Il 1° aprile, i titoli relativi all’assassinio di Stefano Leo erano di questo tenore: “Volevo uccidere, ho scelto Stefano perché mi sembrava felice”. Ragazzo di 27 anni confessa l’omicidio dei Murazzi.”
Il biasimo diretto all’ex compagna dell’omicida, Said Mechaquat, è già presente ma contenuto all’interno degli articoli (“gli negava la possibilità di vedere il figlio” – “La cosa peggiore – avrebbe detto a proposito del suo passato – è sapere che il mio bimbo di quattro anni chiama papà l’amico della mia ex compagna” ).
Il giorno successivo, 2 aprile, i titoli virano decisamente su questa “gustosa” visione alternativa della realtà, per la quale se un uomo uccide, la responsabile è una donna: “Torino, i verbali della confessione di Said: La mia ex non mi fa vedere mio figlio da due anni.” oppure “La confessione di Said Mechaquat, 27enne di origini marocchine, per l’omicidio di Torino: mi hanno tolto un figlio e non ho più l’amore per vivere.”
Nei primi pezzi si attesta che l’omicida “era stato condannato per maltrattamenti in famiglia, era stato lasciato dalla compagna, che non gli lasciava più vedere il figlio”, ove la condanna è una spiegazione più che sufficiente per il tentativo della donna di proteggere il figlioletto e se stessa, ma nei successivi la condanna scompare e si trasforma in “piccoli precedenti penali” non specificati, mentre l’evento chiave è invece “una separazione consensuale causata dall’arrivo di un altro uomo, e turbata dal comportamento di lei che “voleva che il figlio chiamasse il nuovo compagno papà”.”
Le narrazioni partono da qui per spiegare tutto il resto della vita a rotoli di Said Mechaquat, che perde l’impiego per “una discussione” con il datore di lavoro e non ne trova mai un altro, che è senza fissa dimora, che è seguito dai servizi sociali e che, sbocco prevedibile della brutta favola, il giorno dell’omicidio “sentiva delle voci nella sua mente, il richiamo del male” e “avrebbe agito obnubilato da un raptus”.
Esaminiamo un attimo quest’ultimo nelle parole del reo confesso, che si sveglia “molto innervosito”, va al discount e compra un set di coltelli da cucina, poi va a sedersi su una panchina del Lungo Po dove aspetta che passi “quello giusto”:
1. “Io volevo ammazzare un ragazzo come me, togliergli tutte le promesse che aveva, toglierlo ai suoi figli e ai suoi parenti.”
2. “Non sopportavo la sua aria felice (nda: di Stefano Leo). Gli sono andato dietro e l’ho colpito mentre gli sono arrivato quasi sul fianco, sul suo lato destro e impugnando il coltello con la mano sinistra l’ho colpito al collo. (…) Quello è il modo più sicuro di uccidere. Se lo colpisci di schiena è meno sicuro, anche se lo prendi al polmone non sei certo di ammazzarlo.”
3. “Ho colpito un bianco, basandomi sul fatto ovvio che giovane e italiano avrebbe fatto scalpore. (…) Una persona la cui morte avesse una buona risonanza. Non un vecchio di cui nessuno parla.”
4. “Ho visto che cercava di respirare. Si è accasciato dopo aver fatto le scale, cercando di prendere aria. Si è inginocchiato e poi è caduto a terra.”
Nessuno nega che l’autore di un simile omicidio manifesti profondi disturbi psicologici, ma la pianificazione e il resoconto dell’atto sono un po’ troppo lucide per parlare di “obnubilamento da raptus”. Io vedo un soggetto non troppo dissimile da altri della sua generazione: egocentrico e solipsista (un individuo il cui interesse è accentrato su di sé al punto di renderlo incapace di percepire e capire interessi altrui), rancoroso, totalmente privo di empatia (può stare a guardare l’agonia della sua vittima senza provare nulla), che deve scaricare su terzi il peso dei propri fallimenti, che usa la violenza per affermarsi e sentirsi importante (lui sì che conosce i “modi sicuri” per uccidere, cool!) e che ovviamente, in quest’epoca in cui chi commette reati li filma e li pubblica sui social media, deve renderla il più “spettacolare” possibile.
Ma in tutto questo, suggerisce il giornalismo nostrano, Said Mechaquat non ha vere responsabilità, perché sono le donne che l’hanno fatto piombare in un “abisso di delusioni”: si era “sposato giovanissimo in Marocco con una connazionale” ma il tutto è finito con una separazione; la relazione con la giovane italiana da cui ha avuto un figlio “è durata alcuni anni, poi lei si è trovata un altro”; “ha cercato affetto e “coccole” in altre donne” ma anche queste lo hanno “deluso” e “Mechaquat ne ha sofferto” – però non è mai riuscito a riflettere su se stesso, perché le relazioni di coppia si fanno funzionare o si fanno fallire in due (e la sofferenza è condivisa anche da chi prende la decisione di chiudere) e se tu ripeti lo stesso schema comportamentale ogni volta senza imparare dalle lezioni del passato sì, forgi il tuo personale destino come una serie di delusioni a catena. Ma sei sempre TU a forgiarlo, non LEI o LUI.
Suggerire che se le donne l’avessero coccolato di più Mechaquat non avrebbe ucciso, oltre a essere una tesi abominevole, fornisce validazione e ulteriore spinta alla violenza, anche contro le donne stesse a cui invariabilmente è addossata la colpa di azioni e decisioni prese dagli uomini con cui hanno / hanno avuto relazioni.
Permetti a un uomo violento di passare il tempo con tuo figlio e poi lui lo ammazza, vergognati. Non permetti a un uomo violento di passare il tempo con tuo figlio e poi lui ammazza una persona a caso, vergognati. Mettete fine a questa attitudine, redazioni giornalistiche, perché non c’è ammontare di click che valga una vita umana.
Infine, scusatemi, non provo alcuna commozione nel sentire che Mechaquat “non ha più l’amore per vivere” perché ho il fondato sospetto, dato dalla sua storia personale e dalla fine dell’innocente Stefano Leo, che costui non sappia nemmeno cosa l’amore è.
Maria G. Di Rienzo
* “Delitto Murazzi, ipotesi scambio” – Gli aggiornamenti odierni confermano la mia impressione di un’azione lucidamente programmata: il giovane ucciso somigliava molto al compagno della ex di Mechaquat, già minacciato da quest’ultimo di “taglio della gola”: conoscendone le abitudini, l’assassino avrebbe atteso un’ora e un quarto per poi assalire la persona sbagliata. La manfrina però non è ancora cambiata. Il compagno dell’ex è infatti definito come “l’uomo che aveva preso il suo posto nella vita della ex e di suo figlio”. Noi donne non siamo fatte di una fila di sedie al cinematografo. Quando avete una relazione con noi ciò non equivale a esservi comprati la tessera per una poltroncina perenne nelle nostre vite.