Ogni statistica o rapporto recenti che sono riuscita a scorrere questo dicono: in Italia le denunce di violenza subita fatte dalle donne aumentano, le loro richieste d’aiuto ai centri antiviolenza aumentano, la fascia d’età in cui le donne cercano di uscire dalla violenza si abbassa (per cui, almeno in apparenza, reagiscono prima alla situazione in cui si trovano). Quindi, l’incoraggiamento che i media fanno in coro dopo ogni femicidio, caso clamoroso di violenza domestica, abuso di bambini, e cioè “Denunciate, non tacete, parlate subito” in qualche modo deve aver funzionato, giusto? E’ chiaro che sono fattori multipli – sociali, economici, legali, politici ecc. – a determinare la possibilità per le vittime di violenza di perseguire la stessa, ma facciamo finta per un attimo che le donne stiano parlando di più perché giornalisti, psicologi, avvocati e compagnia cantante hanno assicurato loro che se lo fanno saranno prese sul serio. (Purtroppo non è vero, a tutt’oggi, parlatene pure con qualsiasi sopravvissuta a vostra scelta.)
Il coro dovrebbe a questo punto dare inizio ad altre performance: 1) l’incoraggiamento ai perpetratori – in schiacciante maggioranza uomini – ad abbandonare la violenza, id est lo svilimento delle donne, l’oggettificazione delle donne, lo svergognamento delle donne, la ridicolizzazione delle donne, la sessualizzazione coatta delle donne, eccetera eccetera che ne sono i pilastri; 2) l’incoraggiamento alla società nel suo complesso a riconoscere la propria responsabilità culturale collettiva: perciò basta con il dare alle vittime la responsabilità del prevenire gli abusi; basta con la solfa del raptus (la violenza come evento isolato perpetrato da un individuo “non in sé”); basta con l’assoluzione dei perpetratori (abbandonati, disoccupati, stressati) perché essa insegna a costoro che i loro comportamenti sono accettabili; basta con la colpevolizzazione delle donne perché le cause della violenza di genere non stanno in come socializziamo le femmine, ma in come socializziamo i maschi; 3) l’incoraggiamento alla sfera politica – dal livello delle amministrazioni locali a quello del governo nazionale – e alla sfera giudiziaria ad aprire una discussione seria sulla violenza contro le donne in Italia e a raccogliere testimonianze, suggerimenti e metodologie da femministe e attiviste antiviolenza, perché la politica ha il dovere di intervenire per proteggere le sue cittadine in modo informato ed efficace e la magistratura non può più rendersi ridicola ma soprattutto complice con sentenze che dicono più o meno “va bene abusare di una donna se lei non si lamenta”. Solo per chiarezza: alle donne che vivono situazioni di abuso domestico l’abuso non va mai bene, si trovano in una relazione violenta in cui le loro scelte e la loro sicurezza decrescono in sincronia giorno dopo giorno. Per queste donne ribellarsi può significare maggiore violenza, rappresaglie contro figli o altre creature che amano o persino la morte e loro lo sanno.
In altre parole, sarebbe necessario ammettessero: che la violenza contro donne e bambine/i è commessa in stragrande e schiacciante maggioranza da uomini; che anche quando sono uomini le vittime di violenza domestica chi abusa di loro sono in stragrande e schiacciante maggioranza altri uomini; che non c’è bisogno di strillare a ogni nuovo episodio di brutalità che non tutti gli uomini sono violenti e che anche le donne possono esserlo, perché lo sappiamo e perché non serve a un piffero e c’entra ancora meno; che tutti gli uomini, violenti o no, profittano – lo vogliano o no – di un sistema in cui le donne sono svergognate e punite di routine se “sgarrano” dai ruoli di genere loro prescritti; che uno dei fattori trainanti della violenza contro le donne è il silenzio dei maschi e non delle femmine, di quegli uomini, cioè, che non contrastano i loro pari quando costoro minimizzano, razionalizzano, scusano o glorificano quella stessa violenza; che nella cultura in cui viviamo sulla violenza contro le donne si ride e si scherza normalizzandola (e quando qualcuna di noi insorge non è perché non ha il senso dell’umorismo, ma perché la violenza non fa ridere chi la prova sulla propria pelle); che molti programmi televisivi, molti videogiochi e parecchio cinema considerano intrattenimento lo stupro, la tortura e l’omicidio di donne; che le molestie nei luoghi pubblici possono continuare perché gli uomini non sono ritenuti responsabili di quel che fanno e se chiamati a risponderne gettano il biasimo sul loro bersaglio dichiarando che lei “sta esagerando” o “se l’è presa per niente”: difatti è solo divertente essere intrappolata su un autobus o un treno con accanto un idiota che pensa di essere legittimato a far di te il suo passatempo e che se ti sottrai a questo suo intento ti chiamerà puttana, brutta, fica di legno o addirittura ti tirerà un pugno in faccia.
E quindi sì, parlare va benissimo – ma parliamo sul serio, per piacere, conoscendo l’argomento e senza nasconderci i nodi spiacevoli che altrimenti non si scioglieranno mai. Per spiegarmi meglio torno un attimo sulla vittima di femminicidio n. 55 del 2016 in Italia, Sara Di Pietrantonio: nessuno dei reportage sulla stampa nazionale che io ho letto (parecchi, ovviamente non tutti) dà i particolari presenti in quelli della stampa estera: per esempio, che quando Paduano è entrato nell’auto di lei ha tentato di forzarla prima a baciarlo e poi a praticargli una fellatio – dio, quanto era sconvolto dall’essere stato lasciato!!! – e che uno dei due automobilisti passati di là durante l’accaduto l’ha visto correre dietro la sua vittima con i pantaloni ancora aperti. Nella narrazione consueta della violenza di genere praticata dal nostro giornalismo, in cui l’assassino di donne è un uomo obnubilato dalla sofferenza che cerca vendetta per i “torti” subiti, questi particolari probabilmente non s’incastravano bene: perché lo rivelano come del tutto in grado di intendere e volere, nonché di accoppiare felicemente sesso e violenza senza percepire contraddizione alcuna. Di fatto, l’accoppiata è da anni insegnata e propagandata e consigliata in Italia tramite ogni media a disposizione. Anche di questo è urgente discutere. Maria G. Di Rienzo