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« Ginevra e i fenicotteri
Sottrarre consenso alla violenza »

Tacchi

16 giugno 2019 di lunanuvola

yumi

Quando, la settimana scorsa, Yumi Ishikawa – in immagine – ha ottenuto attenzione internazionale per la sua campagna contro i codici di abbigliamento imposti alle donne sul lavoro (in particolare contro l’obbligo di indossare scarpe con i tacchi in determinati ambienti), ha dovuto affrontare in sequenza tutti gli stadi del rigetto che ogni rivendicazione simile da parte femminile, in qualsiasi zona del pianeta, guadagna ormai a prescindere. I due fattori determinanti per questo sono l’ignoranza quasi totale delle condizioni in cui vivono le donne “comuni” (cancellate da pettegolezzi infiniti sulle celebrità, sfilate di modelle silenti e parate di vallette mute, sfide “erotiche” fra influencer sul web e così via) e l’incapacità manifesta di collegare i diversi tipi di discriminazione sessista al quadro che li comprende.

1. Gli uomini in posizione di potere non ascoltano, neppure se gli presentate ventimila firme a sostegno del vostro reclamo (il che significa che almeno ventimila altre lavoratrici si sentono come voi e ciò dovrebbe, in teoria, valere un minimo di discussione). Il Ministro del Lavoro giapponese, Takumi Nemoto, ritiene che l’obbligare le donne a indossare scarpe con i tacchi sia “accettato socialmente come necessario e appropriato a livello occupazionale”. La salute e la sicurezza di chi lavora? Sì sì, devono essere protette ma sapete, ha aggiunto il Ministro, “i lavori variano”.

2. In effetti, dei danni che subite non frega un piffero a nessuno, nemmeno quando quel che testimoniate è ovvio: stare in piedi per ore e ore sui tacchi fa male. Ishikawa ha scritto del dolore ai piedi, dei problemi alla schiena, della difficoltà a muoversi, dell’impossibilità di correre qualora si palesi un pericolo ecc. Ma le aziende (consigli d’amministrazione a schiacciante maggioranza maschile) e i clienti uomini sono più felici se vedono una donna sorridere a denti stretti mentre ondeggia sui tacchi e si rovina la spina dorsale, persino quando come Ishikawa lavora a tempo determinato in una cappella funeraria (la 32enne è attrice e scrittrice).

3. Molti di questi uomini sono così oltraggiati dal fatto che abbiate aperto bocca da prodursi immediatamente nell’assalto online – e il relativo anonimato permette loro di mostrare esattamente quanto sono incivili – perciò Ishikawa è stata sommersa da insulti sessisti. Persino le cose più blande che le sono state dette sono così stupide da far piangere: “Perché tanto chiasso? Se devi parlarne fallo con i tuoi datori di lavoro.”, “E gli uomini allora? Non devono mettere le cravatte?”, “Ho letto che alle donne piace il senso di magia e femminilità che acquistano sui tacchi alti”.

Traduzione: Stai zitta, e comunque è un problema tuo, non tentare di mostrarne le radici sociali. Gli uomini soffrono, stanno peggio e non si lamentano. Sei una vera donna, o cosa?

Un minimo di approfondimento: a) Non sono giunti dati sui danni alla salute provocati dalla cravatta ai colli degli uomini, ignoriamo anche quanti ci si siano effettivamente strozzati e siano passati dalla cappella funeraria di cui sopra – id est, non avendo prove a sostegno, questa roba resta una ridicola lagna per quanto sia perfettamente vero che le cravatte non dovrebbero essere imposte. Perché invece di prendervela con Yumi Ishikawa non date inizio alla vostra campagna in merito?

b) Storicamente, le scarpe col tacco hanno fatto il loro debutto nel 16° secolo, ai piedi degli uomini della cavalleria persiana, prima di migrare agli eserciti europei e alle corti reali pure europee: confesso di dubitare fortemente che i cavalieri le indossassero per sentirsi magici e femminili.

4. Ma ci sono pure donne offese dalla vostra visibilità. Da quelle che manco hanno letto la vostra petizione (Ishikawa aveva chiarito a priori di non aver nulla contro le scarpe alte in sé, ma solo contro l’obbligo di indossarle – non avrebbe dovuto essere necessario, tuttavia l’andazzo attuale ci costringe persino a scusarci continuamente di esistere) e vi chiedono perché volete proibire loro di scegliere, alle immancabili “benaltriste”: la nazione ha problemi più gravi, vi dicono costoro, della trivialità che avete sollevato. E che il Giappone con le donne abbia davvero problemi è assodato – nella lista mondiale dell’eguaglianza di genere si piazza al 110° posto su 149 paesi. Il divario sui salari segna il 25,7% in meno per le donne a parità di mansioni. Quattro società su cinque di quelle quotate in borsa non hanno donne nei loro consigli d’amministrazione. Durante la recente abdicazione dell’imperatore Akihito alle donne non è stato permesso entrare nella sala della cerimonia. L’anno scorso nove facoltà di medicina hanno ammesso di truccare gli esami d’ammissione per escludere le candidate donne. L’11 giugno u.s. le donne erano in piazza a protestare contro il verdetto del tribunale che ha assolto il padre stupratore seriale della propria figlia 19enne: i giudici hanno detto che anche se “il sesso era non consensuale” non era possibile “provare che lei avesse resistito”. La nazione permette l’oggettivazione sessuale delle minorenni con il giro d’affari detto “joshi kosei”, ovvero la fornitura di “servizi” da parte di giovani donne in uniformi scolastiche.

Tokyo distretto Akihabara

(Controllo di polizia dell’età di un gruppo di esse)

La prostituzione richiesta alle ragazze in uniforme è nascosta da offerte di riflessologia plantare e di massaggi vari, sessioni fotografiche e “laboratori” in cui le giovani offrono visione delle loro mutande mentre fanno origami o creano oggetti con perline. Ufficialmente i clienti non devono toccarle, ma quelli che non vogliono masturbarsi a casa possono non ufficialmente ottenere di più. Le ragazze che finiscono in questo giro sono, com’è ovvio, le più povere e quelle la cui autostima è stata distrutta dall’infinito assalto dei messaggi sessisti loro diretti.

Cosa lega insieme tutto questo? La discriminazione di genere figlia del patriarcato, punto e basta. Ecco perché i tacchi obbligatori sul lavoro contro cui Ishikawa protesta non possono essere esclusi dalla lotta per i diritti umani delle donne. Sono una delle tante facce della violenza, quella che ama mascherarsi da “bellezza”.

Maria G. Di Rienzo

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