A lei i media si riferiscono come al “caso Belén”. Ha 11 anni. E’ cilena, vive in una remota cittadina del sud, Puerto Montt. Frequenta la quinta elementare. E’ anche incinta (14^ settimana di gravidanza): il compagno di sua madre ha ammesso con la polizia di aver cominciato a stuprarla quando di anni ne aveva 9.
I medici attestano che la gravidanza rischia di ucciderla, ma la bambina non può abortire: l’interruzione di gravidanza, in Cile, è diventata totalmente illegale, anche per ragioni mediche, nel 1973 per gentile intercessione del generale Augusto Pinochet (un uomo notoriamente devoto alla sacralità della vita). L’attuale presidente Sebastian Pinera si è opposto ad ogni emendamento della proibizione; solo l’anno scorso il senato cileno ha respinto tre progetti di legge in materia: uno di essi avrebbe permesso l’aborto in caso di rischio per la vita della donna, e un altro anche nei casi di stupro. Ma purtroppo per “Belén”, dall’altra parte della bilancia su cui si pesa la sua esistenza sta la chiesa cattolica con tutta la sua influenza politica, anche se la sua credibilità è andata un po’ scemando dal 2010, quando alcuni dei reverendi più stimati del paese sono stati riconosciuti colpevoli di abusi sessuali su ragazzini la cui età andava dai 14 ai 17 anni.
D’altronde, dicono gli opinionisti, il Cile è lento nei suoi cambiamenti. Ha permesso il divorzio nel 2004. Una legge antidiscriminazione è rimasta bloccata per sette anni ed è passata solo nel 2012, quando un uomo gay è stato picchiato a morte dai suoi assalitori, che hanno anche inciso svastiche sul suo cadavere. Probabilmente, quando la bimba sarà cadavere, modificheranno anche la legislazione sull’aborto. Ma la “lentezza” riguarda solo l’élite al potere: la società civile sta invece rispondendo alla vicenda velocemente e senza ambiguità. I cileni vorrebbero fosse salvata la vita di una bambina che ha già sofferto troppo. Non mi sembra una richiesta così assurda, signor presidente Pinera, è assurdo essere ancora costrette/i a farla. Maria G. Di Rienzo