(“Love in the Time of Climate Change” – “L’amore ai tempi del cambiamento climatico”, di Jocelyn Macdonald, settembre 2015. Trad. Maria G. Di Rienzo.)
Abbiamo fatto tutte le cose giuste. Tu hai smesso di mangiare carne. Io sono andata in bicicletta.
Qualsiasi cosa per poter rallentare l’innalzamento dei mari, la morte delle api, la corrente elettrica delle malattie che si propagano.
In questo modo i nostri corpi dovevano restare sincronizzati, il modo in cui le tue spalle anticipavano le mie anche, la tua gola, le mie costole,
come se questo avesse potuto rallentare il panico mondiale rispetto all’Oscurità in arrivo, l’eterno impantanarsi delle automobili, le innumerevoli periferie sotto stelle retrograde.
C’era questa sensazione dell’uscire nel traffico, prendersi dei rischi, guardare in faccia lo stato povertà-e-polizia e dire: se avessi saputo prima che era questo quel che intendevate con “tutti moriamo da soli” avrei fatto sommosse prima.
E sapendo che avevamo bisogno di guadagnare un po’ di tempo, di pagare l’affitto, di seguire di sbieco i nostri sogni, abbiamo preso dello spazio. Tu organizzavi, tu occupavi – io ho navigato lungo un fiume marrone, inquinato e tassato, mezza morta di fame, mezza pazza, Giovanni-battista-semedimela, e ovunque andassi piantavo un migliaio di alberi e predicavo:
la cattiva novella che il presente indicativo è tutto ciò che abbiamo, e la buona novella che ogni attimo rimasto è nostro.
Tre-gradi-e-mezzo più tardi, la Terra va avanti, il sole splende ancora, e un giorno, molto dopo le inondazioni delle città, i discendenti dei delfini ci troveranno stretti insieme,
come quelle coppie pompeiane a cui la cenere ha fatto da sarcofago, ci troveranno, mentre amoreggiamo avvinghiati, seppelliti nella nostra spazzatura come in una tomba.