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Exit

4 dicembre 2016 di lunanuvola

(“A Sex Trafficking And Prostitution Survivor Testifies”, di Taina Bien-Aimé, avvocata e laureata in scienze politiche, giornalista indipendente, direttrice della “Coalizione contro il traffico di donne”, la prima organizzazione non governativa nata con l’impegno di mettere fine al traffico di donne e bambine e alle forme correlate di sfruttamento commerciale sessuale quali atti di violenza di genere. Questa sua intervista a Grizelda Grootboom – in immagine – è del 1° agosto 2016. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

grizelda

Di recente, Grizelda Grootboom ha pubblicato “Exit” – “Uscita”, un libro sulla sua infanzia piena di violenza e vissuta da senzatetto, sul traffico sessuale che ha subito, sulla sua fuga dalla prostituzione e la sua trasformazione in una delle più attive leader sopravvissute decise a eliminare il commercio sessuale. Grizelda è sudafricana e vive a Cape Town con il suo figlioletto.

Come sono stati i primi 18 anni del viaggio della tua vita?

Sono nata nella parte occidentale di Cape Town, nell’area di colore di Woodstock. I miei primi anni sono stati felici, mentre vivevo con mio padre e mia nonna. Quando avevo 8 anni, il governo dell’apartheid ci fece traslocare di forza per scopi di sviluppo dell’area, così mio padre ed io finimmo a vivere per strada. Senza lavoro e senza casa divenne un alcolizzato e infine mi mandò da mia madre a Khayelitsha, un distretto per neri sempre a Cape Town. Il nuovo ambiente era difficile per me, perché mia madre aveva la sua propria famiglia e io dovevo imparare un’altra lingua. Un giorno, mentre raccoglievo acqua per strada, quattro ragazzi adolescenti mi puntarono un coltello alla gola e mi trascinarono in una baracca dove mi stuprarono in gruppo. E’ un rituale culturale maschile chiamato “ifoli”, simile al “jack-rolling” (ndt: lo stupro di gruppo quale punizione per un’azione percepita come “affronto” dai perpetratori). Avevo 9 anni. Tutto quel che ho provato era dolore e rabbia, perciò me ne andai dalla casa di mia madre e passai l’infanzia fra i rifugi e le strade.

Fu allora che fosti venduta per la prima volta per la prostituzione?

No. Ero semplicemente una ragazzina di strada che fumava, prendeva droghe, rubava per mangiare. Quando ci arrestavano, i poliziotti chiedevano pompini, ma niente altro. Era solo qualcosa che dovevamo fare se volevamo uscire di prigione.

Sulle strade, conoscevo persone che consideravo la mia famiglia. Quando divenni diciottenne, il rifugio mi buttò fuori in modo permanente così una mia amica, una ragazza più grande che comprava droghe da noi e passava del tempo sotto il nostro ponte, mi disse che poteva trovarmi un lavoro a Johannesburg. Una volta arrivate, mi portò in una stanza nel sobborgo di Yeoville, disse che andava a comprare da mangiare e da allora, sino a oggi, non l’ho vista più.

Mi addormentai e fui svegliata da un pugno in faccia. Gli uomini mi spogliarono, mi legarono, mi iniettarono stupefacenti e cominciarono a vendermi. Per 12 giorni, dalle dieci di mattina a tarda notte, uomini entravano nella stanza mentre io ero bendata. I miei sensi dell’olfatto e del tatto si svilupparono intensamente; potevo individuare chi era in pausa pranzo dal lavoro, chi era ubriaco, chi si profumava con acqua di colonia costosa. Io, per due settimane, ho puzzato di preservativi, sperma e droghe. Dopo quel periodo, mi misero in strada.

Per quanto tempo sei stata prostituita e trafficata?

Sino a che ebbi 26 anni. Nei primi mesi, avevo imparato velocemente come comportarmi “bene” per andare negli strip-club piuttosto che in strada, cambiare magnaccia, farmi spostare da una provincia a un’altra. Se non eri una “brava ragazza” ti mandavano alle stazioni di servizio per camionisti. Il governo era coinvolto: molti dei miei clienti erano funzionari, legislatori, ministri. Non c’era via di fuga.

Quando sei uscita dalla prostituzione?

Quando ho capito di essere incinta di sei mesi, ho pensato che mi avrebbero lasciata libera. Invece, i miei magnaccia dissero che non era parte del contratto e mi costrinsero ad abortire. Dopo tre ore dall’operazione volevano ributtarmi in strada a lavorare e io mi rifiutai. Mi picchiarono così tanto che mi svegliai dal coma in ospedale un mese dopo. Quello è stato il momento. Ho potuto andare in riabilitazione e sopravvivere.

C’è chi dice che la prostituzione sia un lavoro come un altro. Tu sei d’accordo?

Un certo numero di gruppi in Sudafrica, incluso S.W.E.A.T. (acronimo di Sex Workers Education and Advocacy Taskforce) la vedono in questo modo e chiedono leggi che decriminalizzino il commercio di sesso. S.W.E.A.T. è un gruppo fondato da un uomo bianco gay e la maggioranza del suo staff è composta da bianchi, specialmente a Cape Town. Spesso mi chiedo cosa intendono con il termine “sex worker”: la sedicenne venduta per strada? La spogliarellista stuprata in gruppo quando era bambina? La donna bianca privilegiata che si diletta dell’essere una escort? In Sudafrica le cosiddette “sex workers” non sono donne a caso: sono donne nere. Nella prostituzione ci strappano via la dignità e spesso ci lasciano morire. Come può essere un lavoro, questo?

E rispetto all’affermazione che se il commercio di sesso fosse decriminalizzato le donne prostituite avrebbero miglior accesso alla cura della propria salute e alla giustizia, che dici?

Per quel che riguarda la salute, i gruppi pro-legalizzazione o decriminalizzazione sanno molto bene che noi non possiamo negoziare sui preservativi. I clienti non vogliono pagare di più per metterli e ritarda i loro orgasmi, così se hai una quota da raggiungere e il tempo è denaro, i condom sono fuori discussione. Ad ogni modo, solo un cliente su un milione accetta di usare i preservativi, perciò le tue possibilità di contrarre l’Hiv/Aids sono del 99%.

Questi gruppi sanno anche che le medicine antiretrovirali non sono distribuite equamente in Sudafrica. Tutto questo accade al di là di ogni legge sulla prostituzione. Se poi parliamo di giustizia, loro stanno promuovendo una cultura dello stupro dicendo alle ragazze che questo è un lavoro e un modo per fuggire dalla povertà. Una ragazza dovrebbe ringraziarli per ciò?

Qualcuno dei tuoi “compratori” ti ha mai chiesto se eri stata trafficata o se avevi un magnaccia?

Ai clienti non gliene frega niente di questo. Qualcuno mi ha chiesto da dove venivo e se mi stavo godendo il nuovo lavoro qualora non mi avessero vista prima in quel club. Se rispondevo di odiarlo, mi dicevano che “questa è la vita” e “buona fortuna”. Inoltre, le domande le facevano solo dopo essersi soddisfatti.

Che ruolo pensi le sopravvissute possano avere nel suscitare consapevolezza?

Le voci delle sopravvissute sono criticamente importanti. A volte è difficile bilanciarsi nei gruppi con cui si lavora. Come sopravvissuta, vuoi disperatamente e hai disperatamente bisogno che qualcuno ti dia sostegno, ma noi dobbiamo anche sedere al tavolo ed essere rispettate. Non siamo sfuggite al dolore e alla violenza per stare in seconda fila e raccontare unicamente le nostre storie. Le ong devono usarci in modo intelligente: noi conosciamo le reti del commercio sessuale, i club, i magnaccia, la comunità, come nessun altro. Devono istruirci a parlare di questi orrori.

Leggi e politiche?

Quando ho testimoniato davanti al Parlamento, ho visto alcuni dei miei ex clienti sul podio. Non riuscivano a credere che io fossi ancora viva!

Se il governo legalizza la prostituzione o decriminalizza il commercio sessuale, ciò significherà che le donne sono ufficialmente oggetti di proprietà. Il Sudafrica deve chiamare a rispondere davanti alla legge compratori di sesso e magnaccia. Il magnaccia è il mediatore che conosce i due pilastri della tratta: compratori di sesso e vulnerabilità. Magnaccia e proprietari di bordelli, in Sudafrica, sono chiamati “quelli delle benedizioni”: ciò significa che qualcuno in alto, un funzionario di governo, sta dando loro la sua benedizione per gli affari che fanno. La grossa sfida, qui, è la nostra cultura.

Cosa ti ha ispirata a scrivere la tua autobiografia?

E’ fondamentale per me parlare pubblicamente come sopravvissuta, usare la mia voce per aprire gli occhi al mio paese sulla realtà del commercio sessuale. A me e alle mie sorelle sopravvissute viene spesso chiesto di parlare delle nostre esperienze durante eventi o sui media, ma a volte la cosa ci fa sentire sfruttate a livello emotivo.

I giornalisti ti chiedono della tua vita e continuano a rivolgersi a te in modi che ti traumatizzano di nuovo o ti identificano come “sex worker”, il che è molto avvilente. Ciò che è accaduto a me e a innumerevoli altre non è “lavoro”.

Tu ne parli apertamente per riprenderti dignità e autostima, ma quando questo non accade fa davvero male. Io ho scritto “Exit” perché più sopravvissute testimoniano, più governi dovranno prenderci seriamente. Se vuoi cambiare la legge, hai bisogno della donna che è uscita viva da quell’inferno che è la prostituzione. Io sono una sopravvissuta per un motivo doloroso, ma devo aiutare a impedire che la prossima generazione di ragazze sia comprata e venduta. La mia responsabilità è dire la verità.

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