Le immagini sparse in questo pezzo ritraggono capi di abbigliamento maschile “di moda”: sono tutti indumenti di marche famose. Si va dalla cascata di fiori al rosa pastello e al fucsia carico – e se fate una ricerca su internet troverete altre centinaia e centinaia di esempi simili.
Ogni “brand” sul mercato ha lo scopo principale di fare soldi: se putacaso indulge in cospirazioni e manovre poco pulite di qualche tipo, esse riguardano per lo più come sfruttare meglio i lavoratori, come acquisire materiali sottocosto e come aprire conti bancari protetti in isole tropicali.
Dell’identità di genere dei propri clienti non può fregare di meno a ogni singola azienda e sarebbe comunque del tutto assurdo che si consorziassero per “confonderla” e spostare le preferenze di costoro verso abiti da donna, perdendoli nel processo: inoltre, non vi è alcuno studio / ricerca con peso scientifico a suggerire che indossando pantaloni fucsia un maschio automaticamente non sappia più di essere maschio… ma questo è ciò che dopo anni di propaganda sull’ideologia gender alimentata da un gruppo di odiatori ignoranti (fra cui preti e politici) e tenuta sotto i riflettori dai media senza alcuna attitudine critica è stato digerito a livello popolare.
Repubblica, 15 dicembre u.s.: “I fatti (…) risalgono al 7 dicembre. Uno dei piccoli allievi dell’asilo (…) sporca in serie, uno dopo l’altro i cambi che la mamma gli ha messo nell’armadietto e le maestre, per non lasciarlo bagnato e sporco, usano gli abiti di riserva che tengono in un armadietto di emergenza. Gli unici che gli vanno bene sono un paio di pantaloni fucsia, ma un colore vale l’altro purché sia pulito. Ed è così che lo riconsegnano a chi lo viene a prendere a fine giornata.
Passa il fine settimana e lunedì mattina la mamma si presenta in classe e consegna alle maestre una lettera: “Vi ringrazio per i pantaloni rosa e le mutandine che avete imprestato al bambino, dopo aver esaurito la scorta. Però le norme sociali non le abbiamo fatte noi. Lo preferivamo pisciato (sic), che sappiamo asciuga, a vestito da femmina e con le idee sull’identità di genere in conflitto”. “
Dunque, questa madre (e questo padre, probabilmente, dato il plurale dell’ultima frase) preferisce un figlio in condizioni di disagio e persino vergogna, a rischio di prendersi un’infreddatura o peggio, esposto al dileggio di eventuali coetanei bulletti, a un indumento color fucsia – perché esso equivale a vestirsi “da femmina”: signora, non gli hanno messo un tutù da ballerina, gli hanno messo dei pantaloni. E’ vero che il “pisciato” si asciuga (speriamo che in futuro la signora non dia ripetizioni di italiano a suo figlio), ma ci mette del tempo e intanto chi è “pisciato” comincia ad avere un odore non proprio gradevole e sta veramente male.
Ma sembra che a costei del benessere del bambino non importi granché, la cosa fondamentale è ricordare alle insegnanti che “le norme sociali non le abbiamo fatte noi”. Forse la signora pensa che discendano direttamente dal cielo o stiano scritte in qualche libro sacro e immutabile, ma si sbaglia: le norme sociali le facciamo proprio noi esseri umani, costituenti di quella stessa società che normiamo… in mille modi diversi a seconda delle epoche storiche, delle credenze vigenti, dell’influenza di religione – economia – politica eccetera eccetera. Di fatto, sul piano storico, le cambiamo di continuo. Noi, ripeto, noi. E mano a mano che vediamo le conseguenze di norme sociali violente, escludenti, discriminanti, false come una moneta di latta, abbiamo la possibilità – e io credo il dovere morale – di lavorare per cambiarle affinché causino meno dolore.
La vulgata rosa/femminucce e azzurro/maschietti, inoltre, non è una “norma sociale”, così come non lo sono Babbo Natale e la Fatina dei Denti. E’ una consuetudine obsoleta e sciocca, che non ha la minima ricaduta sull’identità di genere di donne e uomini. So che la signora non crederà a me, sono una diabolica femminista dopotutto, ma alle icone di stile della moda darà credito, no? Guardi tutta questa roba fucsia e abbia la cortesia di riflettere prima di sostenere che chiunque l’abbia creata o la indossi è o è diventato “finocchio”.
Maria G. Di Rienzo