Le immagini che vedete sono parte di “Save our sisters” (“Salvate le nostre sorelle”), un progetto della sezione indiana di Save the children http://www.savethechildrenindia.org/ e dell’agenzia Taproot. Ognuna di esse ricrea scene da antichi dipinti delle dee dell’India e le raffigura come vittime di violenza.
“Preghiamo di non vedere mai questo giorno. – recita il testo che accompagna le “dee ferite” – Oggi, più del 68% delle donne, in India, sono vittime di violenza domestica. Domani, nessuna donna potrebbe essere più risparmiata. Nemmeno quelle a cui indirizziamo le nostre preghiere.” Gli ideatori della campagna hanno fatto questa scelta, dicono, perché essa sottolinea la più pericolosa contraddizione dell’India: la devozione e la reverenza per figure di donne nella religione e nella mitologia, mentre per le cittadine in carne ed ossa l’intera nazione è troppo spesso un “luogo non sicuro”. Si stima che circa 100 milioni di donne e bambine indiane siano coinvolte come merci nell’industria del traffico di esseri umani e l’anno scorso, nel paese, sono stati denunciati 244.270 crimini contro le donne.
Personalmente sono riluttante a raffigurare il dolore delle donne nelle campagne antiviolenza, perché esso rischia di risultare “normalizzato” e perché preferirei le campagne fossero concentrate sui perpetratori: voglio dire, so già com’è una donna picchiata, so quanto si vergogna del male che le viene fatto, e vorrei invece svergognare chi glielo fa. Ma può darsi che un approccio del genere funzioni per l’India dove almeno, come detto sopra, ci sono donne riverite in ambito religioso e mitologico. In Italia, forse, di equivalente c’è solo la Madonna. Il nostro popolo non conosce nulla di metà della sua storia, delle dee che ha venerato e della posizione sociale delle donne prima del patriarcato. Per cui credo che anche se mostrassimo loro Maria di Nazareth con un occhio nero, ne ricaveremmo solo gli strilli di qualche bigotto per gli “insulti” alla sua religione. Maria G. Di Rienzo