(“My birth story, a motivation for my devotion to reproductive and maternal Health Education in Africa!” di Glory M. Lueong per World Pulse, 11 ottobre 2013, trad. Maria G. Di Rienzo. Glory è fondatrice e presidente del Centro donne rurali per l’istruzione e lo sviluppo nella regione camerunese del nordovest: “La nostra visione è quella di comunità rurali in cui ragazze, donne, bambini e bambine orfani della madre dalla nascita, possano esercitare i loro diritti e accedere alle risorse necessarie per vivere una vita dignitosa e soddisfacente.” )
“Vieni dentro.”, lei disse, “Vieni a vedere me e la bambina prima che io muoia. Se credi veramente che sia tua figlia, vieni a vedere entrambe. Se muoio, per favore, risposati ma prenditi buona cura di lei.”
Queste furono le parole di mia madre a mio padre all’atto della mia nascita. Mentre racconto questa storia, il mio cuore sanguina e immagino ciò che lei ha passato, e come si è sentita. Mi chiedo cosa la vita avrebbe significato e come sarebbe stata per me, senza di lei.
Quella domenica pomeriggio del 25 di luglio, in Camerun, lei andò in travaglio nel sobborgo rurale dove viveva. Mio padre la portò di corsa all’unica clinica privata presente, dove io di colpo saltai fuori alle 19.17 della sera.
La placenta restò in lei. Mentre le infermiere si indaffaravano a farla uscire, lei continuava a sanguinare e la situazione diventò un’emergenza. Sfortunatamente, com’è nella maggior parte dei sobborghi rurali, la clinica non aveva – e non ha ancora – un medico. Perciò, dopo le prime due ore di questo ritardo, mio padre si preoccupò e corse follemente dappertutto in cerca d’aiuto.
Durante questa sua ricerca, alcuni anziani e leader tradizionali del vicinato si fecero avanti e dissero: “Non andarle vicino e non andare a vederla. Se lo fai morirà. E’ stata infedele all’impegno matrimoniale che ha preso con te. Il fatto che la placenta tarda ad uscire è perché la donna ha preso cibo da te e lo ha mangiato mentre era incinta, ma è stata infedele. Vai a casa e tutto andrà bene per lei.”
Mentre argomentavano ed insistevano con mio padre affinché se ne andasse a casa, mia madre, sofferente in quella stanza, captò la discussione e urlò: “Vieni dentro. Vieni a vedere me e la bambina prima che io muoia…” Lui insisté con le infermiere perché lo facessero entrare. Quando lo fece, lei lo guardò negli occhi e disse: “Se muoio, muoio. Ma questa bambina è tua.” Dopo di che, non riuscì più a parlare. La placenta era sempre dentro di lei. Il mio confuso papà, allora, cercò in fretta un’auto per trasferirla al più vicino centro semi-urbano, ma era ormai notte e non ce n’era alcuna disponibile.
Il capo del sobborgo gli offrì la sua e mio padre fece benzina e poi portò di corsa me, un’infermiera e la mia mamma in un ospedale della sua città natale. Era ormai l’una del giorno dopo e la situazione di mia madre era disperata. Tre medici si occuparono di lei e fecero del loro meglio fino a che la placenta uscì alle 4.30. Subito dopo, mia madre andò in coma per tre giorni.
L’infermiera anziana, la signora Veronique Ndogmo, si prese cura di me in modo eccellente, incoraggiando nel contempo mio padre e dicendogli che tutto sarebbe andato bene. Il quarto giorno, mamma cominciò ad uscire dal coma, ma si ammalò e dovette restare all’ospedale per cinque settimane, per un totale di 80 iniezioni eccetera. La signora Veronique continuò ad occuparsi di me sino a quando ebbi due mesi e mia madre poté infine toccarmi e giocare con me. Quando vide com’era luminoso il mio viso, a due mesi, mi diede il nome di Glory, per marcare la vittoria che aveva conseguito nella battaglia fra la vita e la morte, in quella stanza.
Mio padre rimase al suo fianco, si curò di lei, chiuse le orecchie alle credenze tradizionali, e mia madre si era nutrita bene durante la gravidanza e aveva anche avuto cure prenatali, perciò… ce l’abbiamo fatta.