“Tramite l’arte, la musica punk e i video, noi cerchiamo di affrontare la violenza sciovinista socialmente legittimata. Noi siamo “Le figlie della violenza”, ci portiamo dietro anni di cammino attraverso spazi pubblici ostili che non hanno posto per il corpo di una donna come corpo che circola, ma solo come una fonte di godimento e voluttà per altri.”
Il gruppo femminista messicano che così attesta è composto dalle giovani Ana Karen, Ana Beatriz, Elisa Gutiérrez,Verónica Bravo, Betzabeth Torres e Patricia Rodríguez, che hanno deciso di rispondere alle molestie in strada sparando simbolicamente coriandoli contro i loro aggressori e cantando una loro canzone composta al proposito, “Sexista Punk”:
Quello che mi hai fatto / si chiama molestia. / Se tu mi fai questo / così io rispondo. / Tu non hai il diritto e quel che fai è tipico di un balordo.
Io immagino il giorno quando potrò camminare / senza dovermi preoccupare, senza dover nascondere il mio corpo. / Sessista, sciovinista, cos’è che vuoi? / Dimostrare la tua mascolinità? Ma va’ a farti fottere!
(Queste sono solo due strofe, il testo è più lungo.)
Fare ciò, spiegano le giovani artiste, permette a una donna che subisce molestie di “rispondere in modo divertente, così che la sensazione di violenza che ha appena attraversato non resti in lei, così che possa andare per la sua strada sapendo di poter ancora avere una giornata stupenda”. Un’altra delle loro motivazioni è che sono arcistufe dello scenario in cui è di solito discussa la violenza sessuale e che dipinge le donne come fragili e deboli vittime predestinate, creature in panico senz’altra possibilità che non sia quella di arrendersi al loro aggressore.
Quindi, quando “Le figlie della violenza” camminano per strada, il primo giovanotto che le apostrofa o le tocca sarà inseguito, colpito da una scarica di coriandoli e informato che le sue azioni si chiamano molestie sessuali. Le giovani invitano inoltre ogni donna a unirsi a loro, perché essere – come in qualche modo tutte purtroppo siamo – “figlie della violenza” non significa accettarla o adattarsi a essa. Maria G. Di Rienzo