, e di maschilisti donne.
Anche noi donne, sì, sappiamo essere molto maschiliste.
Sappiamo esserlo quando giudichiamo le altre perché sono più giovani, più carine, più magre, più appariscenti e più di successo di noi.”
(Riflessioni di una “scrittrice e giornalista” sul rapporto Istat diffuso il 25 novembre u.s. riguardante la percezione dei ruoli e della violenza di genere, brano n. 1)
(so che ci avete pensato, ma non è lei)
Carine, magre, appariscenti e di successo. Sono le “cifre” della femminilità patriarcale odierna, ove “di successo” in Italia significa influencer (qualsiasi cosa voglia ormai dire), modella, velina, tronista o anche escort molto liberata e trasgressiva che sventola mutande “con ironia” – magari assieme al barzellettiere Berlusconi.
Dubito molto che costoro soffrano del giudizio delle altre donne, maschiliste o meno, per due motivi:
– innanzitutto, anche qualora qualcuna si permetta di non dare approvazione, giudicando semplicemente le azioni di costoro – non le persone, le azioni – per nulla giovevoli alla causa femminile / femminista, nessuna delle sue argomentazioni sarà ascoltata e lei stessa sarà immediatamente etichettata come “invidiosa”: infatti, è quello che fa anche l’articolista in questione;
– l’unico giudizio che conta, per le influencer – modelle o aspiranti tali, è quello del pubblico maschile, a cui ogni loro messaggio è diretto al fine di ottenere approvazione (ed eventuali vantaggi economici).
Sto dicendo che non possono farlo? No. Sto dicendo che come femminista non porgo il mio endorsement – di cui comunque se ne frega il mondo intero – e che rivendico pienamente il diritto di giudicare se quel che una persona fa va a favore o contro le istanze per cui lotto.
Inoltre, se occhi e orecchie non mi ingannano, è assai più frequente essere “giudicate” (nel senso di stigmatizzate e aggredite) qualora non si risponda al modello carina – magra – appariscente – di successo. O chi ha scritto il paragrafo riportato sopra non avverte il persistente urlio fatto di “brutta, cicciona, vecchia, sciatta, fica-di-legno” che impesta le vite delle donne, delle ragazze e persino delle bambine italiane?
“Leggendo che un cittadino su quattro (uno su quattro!) è convinto che l’abbigliamento possa essere una giustificazione per la violenza mi fa domandare: ma a cosa sono servite le campagne di sensibilizzazione? A cosa le manifestazioni? A cosa i film? A cosa i libri? A cosa le battaglie, soprattutto?
A cosa serve vivere in una bolla accompagnati da persone come noi – progressiste o presunte tali, sostenitrici accanite della parità di genere nella vita lavorativa come in quella privata – se poi l’Italia è questa che Istat ci sbatte in faccia con la crudeltà che solo i numeri sanno raccontare?”
(Brano n. 2)
So che sono pignola e me ne scuso: ma “leggendo… mi fa domandare” non va. O è “leggere mi fa domandare” o è “leggendo mi domando”. Ciò detto, prendo atto che il passaggio successivo a “invidiosa” è “inetta” e che inoltre questo sbavante essere inutile non vive neppure nella realtà, ma in una ristretta enclave di simili destinata a brusco risveglio grazie alla crudeltà dei numeri. Purtroppo come attivista a me non serve arrivare ogni anno al 25 novembre per conoscere i numeri. Li conosco tutti i giorni. Hanno nomi. Hanno volti. Hanno corpi che ho stretto fra le braccia.
A cosa è servito e serve, alle donne, contrastare la violenza di genere? E’ semplice: è servito e serve a salvarne qualcuna. E’ vero che preferiremmo si salvassero tutte, ma il percorso è lungo, pieno di ostacoli di una certa imponenza (politica, religione, attitudini socio-culturali) così come di pietruzze (le stronzate sulla libertà di essere serve per la soddisfazione maschile).
Non intendo svendere per nessuna/o quel che sta dietro alla lotta contro la violenza: femminismo, sorellanza, solidarietà, impegno e sogno. Ne’ accetto che altre/i lo facciano.
Maria G. Di Rienzo