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Sul perdono

28 Maggio 2013 di lunanuvola

Non vorrei essere noiosa, ma c’è qualcosa che non capisco. Torniamo all’omicidio di Fabiana Luzzi. Nei primi articoli, ora scomparsi, la frase “Anche lui è una vittima” riferita all’assassino viene attribuita all’arcivescovo Marcianò. Successivamente diventa della madre della ragazza uccisa. E svanisce nell’oblio anche la descrizione dell’attitudine tenuta dall’assassino durante gli interrogatori: nessuna emozione, nessuna richiesta di perdono, nessun ripensamento, solo la reiterata richiesta di smettere di fargli domande: “Sono stanco, voglio andare a dormire.” I familiari del ragazzo, Davide, ci tengono a far sapere che “ha ottimi voti a scuola, tanto che è il migliore della classe, è incensurato e non ha mai avuto a che fare con la giustizia”. Non so altro di questa persona, ma dubito che l’arcivescovo ne sappia molto di più, dunque: quali sono il “problema educativo” e il “profondo disagio del ragazzo” che lui sottolinea? E’ il migliore della classe – ma forse sarebbe meglio dire “era”, perché verosimilmente in quella classe non ci tornerà più. Mai avuto a che fare con la giustizia. Ha solo reagito, in modo del tutto comprensibile perbacco, quando la ragazza gli ha rifiutato un rapporto sessuale e l’ha uccisa, ricordo, accoltellandola (tutti i primi della classe hanno un coltello in tasca, fa credito formativo) e dandole fuoco mentre era ancora viva. Di cosa è vittima questo giovane esemplare, visto che il cadavere non è il suo? Forse l’arcivescovo ha parlato un po’ a braccio, forse i giornalisti l’hanno frainteso, forse intendeva: quel che il ragazzo ha fatto è un prodotto della cultura dominante, una cultura che degrada le donne mettendole ad un livello di valore inferiore a quello della carta igienica, per cui “il discorso della rieducazione a 360 gradi che va affrontato quando sarà passato il momento del dolore” si riferisce alla prossima campagna contro la violenza di genere che l’arcivescovo e la diocesi e i fedeli tutti intendono proporre. Forse no. La chiesa di cui il presule fa parte ha la sua bella fetta di responsabilità in merito. Non è tanto che un collega dell’arcivescovo ha affisso pubblicamente una vergognosa sequela di idiozie per dire, in sintesi, che quando una donna viene stuprata e uccisa è perché se lo va a cercare. E non è stato rimosso dall’incarico. E nessuno ha chiesto scusa alle vittime di violenza, sopravvissute e non. E non entro nel contesto storico elencando la lunghissima serie di nefaste classificazioni e prescrizioni adottate dalla chiesa cattolica nei confronti delle donne, perché altrimenti facciamo notte. Voglio solo dire un’ultima cosa, sul perdono.

L’arcivescovo dovrebbe saperlo meglio di me: il perdono, individualmente parlando, è una grazia. Non può essere deciso a tavolino, non può essere imposto, non può essere nemmeno “suscitato” incitando alla comprensione. Io non mi sono fatta giustizia da sola per nessuno dei torti che ho subito, non ne ho neppure mai avuto il desiderio, e ho riflettuto per anni sulle ragioni che avevano indotto una persona o l’altra a compiere determinate azioni. Al posto delle ferite sono comparse le cicatrici, stanno là, e io non ho voglia di infliggere il dente per dente o l’occhio per l’occhio a chicchessia. Ma non ho perdonato nessuno. Questa grazia non mi è ancora arrivata. Credo sia perché nessuno mi ha chiesto di essere perdonato. Pazientate, lo so anch’io che si perdona per sé, e non per gli altri. Il problema è che chi avrebbe dovuto chiedere perdono non lo ha fatto perché non riteneva di aver sbagliato: per cui, avrebbe inflitto ad altre persone lo stesso trattamento sino alla fine naturale dei suoi giorni o all’improbabile “illuminazione” garantitagli da uno spirito santo qualsiasi. E’ con questo che io non posso venire a patti. E’ questo che non posso perdonare. Riesco a maneggiare e razionalizzare il mio dolore, ma sapere che del dolore altrui avrebbe potuto essere evitato e non lo è stato per ostinazione, per stupidità, per tornaconto, per ipocrisia, per ferocia ideologica, mi distrugge. Quando qualcuno dice al mio aggressore, o a un aggressore qualsiasi, o a un assassino qualsiasi, che anche lui è una vittima, gli sta confermando di non avere nessuna responsabilità per le sue azioni, di non aver sbagliato in prima persona: un’attitudine, e ve lo dico professionalmente, da formatrice, che non spegne la violenza, la alimenta. Per cui, non posso perdonare nemmeno gli arcivescovi o le mamme, quando la adottano. Maria G. Di Rienzo

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