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Il danno è reale

31 agosto 2016 di lunanuvola

eredi corazza

Con questa immagine, anno corrente, la ditta di scarpe Eredi Corazza intendeva pubblicizzare gli stivaletti neri con cerniera prodotti dal marchio Ixos. La scarpa però non è la prima cosa che attrae la nostra attenzione: la modella senza testa è distesa immota a terra, con i pantaloni aperti e abbassati, e ci fa immediatamente pensare che abbia subito violenza, in particolare una violenza sessuale. Poiché ha suscitato una reazione contraria molto forte, soprattutto sui social media, i produttori degli stivaletti si sono dissociati: “Prendiamo fortemente le distanze dalla pubblicazione della fotografia in questione. Vogliamo chiarire che chiunque abbia preso la decisione di pubblicarla lo ha fatto in totale autonomia.” e gli Eredi Corazza hanno cercato di salvare la faccia: “Era un tributo a Boris Bidjan Saberi (???: è un disegnatore di moda maschile, nda.) e prendiamo nota che l’immagine è diventata virale e vogliamo scusarci con tutte le donne che si sentono offese da essa.”

locale il tris

Questa seconda pubblicità di fine agosto riguarda invece un locale in quel di Fano, che pensa di promuovere così la sua serata di apertura. Noterete sulla sinistra il foglio bianco che la denuncia come offensiva. La segretaria provinciale della Cgil Simona Ricci ha inviato al proposito una segnalazione all’Aip – Agenzia italiana pubblicità: “Ci impegniamo tanto, anche nelle scuole, con campagne di sensibilizzazione sulle pari opportunità o con accordi istituzionali specifici. – ha detto alla stampa – Poi però escono immagini di questo tipo e spazzano via tutto il lavoro fatto fino ad oggi.”

Io so che esiste un protocollo firmato nel 2014 dall’Istituto Autodisciplina Pubblicitaria e dall’Anci – Associazione Nazionale Comuni Italiani che parla di tutela della dignità femminile e di rappresentazioni della donna che si accordino ai principi di eguaglianza e parità, ma ho l’impressione che i suoi effetti siano stati sino ad ora piuttosto limitati. Così infatti risponde uno dei gestori del locale: “Non sapevo nulla di queste polemiche. Non mi sembra un’immagine offensiva. Non abbiamo utilizzato l’immagine di una donna nuda. Magari farò maggiore attenzione la prossima volta ma non la ritengo una campagna pubblicitaria offensiva.”

Nel mondo della pubblicità, la narrativa è tesa alla massimizzazione della vendita del prodotto: deve sembrare migliore dei prodotti simili sul mercato e suggerire la felicità e la soddisfazione dell’utenza nell’usarlo, di qualsiasi cosa si tratti. Attualmente, la maggior parte di questa narrativa prevede la presenza di una donna giovane, rispondente ai criteri di scopabilità vigenti, sia come oggetto sessuale sia come creatura sottomessa preoccupata di servire al meglio gli uomini che ha intorno con camicie stirate alla perfezione e case di specchiata pulizia: i pubblicitari sono ancora fermamente convinti che “il sesso vende” e che i lavori domestici siano esclusivo appannaggio femminile. La ricerca (Zimmerman & Dahlberg in primis) ha classificato le categorie principali in cui le donne appaiono nelle pubblicità: si tratta di casalinghe, elementi decorativi, oggetti sessuali, persone dipendenti dagli uomini – sono tutti stereotipi di genere (ovvero i risultati di una falsa credenza per cui il sesso di nascita sarebbe indissolubilmente legato in senso prescrittivo al ruolo da assumere nella società).

Ma in qualunque categoria la donna rappresentata ricada, la cosa più straordinaria è che… si tratta sempre della stessa persona. A meno di non star pubblicizzando colla per dentiere e pannoloni per adulti, la donna è giovane – magra – abbronzata – senza peli – con larghi seni e didietro notevole che sfidano la gravità – gambe lunghissime – vita così stretta che potrebbe “passare in un anello” (Falstaff) – pelle di uniforme lucentezza – capigliatura lussureggiante – lunghe ciglia al mascara che fluttuano sopra occhi enormi e brillanti…

Ai maschi, sin da tenera età, viene detto di desiderare questa donna. Lei è il paginone centrale di Playboy. E’ quella che devono avere per “provare” la loro eccellenza mascolina.

Alle femmine, sin dalla stessa tenera età, viene detto di essere questa donna. Lei è lo standard su cui devono modellare le proprie esistenze. O sono così o sono indesiderabili, inutili, sbagliate.

Ma qui sta il problema: questa donna non esiste. E’ il prodotto di lunghe ore di trucco e di giorni interi di ritocco fotografico. La sua vita non è così stretta, perché nessuna donna di quella taglia può avere la quarta misura di reggiseno a meno di non indossarne uno imbottito o di essersi fatta gonfiare i seni chirurgicamente – e lo stesso vale per le natiche. Ogni donna invecchia, ogni donna ha sulla pelle nei o cicatrici o lentiggini o punture di zanzara, ogni donna ha peli (e superfluo sarai tu), ogni donna ha il suo proprio unico tipo di corpo perché ogni donna è umana. Il modello a cui le è detto di ispirarsi è una creazione industriale con la funzione di vendere prodotti che dovrebbero aiutarla ad avvicinarsi a tale “perfezione”, agli obiettivi impossibili che sono stati fissati per lei. Perché questo è lo scopo principale della pubblicità: creare un bisogno e fornire qualcosa che (anche solo apparentemente) lo soddisfi. Così, molti uomini compreranno la tal marca di birra con l’illusione di avere la donna che la pubblicizza e molte donne compreranno cosmetici, prodotti dietetici e abbronzanti, creme antirughe e anticellulite e antietà e via così.

E’ l’epitome della futilità, perché non si può avere ne’ essere una donna che esiste solo in un file Photoshop. Non si può avere ne’ essere una donna le cui gambe sono state create con l’ultimo software disponibile sul mercato.

Ora, il punto non è se tale faccenda “offenda” o meno la sensibilità mia o altrui, non è una situazione riducibile ai sentimenti delle singole persone, ne’ si misura con i centimetri di pelle esposta (“non abbiamo utilizzato una donna nuda”) perché la sua dimensione è sociale. Il punto, infatti, sono i danni che provoca nelle donne, negli uomini e nelle relazioni fra i due e, per estensione, nell’assetto della società e nei prodotti culturali della stessa. Non si tratta di quel che ne penso io o di teorie femministe o di ipotesi ancora da comprovare. Abbiamo decenni di studi medici, psicologici, sociologici che ci dicono tutti la stessa cosa: l’impatto delle immagini ipersessualizzate e stereotipate delle donne è uno dei fattori che nutre la violenza di genere, si riflette sulle opportunità accessibili ad esse, sulla loro autostima, sulla loro salute; nel mentre, gli uomini apprendono e usano il doppio standard nei loro confronti – non importa cosa le donne sanno fare, se eccellono in un campo qualsiasi, che tipo di personalità e di sensibilità e di intelligenza mostrano, perché l’unica cosa importante è che assomiglino alle figure non realistiche mostrate dalle pubblicità, dai media, dalla televisione e così via.

Ritornando alle due fotografie che aprono questo pezzo è importante sottolineare una cosa: se l’agenzia pubblicitaria non presenta l’opzione sessista al cliente, per il suo annuncio, è difficile che costui la chieda direttamente. Lo prova ad esempio la direttrice pubblicitaria Madonna Badger: nel 2016, l’agenzia Badger & Winters ha preso l’impegno di non oggettificare le donne nei suoi lavori. I principi lungo cui si muove per giudicare un progetto pubblicitario sono le risposte a quattro semplici domande:

La donna non ha voce o scelta in questa situazione?

E’ ridotta a una parte del corpo sessualmente “provocante”?

L’immagine è manipolata al punto che l’aspetto presentato non è umanamente raggiungibile?

Saresti a tuo agio nel vedere tua sorella, la tua migliore amica o te stessa/o in tale immagine?

Se la risposta a una delle prime tre domande è “sì”, il progetto viene scartato.

“Il nostro compito è produrre lavori grandemente creativi che non oggettificano nessuno, ne’ maschi ne’ femmine. Ascoltare le donne è quel che ci ha portati a tale decisione e vogliamo passare il messaggio a tutti, professionisti del settore e consumatori. Perché il danno che l’oggettificazione provoca si basa su dati reali.”

Maria G. Di Rienzo

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