Estratto dal libro di Azam Haj Heydari, “The Price of Remaining Human”, trad. Maria G. Di Rienzo.
Azam è cresciuta negli slums del sud della città di Teheran. Suo padre, un fanatico religioso, era sostenitore dei mullah della “linea dura” e si opponeva alla sua istruzione. Sostenuta dalla madre, Azam riuscì comunque ad ottenere un diploma. A 13 anni sfuggì per un pelo ad un matrimonio imposto con un mullah. Nel 1978, quando aveva vent’anni, si unì ai “Mujahedin del popolo” e fu coinvolta in numerose dimostrazioni contro lo Scià. Ha passato sette anni in prigione, dei quali otto mesi accovacciata e bendata in una gabbia. E’ fuggita dalla sua famiglia per lottare contro i fondamentalisti ed oggi vive in Iraq, a Camp Ashraf, assieme ad altri 3.400 dissidenti iraniani.
Penso che per quanto io parli e scriva dell’ideologia di Khomeini, a cui mio padre e mio fratello erano tanto devoti, e per quanto io spieghi come questa ideologia renda gli esseri umani indifferenti e freddi verso la propria famiglia, la propria moglie e i propri figli, non avrò mai detto abbastanza.
Mio padre non mostrò mai un’emozione o una qualche gentilezza. Credeva che baciare i bambini li rendesse impudenti. Non ho ricordi che abbia mai dato un bacio a me o a mia sorella. Allora, io non capivo le radici di questi comportamenti. Non capivo perché mio padre e mio fratello erano non solo maligni, spietati ed insensibili verso me e mia sorella, ma perché trattavano la mia povera madre nello stesso modo, una madre che aveva sopportato così tante avversità a loro beneficio. Allora, io non comprendevo che la misoginia, quale cuore ed anima dei mullah dalla mentalità medievale, era la fonte di tale condotta.
La repentina morte di mia madre fu un risultato della misoginia e della mancanza di sentimenti. Mia madre andava lamentandosi di un dolore al petto da qualche giorno. Tuttavia, poiché sapevamo tutte molto bene che un dottore era fuori discussione sino a che il suo malessere non fosse diventato serio, ne’ lei ne’ noi sorelle pensammo di vedere un medico. Fino a che, un giorno, il malessere si aggravò e lei svenne nel cortile di casa. Io corsi da lei e cercai di farla alzare e di riportarla in casa, ma non ci riuscii perché ero troppo piccola. Mi precipitai all’interno e dissi a mio fratello che la mamma giaceva svenuta nel cortile. Lui rispose con leggerezza che probabilmente aveva mangiato del cibo andato a male, e che non era il caso di preoccuparsi.
Mio padre, che pensava di continuo all’ “andare in paradiso”, stava leggendo il Corano, e continuò a farlo senza prestare un minimo di attenzione alle condizioni di mia madre, totalmente indifferente. Quando vidi che non reagivano, e che la vita o la morte di mia madre non significavano nulla per loro, supplicai la moglie del nostro vicino di casa di darmi aiuto. Coadiuvate dalla mia sorella maggiore e con qualche ritardo, riuscimmo a portare mia madre ad un ospedale dei dintorni. Aveva avuto un infarto, e bisognava trasferirla in una clinica specializzata per la cura dei malati di cuore, ma noi eravamo troppo povere per potercela permettere.
Perciò, mia madre fu ricoverata nell’ospedale governativo vicino a casa nostra, il quale era a corto di equipaggiamento specializzato per il trattamento dei malati di cuore. Questa donna, che aveva attraversato così tante sofferenze nella propria vita, ebbe altri due infarti e morì cinque giorni dopo. Tutto ciò accadde mentre mio fratello stava assai bene finanziariamente, ed avrebbe potuto permettersi di trasferirla in quella clinica dove avrebbero salvato la vita di sua madre.
Con la morte della mamma, mia sorella ed io perdemmo la nostra sostenitrice principale, e le crescenti pressioni che la vita poneva su di noi si facevano sentire. La sola compagna che parzialmente alleviò il vuoto lasciato da nostra madre era la nostra sorella maggiore Mahin, che aveva undici anni più di me. (…)
Gli eventi e le attività della rivoluzione del 1979 in Iran furono per lo più condotte dai giovani. Erano coraggiosi e intrepidi, sempre in prima fila, davano il loro sangue giorno per giorno. Dopo la vittoria della rivoluzione, questi patrioti furono massacrati nelle prigioni, ma non dallo Scià, bensì da Khomeini e i suoi scherani. Tutti ricordano l’8 settembre 1978, chiamato il “Venerdì di sangue”, quando Teheran fu testimone di un massacro. Io ricordo bene che quel giorno mio padre e mio fratello non diedero il permesso a noi, membri più giovani della famiglia, di uscire e di unirci alle proteste, perché il regime dello Scià aveva annunciato la legge marziale, e si capiva che quel giorno sarebbe stato diverso da tutto quel che si era visto prima.
Allora, sebbene io fossi una giovane donna di vent’anni con un diploma, non osavo lasciare la casa o fare qualsiasi altra cosa senza il permesso di mio padre e mio fratello, sempre temendo le conseguenze. Tuttavia, quando udii le notizie delle gente che veniva assassinata, uomini e donne disarmate con i loro bimbi fra le braccia, e dopo aver parlato con chi aveva partecipato a quella manifestazione, me ne pentii profondamente. Continuavo a biasimarmi per non esserci andata ed aver atteso il permesso di mio padre e mio fratello.
Quel giorno, sentii che qualcosa cambiava dentro di me. Da quello successivo, cominciai a partecipare alle dimostrazioni senza il permesso di nessuno. Naturalmente lo facevo ancora di nascosto, andando e tornando prima che loro fossero presenti. A poco a poco, sentivo che la fiducia in me stessa cresceva, mentre partecipavo alle proteste pubbliche ed incontravo persone decise ad andare oltre i loro limiti, e persino a pagare il prezzo ultimo per la libertà.
Essendo stata cresciuta, come donna, a insulti e crudeltà, sentivo tutti i desideri che avevo soppresso diventare veri nella rivoluzione e nei suoi slogan. Pensavo di aver trovato l’anello mancante nella mia vita: era la rivoluzione, erano le sempre crescenti ondate di persone che protestavano. Ciò era dovuto al fatto che non solo mentalmente, ma anche fisicamente, io ero tenuta prigioniera, alla lettera, nella mia stessa casa. Il mio mondo era limitato fra la mia casa e la scuola del quartiere.
L’unica professione a cui il mio status sociale e familiare mi permettevano solo di pensare era l’insegnamento, perché essere un’insegnante, per di più in una scuola femminile, non mi avrebbe messa in contatto con uomini non della famiglia, e ciò lo rendeva accettabile agli occhi di mio padre. Inoltre, il guadagno che mi veniva dalla professione era un aiuto considerevole per la nostra famiglia e naturalmente mio padre non poteva opporvisi.
Pure, devo dire che avevo molte soddisfazioni dall’insegnamento. Amavo le bambine, e cercavo sempre di trovare qualche modo per aiutarle, in special modo quelle delle famiglie più povere. Arrivai a comprendere come tale povertà, molto più profonda e dolorosa di quella che avevo fronteggiato io, stava distruggendo le vite di milioni di persone in Iran. La povertà e la deprivazione vittimizzano le donne e le bambine per prime, e con maggiore intensità.
Ho scelto di lottare contro i dittatori che governano il mio paese per la libertà di quelle bambine spossessate e dell’intero popolo del mio paese. La mia lotta non avrà fine sino al giorno in cui non sarò in grado di portare libertà alla mia gente.