C’è il segreto d’ufficio, la riservatezza della cartella clinica, un ospedale nella cui “Struttura di Malattie Infettive (…) vengono seguiti da anni centinaia di pazienti con vari orientamenti sessuali, senza alcun pregiudizio e senza che con alcuno siano mai evidenziati problemi, anzi il personale della Struttura collabora attivamente con le organizzazioni Lgbt della zona con riscontri sempre positivi”. Infine, chi ha redatto la lettera da cui è tratto il brano riportato sopra non ha alcun problema con la lingua italiana (sarcasmo) e l’ospedale di Alessandria, che la invia intemerato alla stampa, merita almeno una medaglia per la sua aperta mentalità che consente di curare pazienti di qualsiasi orientamento sessuale invece di indicare loro il prossimo treno per Treblinka – come se le cure non fossero semplicemente quel che sono, funzione e scopo di una struttura sanitaria, ma gentile concessione del personale. Per inciso, al di là del loro orientamento affettivo-sessuale, questi fottuti pazienti PAGANO. Ognuno di loro e soprattutto se lavoratori dipendenti: questi ultimi due volte, direttamente alla fonte (stipendio) e con i ticket.
Come avrete capito, sto parlando del referto di dimissione dall’ospedale in cui il solerte medico alessandrino ha scritto del suo paziente “omosessuale, compagno stabile” perché “l’anamnesi – spiega la lettera – deve raccogliere tutte le informazioni personali e cliniche utili all’eventuale processo di cura”. Ma l’omosessualità non è una patologia, una condizione di rischio, un indicatore di squilibri ormonali ecc. e la raccolta di informazioni non spiega ne’ il sottoporre al test Hiv (risultato negativo) un paziente che arriva al pronto soccorso con grave mal di testa, ne’ il consigliargli di vaccinarsi contro l’epatite (???), ne’ quel che è accaduto nell’ambulatorio:
“Da subito, il medico che mi ha visitato si è posto in una maniera strana. Il mio compagno era in camera con me e ha chiesto a lui direttamente chi fosse. Ha risposto. Gli ha detto non proprio gentilmente di uscire dalla stanza. La prima cosa che poi ha domandato a me è stata: “Conferma che è il suo fidanzato?”. Penso che a marito e moglie nessuno chiederebbe mai questo tipo di conferma.”
Dice ancora la lettera: “L’azienda ospedaliera è molto dispiaciuta di leggere che un nostro paziente possa essersi sentito ‘discriminato’ ” e mette quest’ultimo termine fra virgolette, ovviamente, perché loro la discriminazione non la riconoscono e anzi scaricano la responsabilità su chi l’ha subita: “Nel caso specifico, l’informazione è stata concordata tra il medico e il paziente”. No, il sig. medico ha fatto domande inappropriate, ha ricevuto comunque risposte oneste e non il “vada a quel paese” che meritava e ha deciso senza chiedere consenso cosa scrivere nel referto.
Non so se la coppia protagonista di questa vicenda deciderà di intraprendere azioni legali, quel che voglio sottolineare ora è che non si tratta di un caso isolato e che non tocca solo le persone lgbt. C’è una categoria di esseri umani che i medici prendono a pesci in faccia a priori: le donne e in particolar modo le donne che mi somigliano.
In precedenza ho accennato all’incidente del 31 marzo che mi ha procurato una lesione al tendine d’Achille della gamba destra. Non vi dettaglio tutta l’odissea, altrimenti facciamo notte, ma essa è iniziata al pronto soccorso dell’ospedale Ca’ Foncello, dove non sono stata presa sul serio (un infermiere si è persino spinto a chiedermi sprezzante se era così che di solito sopportavo il dolore), dove quindi il medico di turno ha sbagliato diagnosi e mi ha mandata a casa con la caviglia fasciata e il consiglio di metterci su del ghiaccio senza accorgersi della rottura del tendine. Sul referto di dimissione sta scritto che sarei guarita in 10 giorni: siamo al 14 luglio, io non cammino normalmente e devo fare affidamento su pesanti antidolorifici per arrivare alla fine della giornata.
Ovviamente, quando i dieci giorni sono diventati un mese e passa ho chiesto al medico di base cosa fare. Abbiamo deciso per l’ecografia. Ho cambiato ospedale, ma l’atteggiamento nei miei confronti non è mutato di una virgola. Sentite come l’operatore annoiato e silente del S. Camillo, che mi ha degnato delle mere istruzioni su come stare sul lettino e nulla più, mi ha comunicato l’esito dell’ecografia – e solo perché io l’ho chiesto.
“Ha un tutore?” Attimo in cui trattengo la tentazione di ribattere “Non mi hanno ancora dichiarata incapace”, poi rispondo: “Perché, altrimenti il tendine si rompe?” “E’ già rotto.”, e se ne esce dalla stanza. Più visto. I successivi tentativi di accedere al reparto ortopedico del Ca’ Foncello sunnominato per avere la grazia di una terapia falliscono: nel primo sono “cacciata” dalla struttura perché hanno già troppa gente, nel secondo dovrei accedere tramite pronto soccorso e visto il trattamento me ne vado io.
La visita al professionista privato (112 euro per 15 minuti di infastidita sofferenza snob, sua) non dà risultati: “Bisognava intervenire prima”. “Ma come potevo intervenire prima se non mi hanno diagnosticato la lesione?” “Io le dico le cose come stanno.” “Io pure. In sintesi, cosa faccio adesso?” Il professionista non lo sa: ci sarebbe un’operazione ma visto che il tendine non è completamente staccato la fanno raramente. E io devo farla, dove? Be’, l’esperto non sa neppure questo, per cui mi dà un numero di telefono di un suo collega per un’ulteriore visita a pagamento (sì, ciao).
Ma il meglio deve ancora venire. Considerato che il reparto ortopedico ospedaliero di Ca’ Foncello è off limits e che S. Camillo non lo ha, provo all’Ulss 2. La dottoressa che incontro si occupa di ossa e articolazioni ufficialmente, ma la sua specialità dev’essere aggredire le pazienti che hanno il mio aspetto: vecchia, non truccata, vestita (poveramente) casual e non conforme al BMI. Per inciso, poiché ha un aspetto anoressico, neppure lei è conforme, ma è il medico e tanto basta perché la merda debba prenderla io.
Spiego la situazione. Risposta semi-urlata: “Come? Cosa? Ma suo marito non le ha detto di fare un’altra visita?” Questa tecnicamente si chiama “negazione di agenzia”, cioè la tipa presume che io non sia in grado di prendere decisioni per me stessa e abbia bisogno di un uomo che le prenda per me.
Pazientemente, dopotutto sono una trainer alla nonviolenza riconosciuta a livello internazionale, riferisco di aver fatto altre visite e di aver acquistato un tutore che però non riesco a indossare, perché è molto pesante e la gamba offesa si gonfia terribilmente dopo solo quindici minuti. Risposta nello stesso tono aggressivo: “Allora vede che qualcuno le ha detto di mettere il tutore!”
Questa invece è negazione tout court che mi dà in faccia e spensieratamente della bugiarda. Non le chiedo come si permette ma ribadisco, sempre in modo educato, di non aver avuto indicazioni al proposito e che chi mi ha fatto l’ecografia ha solo domandato se ne avevo uno, dal che io ho autonomamente dedotto che forse era meglio averlo.
A questo punto mi chiede di sdraiarmi sul lettino e mentre provvedo con difficoltà, perché zoppico e perdo facilmente l’equilibrio, mi strilla alle spalle come una maestra incazzata: “E poi abbiamo il peeeesooo, il peso, eh?” (N.B.: in nessun referto medico in mio possesso, nemmeno il suo, il mio peso è indicato come talmente abnorme da costituire fattore di rischio. Sono larga, ma non una mongolfiera.)
Tuttavia, la dottoressa vuole che io mi scusi, si aspetta le mie giustificazioni, la mia vergogna e l’assicurazione che ritengo l’essere me stessa un problema.
I don’t comply. “Non intendo discutere con lei di questo argomento. Ho già una dermatite da stress, come avrà notato guardandomi in faccia, e non voglio peggiorarla.” SILENZIO. Da questo momento in poi svolge arcigna e ingrugnata le sue mansioni, mostrandomi sempre la sua ostilità ma senza verbalizzarla, poi finalmente mi dà il referto e addio.
E’ in pratica privo di esito anch’esso, prescrive sedute di fisioterapia e non si sbilancia a suggerire null’altro, ma il punto ormai non è questo. Il punto è: perché l’omosessuale maschio o femmina, perché la sottoscritta, perché chiunque non risponda al modellino sociale prescritto è trattato come subumano? E soprattutto in un momento in cui, avendo un problema di salute, è altamente vulnerabile e fragile?
Non ci state facendo un favore, signori medici: è il vostro lavoro e vi stiamo pagando per esso. I vostri personali pregiudizi non dovrebbero entrare nel conto. E mi piacerebbe sapere in quale cassetto avete chiuso a tripla mandata il Giuramento di Ippocrate, che avete prestato e che contiene il seguente interessante paragrafo:
(Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’impegno che assumo, giuro:)
– di curare tutti i miei pazienti con eguale scrupolo e impegno indipendentemente dai sentimenti che essi mi ispirano e prescindendo da ogni differenza di razza, religione, nazionalità, condizione sociale e ideologia politica.
Maria G. Di Rienzo