Lo aspettavo con forte interesse, sono riuscita finalmente a vederlo e non sono delusa: si tratta del film sudcoreano “L’ultima principessa” o, nel suo titolo originale, 덕혜옹주 – La principessa Deok-hye (il termine è “ongju” e non il solito “gongju” perché Deok-hye era figlia di una “consorte reale” o concubina, e non della regina – che era stata peraltro la notevole imperatrice Myeongseong
https://lunanuvola.wordpress.com/2014/05/14/lultima-imperatrice/ )
E’ la storia appunto dell’ultima persona della dinastia Joseon a rivestire questo titolo, basata su un romanzo best-seller del 2009 e quindi con qualche licenza creativa, ma altrimenti resoconto straziante e accurato della vita di Yi Deok-hye, ultima e prediletta figlia di re Gojong (era nata nel 1912, quando lui aveva 60 anni).
Trama: la Corea è sotto dominio giapponese e la piccola Deok-hye, dopo aver testimoniato la morte del padre in tenera età, è costretta a trasferirsi in Giappone a 13 anni con la falsa promessa che potrà tornare una volta terminati gli studi. Ma quando questa condizione è soddisfatta, ogni suo tentativo di rientrare in patria è prevenuto dal “consigliere reale” (un dignitario coreano al soldo del governo di occupazione) Han Taek-su con cui ha una relazione conflittuale sollecitata dall’arroganza e dalla violenza che l’uomo manifesta nei suoi confronti.
Con la riunione all’amico di infanzia ed ex promesso sposo Kim Jang-han – le nozze non garbavano ai giapponesi e sono state annullate – le speranze di Deok-hye si riaccendono: costui è formalmente un ufficiale dell’esercito giapponese ma fa parte del movimento indipendentista ed è intenzionato a organizzare la fuga della principessa e di suo fratello Yi Eun, re proforma e anche lui confinato in Giappone, a Shangai, sede del governo provvisorio della Repubblica di Corea. Il piano è sventato da Han Taek-su e la principessa è costretta a sposare il nobile giapponese So Takeyuki nel 1931; l’anno successivo darà alla luce la loro unica figlia, Masae (正惠), o Jeong-hye (정혜) in coreano.
(foto del vero matrimonio della principessa)
Subito dopo la nascita della bambina, Deok-hye comincia a dare segni esteriori della sua profonda sofferenza: rifiuta il cibo, non riesce a dormire, vive in una sorta di stato catatonico.
(Nella realtà la malinconia e la nostalgia della principessa furono diagnosticate come “demenza precoce” già poco dopo il suo arrivo in Giappone e successivamente al parto, con la diagnosi di “schizofrenia”, cominciò a entrare e uscire dagli ospedali psichiatrici.)
Con la sconfitta del Giappone nella II guerra mondiale, nel 1945, Deok-hye ha di nuovo la possibilità di rientrare nel suo paese e tenta di farlo con la figlia ma il governo repubblicano coreano, temendo sollevazioni a favore della monarchia, l’ha messa nella lista degli “indesiderabili”: la scena del rigetto che la principessa subisce ai tavoli di controllo dei migranti di ritorno è una delle più potenti del film.
Il divorzio dal conte Takeyuki e la morte per suicidio della figlia (nel 1955) non sono mostrati direttamente. Quel che sappiamo, dall’inizio della pellicola, è che Deok-hye nei primi anni ’60 è data per “scomparsa”, nessuno si ricorda più di lei in Corea, il fratello malato e la moglie giapponese di costui non sanno dove si trovi e chi continua a cercarla è Kim Jang-han, ora divenuto giornalista. Infine la ricerca di costui ha successo: Deok-hye è ricoverata in un istituto per malati mentali ma non ha dimenticato nulla della propria storia e il desiderio di tornare a casa è in lei vivissimo come sempre. Jang-han ottiene dal governo coreano il permesso tanto anelato e nel 1962 Deok-hye può finalmente rimettere piede nella sua terra natale. (Fu in effetti davvero un giornalista, Kim Eul Hwan, a scoprire dove si trovava e ad adoperarsi per il suo ritorno.)
Il regista Hur Jin-ho ha deciso di fare il film dopo aver visto un documentario sulla principessa in televisione: non riusciva a togliersi dalla mente le riprese che la ritraevano all’aeroporto di Incheon, ove la aspettavano le anziane dame di corte che avevano avuto cura di lei nell’infanzia. 38 anni dopo la sua partenza, le sopravvissute erano tutte lì, in lacrime, a salutare l’amata bimba di un tempo. Riprodotta nella fiction, la scena non perde nulla del suo struggente contenuto umano. Son Ye-jin,
(https://lunanuvola.wordpress.com/2015/07/22/curiosita-estive/)
che interpreta la principessa, è stata magnifica nel rappresentare la ragnatela di emozioni in cui il personaggio è invischiato e da cui è trascinato a sempre maggiori profondità emotive, sino a perdere se stessa: “So quanto è difficile trovare un film che dia tale importanza a un personaggio femminile e si occupi del viaggio della sua vita. Non ho speranze di imbattermi in un altro film come questo per il resto della mia carriera.” Il progetto l’ha appassionata a tal punto che quando la produzione si è trovata in difficoltà finanziarie ha contribuito di suo con un miliardo di won (circa 900.000 dollari).
Il botteghino ha premiato gli sforzi e i critici hanno espresso unanime apprezzamento, definendo “L’ultima principessa” un piacevole cambiamento rispetto ai tipici lavori sull’occupazione giapponese della Corea che “tendono a veicolare messaggi patriottici con mano pesante” e una rarità fra i film storici per la sua capacità di intrattenere e commuovere.
Al cuore della storia c’è la serie di separazioni che Deok-hye è costretta a subire, e ognuna di esse le strappa una parte di senso nel vivere: la morte violenta del padre (avvelenato), una madre che non riuscirà più a riabbracciare, l’esilio forzato dalla sua terra, l’allontanamento coatto della sua dama di compagnia – più una madre/amica che una servitrice – quale “castigo” per aver tentato di fuggire e infine la separazione dalla signoria sul proprio corpo e dall’esercizio della propria volontà con il matrimonio forzato… sembra l’elenco di come distruggere una donna per passi successivi. Nei primi anni ’70, l’ex marito di Deok-hye visitò la Corea e chiese di poterla incontrare: la principessa negò il suo permesso. Per quanto malata potesse essere, aveva almeno riguadagnato la possibilità e il diritto e la volontà di dire NO. Maria G. Di Rienzo