(Fonti: Anti-Slavery International, Girls not brides, Agenzia Donne delle Nazioni Unite)
“Io appartenevo al mio padrone, potevo solo obbedirgli. Non mi era permesso neppure fare suggerimenti. Ero una cosa, un oggetto multiuso di cui si usufruiva in qualsiasi momento, comunque e dovunque.” Tikirit Amoudar, 45 anni, ex “wahaya”.
“La mia vita è miserabile. Nessuno nel villaggio mi rispetta, meno che mai nella casa in cui tutti gli altri mi isolano. I bambini del padrone mi chiamano bouzoua (schiava), solo per sbaglio pronunciano il mio nome.” Tast Aikar, 45 anni, “wahaya” da oltre vent’anni.
Cosa sarà mai essere una “wahaya”? In Nigeria e Niger designa una pratica di schiavismo in cui donne, ragazze e bambine sono vendute a fini di sfruttamento sessuale e lavorativo: significa “quinta moglie”. Nelle due nazioni un uomo può avere legalmente sino a quattro mogli, ma il suo prestigio si accresce se può comprare donne giovani: il costo di una wahaya varia dai 350 ai 1.000 euro. Sebbene la donna comprata si chiami “quinta moglie” non vi per lei è alcuna cerimonia nuziale e quindi non può esigere neppure i pochi diritti di una coniuge legale. La wahaya è proprietà, il suo status è inferiore a quello di qualsiasi altra persona, e chissà perché non sono sorpresa nel leggere quanti “leader religiosi” indulgono in questo rispettabilissimo costume del rendere schiavi degli esseri umani. Chissà come si sentono devoti, quando mettono alla caviglia della loro “quinta moglie” il simpatico contrassegno in bronzo pesante che potete vedere nell’immagine sottostante.
Il 43% delle wahaya sono vendute quando hanno fra i 9 e gli 11 anni d’età. L’83% sono diventate schiave prima di compierne 15. La wahaya coltiva i campi del padrone e accudisce il suo bestiame, in casa fa i lavori domestici e scalda il suo letto, e generalmente prende un sacco di botte da lui e da tutti gli altri membri della famiglia, perché è un oggetto, una schiava, e chiunque può sfogare il suo malumore su di lei.
Hadidjatou, in Niger, è diventata una wahaya a 12 anni. Fu venduta ad un uomo di 46, il sig. Elhadj Souleymane, quando costui aveva già quattro mogli legali e altre sette “quinte mogli”. Hadidjatou fu pagata l’equivalente di 627 euro e il sig. Souleymane si è assicurato negli anni seguenti il rientro della spesa e qualche guadagno usando la ragazzina in tutti i modi possibili. Pestaggi e stupri erano “regolari”, racconta Hadidjatou, e il lavoro non finiva mai. A 21 anni, nel 2005, Hadidjatou aveva avuto quattro figli dal suo padrone, ma solo due erano sopravvissuti. In quel periodo, il padrone venne a sapere di una nuova legge contro la schiavitù e decise di liberare solo formalmente la giovane donna e di sposarla subito dopo (evidentemente si era liberato un posto). Hadidjatou, come vide il certificato che la liberava lo afferrò e fuggì: nove anni di schiavitù le erano stati più che sufficienti.
Successivamente, Hadidjatou si sposò con un uomo di sua scelta ed ebbe un altro bimbo. Ma quando Elhadj Souleymane lo venne a sapere denunciò la sua ex schiava e suo marito per bigamia. Nel maggio 2007, la coppia ricevette una sentenza a sei mesi di prigione e una multa. Nonostante i loro appelli, furono tenuti in galera mentre il processo continuava, ben oltre i sei mesi previsti. Solo tardi nel 2008, quando il Tribunale della comunità economica degli stati africani occidentali condannò il Niger per non aver protetto Hadidjatou dalla schiavitù, la giovane donna e suo marito tornarono in libertà. Il governo del Niger ha pagato a Hadidjatou un compenso pari a 26.000 euro.
Una sua connazionale, Mariama, è in questo momento – anno del signore, e mai della signora, 2013 – nella medesima situazione in cui si trovava Hadidjatou otto anni fa. Venduta come wahaya da bambina e poi fuggita, sta lottando per riavere legalmente la sua libertà, ma il suo compratore la reclama come “moglie”. Non riesce a parlare di quel che ha subito senza piangere. L’anno scorso, in Nigeria, solo l’intervento di un gruppo di attivisti anti-schiavismo ha evitato ad una bimba di sette anni di diventare wahaya. Maria G. Di Rienzo