(“A Strange Man Yelled Something Vulgar In My Face And It Was A Breakthrough Moment”, di Jamia Wilson, 20 marzo 2014, trad. Maria G. Di Rienzo. Jamia Wilson è un’attivista femminista, giornalista e scrittrice.)
Ho imparato cosa sono le molestie in strada quando avevo sei anni. Durante questa prima volta stavo camminando con la mia mamma attraverso un cantiere polveroso; eravamo dirette a casa dall’albergo Al-Khozama a Riyadh. Era il 1986 ed abitavamo in Arabia Saudita da ormai parecchi mesi. Mentre aspettavamo che ci installassero la linea telefonica, usavamo il telefono dell’hotel ogni settimana per chiamare i parenti nelle Caroline.
Mentre camminavamo lungo Olaya Street, io chiacchieravo della mia ricerca della stella polare. Ero ossessionata dal trovarla ovunque quando eravamo all’aperto di notte. Quando girammo un angolo, un uomo dalla pelle chiara, capelli rossi e occhi verdi, si mise a camminare con noi e batté la mano sulla spalla di mia madre.
“Habibti”, canticchiò in quello che avevo imparato a riconoscere come accento siriano. Non capivo perché questo estraneo chiamasse la mia mamma “tesoro”. Non la conosceva.
Mia madre annaspò, mi strinse più vicina, e disse “Emshi” (“Vattene”) prima di affrettare il proprio passo. Mentre andavamo veloci lungo la strada udivo i passi dell’uomo alle nostre spalle. Quando ci raggiunse, ci bloccò il passaggio. E in un inglese fortemente accentato e lagnoso disse: “Sei così bella, posso conoscerti? Devo sapere il tuo nome e il tuo numero di telefono.”
Mia madre lo fulminò con lo sguardo e rispose: “Lascia in pace me e la mia bambina.” Scornato, l’uomo cominciò a maledirci. Le sole parole che riuscii a tradurre erano quelle che significavano “negra” e “cagna”.
Mentre mia madre mi spingeva in casa, le chiesi perché aveva agito così, quando quell’uomo voleva semplicemente “conoscerla”, perché mi aveva stretto la mano così forte, quando l’uomo si era presentato a noi con parole gentili. Sorridendo della mia ingenuità, mia madre spiegò che l’uomo intendeva conoscerla “in senso biblico” e che, tristemente, c’erano uomini al mondo che non sapevano rispettare le donne come faceva papà.
Più tardi, la sentii raccontare la storia a mio padre. Oltraggiata dal fatto che l’uomo fosse stato così cafone da far proposte a una donna con una figlia, gli disse quanto spaventoso era essere pedinate. La mamma parlò di grandi concetti che ancora non capivo, come il razzismo e gli stereotipi sulle donne americane, percepite come “facili” – in special modo quelle nere come noi.
Mia madre era stata un’attivista per i diritti civili negli anni ’60, e aveva sopportato abusi verbali e fisici dovuti al suo lottare per se stessa e per la sua comunità. Eravamo a 7.000 miglia da casa e lei lamentò il fatto che “camminare essendo donna e nera” ancora desse come risultato delle molestie.
Vent’anni più tardi, ho avuto un flashback della sera in cui la mamma fu molestata, subito dopo essere stata molestata io stessa accanto al Parco di Washington Square Park. Poiché studiavo all’Università di New York, passavo dal parco regolarmente. Felice perché stavo finendo il semestre passeggiai nel parco, immergendomi nella luce solare prima di chiudermi a studiare in biblioteca per gli esami. A poca distanza da me, era fermo un uomo biondo sulla quarantina, in giacca e cravatta. Quando gli passai accanto, mi salutò con un calmo “Ciao”. E quando io alzai la testa urlò: “Voglio mangiarti la passera!” La mia faccia si contorse mentre lui scoppiava a ridere. Mi prese in giro dicendolo a voce ancora più alta, poi alzò due dita tenute a “V” e mosse la lingua avanti e indietro al loro interno.
Disgustata, guardai i passanti allontanarsi in silenzio. Scoppiai in lacrime, mente l’uomo continuava a dire cose volgari del mio corpo e della mia pelle. La familiarità del suo sguardo che mi minimizzava mi ricordò di aver testimoniato le molestie a mia madre in giovane età. Mentre piangevo, passai in rassegna tutte le mie esperienze: dalle grida di “nera e bella” e “zucchero scuro” al vedere masturbazioni in pubblico da adolescente, in Arabia Saudita prima e in Italia poi, come studente delle superiori – avevo avuto abbastanza dimostrazioni degradanti di molestie e intimidazioni.
Desideravo in modo spasmodico trasferire i miei sentimenti di vergogna e umiliazione al perpetratore che li meritava. Avevo già partecipato a dimostrazioni contro la violenza, ma la mia esperienza nel parco fu un momento chiave. Sapevo che avrei fatto parte del movimento anti-molestie in modo più profondo, per me e per la mia mamma, e per chiunque fosse stato preso a bersaglio per la sua etnia, genere, abilità, sessualità, taglia, classe sociale, identità. Da quel giorno condivido le mie storie, denuncio le molestie e rimbecco i perpetratori.
Per me, le molestie in strada sono l’esempio concreto delle persone con privilegi e potere che tentano di “tenermi al mio posto”, rendendomi “esotica” o minando la mia presenza in uno spazio pubblico. Dalla mia infanzia al presente, queste attestazioni di non rispetto sono andate dall’uomo che si è sentito in diritto di prendermi le treccine in metropolitana, perché era “curioso”, al recente essere chiamata “Miss Negra” da un uomo bianco di Oakland. Le molestie restano un problema culturale pervasivo e non c’è comunità che ne sia immune. Sento spesso perpetuare il mito, e mi disturba, degli uomini di colore come più frequentemente colpevoli di molestie. La mia esperienza personale con i molestatori di varie razze e lo studio delle mappe relative alle molestie dicono che esse attraversano le linee socioeconomiche ed etniche.
Le molestie in strada sono state un fattore frustrante della mia vita in qualsiasi luogo io l’abbia vissuta, dall’Arabia Saudita a New York, da Baltimora all’Italia, e questo è inaccettabile. Sono decisa a riprendermi le strade e a cambiare la narrativa sulle molestie in strada, perché voglio vivere in un mondo in cui essere nera e donna non siano svantaggi.