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In un’altra vita

26 agosto 2011 di lunanuvola

(“Asylum life: the trials of women refugees, through their own eyes”, di Kate Kellaway per The Observer, 14 agosto 2011. Trad. Maria G. Di Rienzo)

Il seminterrato di un edificio nei pressi di Old Street, Londra orientale, è pieno: rifugiate da tutto il mondo – Eritrea, Afghanistan, Iran, Repubblica democratica del Congo, Angola, Zimbabwe, Somalia, Burundi, Iraq e Camerun – si stanno riunendo qui. Diversi corsi di inglese si stanno tenendo in contemporanea e il posto ribolle di rumori. Si tratta della sede di una piccola associazione, “Women for Refugee Women”, che aiuta le rifugiate a camminare con le proprie gambe  ed a trovare la propria voce.

Molte di loro sono in completa miseria. Hanno passato mesi, ed in alcuni casi anni, sulle strade nel mentre lottavano con il sistema di asilo britannico. Sto facendo loro visita a causa di una eccellente mostra delle loro fotografie chiamata, con un’ironia che non necessita elaborazioni, “Casa dolce casa”: un tentativo di catturare ciò che “casa”, in questo paese, significa per loro.

Natasha Walter, una scrittrice che ha scoperto l’associazione dopo aver incontrato a Londra una rifugiata indigente, spiega che l’intenzione originaria era di aiutare le donne che sanno poco l’inglese a trovare un modo alternativo di comunicare le difficoltà delle loro vite in questa città: uno scatto vale mille parole. L’idea era anche che usando le macchine fotografiche le rifugiate avrebbero potuto illuminarci, ed è ciò che hanno fatto. In superficie, le istantanee non sembrano altro che una registrazione neutra ma è proprio questo a dar loro la forza di una protesta. Le macchine fotografiche non mentono. E la mostra finisce per dire molto su di noi e sulle nostre responsabilità nei confronti delle rifugiate: una lezione snervante.

E’ impossibile guardare queste immagini senza provare un’indignata compassione. Esse documentano la lotta per una sopravvivenza elementare; il senso di quanto poco le donne abbiano è inevitabile. Le necessità di base sono dominanti: le valigie non sono mai disfatte (le donne sono sempre in movimento), una borsa d’acqua calda tiene lontano il freddo, magre quantità di cibo (zucchero, riso) sono disposte come per un ritratto di gruppo. Molte delle fotografie suggeriscono l’idea di un ufficio oggetti smarriti, solo che sono le proprietarie e non gli oggetti ad essere sperdute.

Natasha Walter spiega che la mostra non tratta di casi individuali ma “dell’importanza di far conoscere alla gente le difficili circostanze in cui queste donne si trovano. La stragrande maggioranza di quelle che sono qui sono sfuggite a pesanti abusi dei loro diritti umani, inclusa la violenza sessuale, la persecuzione etnica e quella politica. Sono traumatizzate dalla perdita delle loro case e delle loro famiglie. Ed è terribile che la richiesta di asilo le traumatizzi ancora di più. Devono negoziare all’interno di un sistema assai complesso e nonostante la realtà delle persecuzioni che hanno subito molto spesso non vengono credute.”

Se la richiesta di asilo non viene accettata, le donne sono spostate da un luogo all’altro e possono essere classificate come “destitute” (“miserabili”), il che significa essere senza casa, non percepire alcun aiuto, e non avere il diritto di lavorare. “Vogliamo mostrare l’impatto di un sistema ingiusto nelle loro vite quotidiane.”, spiega ancora Natasha Walter.

In un’immagine particolarmente inquietante, “Ombra”, una scarpa senza lacci sta su un marciapiede londinese. Il corpo della donna che la indossa getta un’ombra sulla pietra. La fotografia mi appare un invito: potete immaginare di indossare le loro scarpe? (Ovvero di “mettervi nei loro panni”, ndt.)

Ho incontrato quattro delle fotografe: Evelyne, Madeleine, Esther ed Herlinde. Sono accoglienti ma guardinghe. Vengono tutte dalla Repubblica democratica del Congo ma non si conoscevano prima di incontrarsi, per la prima volta, in questa stanza. Stanno fuggendo da persecuzioni etniche e politiche ma qui, almeno, possono condividere esperienze, essere indirizzate a un avvocato, essere parte di una rete.

Chiacchieriamo in una volonterosa mistura di inglese e francese. Cominciamo con che tempo fa a Londra – ridono, rompono in esclamazioni, scuotono le spalle – e ci spostiamo sul cibo. Herlinde ricorda una visita al supermercato, la repulsione per i cibi inglesi ed il suo ingannarsi su di essi, mentre gli occhi di Evelyne si illuminano nel descrivere il “kwanga”, le radici vegetali che le ricordano casa sua. Le ha comprate a Dalston e le ha fotografate affettuosamente. Quando parlano dei loro sentimenti, le risate scompaiono. Herlinde descrive la sua testa “come una noce di cocco. Come se il mio cervello ci tremasse dentro. Dicono che è depressione.” Herlinde è, fra le quattro, quella dall’inglese migliore. Da poco le è stato garantito il permesso di restare. “Essere una “destitute” ha effetto sulla tua mente, sul tuo corpo, sulla tua anima.”, racconta, “Quando io lo ero non potevo pianificare la mia esistenza. Ti senti inutile e abbattuta, non sei stabile, diventi come una bambina.”

Madeleine, una donna regale vestita come una macchinista delle ferrovie, mi parla con spirito delle sfide affrontate nella sua vita, e del pericolo costituito dai falsi amici, in particolare dagli uomini: “Gli uomini dicono che vogliono aiutarti ma in effetti quel che vogliono è abusare di te. E poi ti ritrovi da sola con un bimbo. O malata di Aids.” Madeleine è qui da otto anni: “Vago con la mente. Non sono in pace. Vorrei lavorare per aiutare me stessa, ma il tempo sta passando.”

Tutte le donne vorrebbero lavorare, ma a causa del loro status se lo fanno vengono arrestate. Molte hanno figli lasciati nei loro paesi ed il dolore della separazione è quasi indicibile. “Non posso parlare con la mia bambina di 11 anni. E’ un problema per me.”, spiega Evelyne semplicemente. Esther mi dice che ha tre figli e poi ammutolisce. Herlinde soffre una crudele e persistente nostalgia di casa: “Starei meglio se fossi in Congo. Ma non posso andare là.”

Quando narrano della gentilezza e dell’ostilità che hanno incontrato a Londra, Madeleine trova assurde quelle persone che credono che loro si trovino qui per ragioni opportunistiche. “Perché avremmo dovuto voler venire?”, chiede, “Siamo venute solo per salvarci la vita! Non siamo venute perché ci piace l’avventura.” Herlinde è d’accordo: “Quando una donna in fuga arriva qui, con una paura reale, è perché ha un vero problema. A noi sembra che l’Home Office (l’ufficio immigrazione) non ci tratti con giustizia.”

Pure, sono deliziate e persino esaltate dalla mostra fotografica. Madeleine crede che possa aiutare la gente a capire il loro travaglio e che “farà crescere questo gruppo e ciò sarà un bene per le donne.” Prima di andarmene, chiedo loro se vogliono provare a descrivermi le case che si sono lasciate alle spalle. Sembra difficile: qualcosa di più della barriera del linguaggio impedisce loro di farlo. Poi Esther, inaspettatamente, mi prende il taccuino di mano e faticosamente scrive il suo indirizzo congolese. Me lo ripassa come se, in un’altra vita, io potessi farle visita là.

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