(di Sonia Randhawa per GenderIT – www.genderit.org – trad. Maria G. Di Rienzo. Sonia Randhawa dirige il Centro per il giornalismo indipendente in Malesia, e si sta laureando in storia del diritto all’Università di Melbourne, Australia, con una tesi sul ruolo delle donne nel giornalismo malese degli anni ’90.)
Stanotte, mentre riflettevo scorrendo questo blog (GenderIT), la mia bambina di tre anni si è offerta di aiutarmi.
“Non è facile.”, l’ho avvisata, “Vedi, c’era questo uomo che fece male ad una donna. Le fece davvero molto male e le disse che, se non stava zitta, l’avrebbe ferita ancora. Ma lei non restò in silenzio e raccontò ad altre persone la sua storia.”
“E’ stata coraggiosa, vero?”
“Sì. Ma il problema è che se io racconto ad altra gente ancora la sua storia quell’uomo potrebbe di nuovo farle del male, molto di più. Per cui non so se raccontarla o no, ma se non lo faccio lei non può più dirla.”
“Dovresti proprio raccontare la sua storia, mamma.”
E mia figlia ha ragione. La storia di una donna che si oppone ad un uomo che le stava facendo del male deve essere narrata, perché è così difficile per le donne ferite, le donne che stanno subendo violenza, parlare apertamente e raccontare le loro storie, le nostre storie. Non ci sono molti spazi, in alcune società meno di altre, per raccontare queste storie.
Ma nel mondo che sta fuori la cameretta di mia figlia, ci sono ripercussioni nel raccontare queste storie, ripercussioni che possono cadere sulla narratrice, sullo spazio in cui si dà la narrazione, e su altri: familiari, amici, società. E una volta che la storia sia narrata vive di vita propria, come tutte le storie fanno. Può non funzionare nel modo in cui vogliamo funzioni. La sofferenza, i luoghi dolorosi da cui la storia viene, possono non solo essere esaminati e rispettati, possono diventare una fonte di dileggio, possono essere negati, possono essere gonfiati in qualcosa di più grosso, qualcosa di spaventoso.
Nel mondo esterno alla cameretta di mia figlia, quando facciamo i nomi, o persino quando provvediamo uno spazio per fare i nomi, queste ripercussioni crescono di interi ordini di grandezza. Ci sono effetti legali, e a meno che noi si sappia che la storia è vera (nel senso tradizionale del termine), che quell’uomo particolare ha causato quella particolare ferita, lo spazio per narrare storie diventa vulnerabile. La diffamazione è un affare costoso. E abbiamo la necessità di mantenere l’integrità degli spazi per i racconti delle donne, perché una sola storia messa in discussione può causare il dubbio su tutte le altre. In questo caso, quando si tratta di storie di violenza contro le donne, lo spazio può diventare precisamente l’opposto di quel che intendevamo: va a indebolire le basi su cui lottiamo per azioni legislative e politiche.
Ma nel momento in cui impediamo a una donna di raccontare la sua storia, stiamo assumendo di avere il diritto di farlo, stiamo pensando che noi, per qualche ragione, sappiamo cosa fare meglio di lei. E stiamo dicendo alla donna ferita che la sua storia non è importante, non ha valore. Le stiamo dicendo che altre cose hanno più peso del suo diritto ad avere una voce. Ciò significa che alcune decisioni devono essere prese.
Quel che facciamo qui con le storie condivise è lavorare con la donna, o le donne, che raccontano le loro storie per assicurarci di aver pensato a tutto quel che può accadere dopo. Cosa accade se la storia diventa immensamente popolare. Cosa accade se il perpetratore decide di aumentare le molestie, o prende a bersaglio membri della famiglia della donna, o porta la violenza ad un livello superiore. Significa che, se vi sono nomi, dobbiamo essere in grado di verificare indipendentemente le basi della storia. Non azzittiamo le donne e non teniamo storie chiuse dietro un cancello.
Non abbiamo tutte le risposte e non possiamo prevedere tutte le conseguenze, buone o cattive, del raccontare una storia. Ma abbiamo la responsabilità di lavorare con le donne coraggiose che condividono con noi le loro storie nel tentare di assicurarci che i risultati siano il più positivi possibile: discutendo le conseguenze, controllando con le narratrici se esse sono al sicuro, e cercando qualche volta una verifica indipendente. In questo modo, spero, soddisferemo gli standard richiesti dalla mia bambina e racconteremo tutte le storie che donne coraggiose dividono con noi.