E’ incredibile quanto si può imparare grazie all’odierno giornalismo nostrano. Prendete L’Espresso e il suo indimenticabile articolo di oggi 19 agosto 2016, dal titolo “Boldrini, perché ce l’hanno tutti con lei”.
Innanzitutto, le argomentazioni (“Vi spieghiamo perché”, si dice nell’occhiello) sono nuovissime, sconvolgenti e mai sentite prima: la Presidente della Camera è “dolente e patinata” con “il tono da soprano nervosa”, “l’atteggiamento da maestrina (…) con il ditino alzato” e “folte sopracciglia (che) si toccano in segno di disapprovazione”, “fa uso seriale dello strumento del lamento” e in fin dei conti l’odio se lo tira addosso.
Infarcire il testo di pietas, Medea, tricoteuses, Lapierre, gauche caviar e radical chic, purtroppo non rende la tesi diversa da quella urlata in modo meno spocchioso e più volgare sul web: “sacco di merda piena di soldi chi cazzo si crede di essere ecc.”, mostra però una volta di più quanto sia inutile buttare a caso citazioni colte e paragoni forbiti nel tentativo di renderla autorevole.
La seconda cosa che si apprende è che l’Unesco – per fare UN SOLO esempio – sta sbagliando tutto almeno dal 1999, quando pubblicò “Guidelines on Gender-Neutral Language” – “Linee guida sul linguaggio neutro al genere” di Annie Desprez-Bouanchaud, Janet Doolaege, Lydia Ruprecht e Breda Pavlic, sollecitata da più di un decennio dalle nazioni nordiche ad affrontare il problema del linguaggio sessista. A pagina 4 si legge: “Se le parole e il linguaggio lasciano dedurre che le donne sono inferiori, l’assunto della (loro) inferiorità può esistere.”
Adesso leggete invece questo brano sublime (e un po’ incerto in italiano: “probabilmente è solo sia” ???) dell’articolo in questione: “Il problema è il Parlamento, le risse, i dispetti, le bagarre, i battibecchi con lei e con “loro”, in primis gli onorevoli grillini, suoi personal trainer nel metterla alla berlina trascinando il popolo del web. «Azioni eversive» le ha chiamate in tournée nei talk show. Soprattutto «sessiste», offesa più infamante di tutte per una che si batte per la condizione femminile e per la «vita che ha più di un genere», tanto da non resistere e cadere nella trappola del dispetto. Quando, per esempio l’onorevole leghista Paolo Grimoldi calca l’ironia nel chiamarla «signor presidente», Boldrini che vuole essere chiamata «signora presidente» che fa? Gli risponde acida: «Grazie deputata» E se non gli mostra la lingua come all’asilo probabilmente è solo sia per la dimenticanza di una così antica pratica.”
Lasciando perdere i personal trainer che dovrebbero essere quelli che ti insegnano qualcosa in esclusiva o quasi, non quelli che ti coprono di insulti e incitano altri a imitarli, le offese sessiste che le donne ricevono (tutte, in misure e modi che variano) non sono infamanti per le donne stesse, ma per i diversamente cerebrati che se ne riempiono la bocca e gli slippini. O L’Espresso crede che dare della puttana in modo ossessivo a Laura Boldrini, minacciarla di stupro, inviarle montaggi fotografici con la sua immagine smembrata, coperta di escrementi e di lividi, violata eccetera siano cose che lasciano su di lei un marchio di infamia?
Venendo al dunque: perché Boldrini vuol essere chiamata “signora presidente”? Perché a differenza di chi ha scritto il pezzo – gasandosi al punto che ogni “maestrina” scompare nel confronto con tale aulica e tronfissima penna – sa che la sessuazione del linguaggio è una condizione irrinunciabile del lavoro in corso per raggiungere l’uguaglianza di genere.
Il linguaggio è potente in primo luogo perché dà forma ai nostri pensieri. Sin dall’infanzia le donne fanno esperienza dell’essere ingolfate in una cascata di parole, locuzioni, modi di dire, raffigurazioni che hanno il maschio come “giusta misura predefinita”, termine di default e portale d’accesso. Per fare un esempio, quando si usa “uomo” per intendere “tutti” le donne sono completamente escluse e cancellate: rimando L’Espresso a fare da sé le ricerche del caso (ci sono almeno trenta/quaranta anni di studi al proposito, molti dei quali rintracciabili online), ma sappia intanto la redazione che il condizionamento di genere effettuato tramite (anche) il linguaggio influenza e limita le scelte e le opzioni a disposizione delle donne. Quando gli uomini sono stabiliti come “norma”, le donne non possono che essere trattate come devianti dalla norma stessa. Perciò, dire “signora presidente” è necessario perché implica per chi ascolta che a presiedere non deve essere per forza un maschio. E rispondere con “Grazie deputata” alla scortesia di un sessista ignorante non è acidità, è il mostrargli come ci si sente in una situazione rovesciata: lo consigliano tutti/e i/le trainer, questa volta veri, che addestrano personale delle Nazioni Unite, volontari/e delle ong, gruppi per il cambiamento sociale a inserire nei loro parametri l’analisi di genere.
“La questione va al di là dei tecnicismi (….) Ha effetto su quanto empatica la nostra società può essere verso chi viene descritto. Contribuisce alla stereotipizzazione e alla denigrazione di interi gruppi che sono asfaltati, spazzati via con un singolo colpo di scopa. (…) Lasciare le donne fuori dalla Storia non è una semplice svista. E’ la conseguenza di un mondo che dice loro che non sono abbastanza importanti. Che i loro risultati non contano veramente. Significa che, persino nel 2016, alcune di noi devono ancora ricordare agli altri che anche le donne sono persone.” Laura Bates, fondatrice di “Everyday Sexism”, giornalista, 2 agosto 2016.
Per chiudere in bellezza l’articolo de L’Espresso dà alla Presidente della Camera consigli d’immagine e di stile: prenda come modello quella perla di Irene Pivetti, dice in sintesi, che l’ha preceduta nella carica. Ma credo difficile per Laura Boldrini dire di profughi superstiti a un affondamento (1) “Buttateli a mare, che si raffreschino le idee”, come Pivetti fece; tra l’altro, a riportare questa notizia è lo stesso editore di riferimento che ora la indica come preclaro esempio: “Il naufragio degli albanesi e la giornalista Pivetti”, La Repubblica, 1º aprile 2007.
Maria G. Di Rienzo
(1) Era la barca albanese “Katër i Radës”, speronata da una corvetta italiana il 28 marzo 1997: 108 profughi persero la vita in quell’occasione.