(di Lyse Doucet, corrispondente da Kabul per la BBC, trad. Maria G. Di Rienzo, 23.5.2010)
La sua giornata comincia bussando alle porte. Alle 6 del mattino, a Kabul, la decenne Nargis va di casa in casa per le strade più ricche della capitale, mendicando il pane. Il quartiere di Sherpur, famoso per i suoi magnificenti palazzi, sorge ai piedi della collina dove Nargis e la sua famiglia vivono in una sola stanza fatta di mattoni di fango.
Il giorno in cui la incontro, chiunque risponda al suo bussare dice di non aver pane da darle. “Oggi, un ragazzino è passato prima di me. Si è preso tutto lui.”, spiega con un filo di voce, prima di tornare a casa senza aver nulla da mangiare per la sua famiglia. Questa bimba randagia, vestita di una tunica rosa rammendata da fili argentei, è la provveditrice di cibo per una famiglia che ha sette figli. Mandare per le strade le sorelle adolescenti di Nargis sarebbe considerato “disonorevole”, e gli altri fratelli sono troppo piccoli. Suo padre non può o non vuole lavorare: è un tossicodipendente. Perciò, tutto dipende da Nargis.
Ma Nargis è solo una delle decine di migliaia dei bambini di strada a Kabul. Nati in un paese devastato da tre decenni di guerra ed in una economia alimentata dal commercio di oppio, hanno perso i loro padri grazie alla violenza o al vizio. Di giorno, sciamano attorno alle automobili incastrate nel fitto traffico di Kabul brandendo qualsiasi cosa da vendere, dai pacchetti di gomme da masticare all’incenso, oppure uno straccio sbrindellato per pulire i parabrezza.
Di notte, quelli adolescenti sono ancora nelle strade principali a vendere strisce di carte per telefoni cellulari. Bambini che dovrebbero essere a scuola stanno imparando a sopravvivere in strade molto dure. Usando un campionario di trucchi, cercano di guadagnare quei pochi soldi che metteranno del cibo sulla tavola familiare. E quest’armata di bimbi al lavoro nelle strade sta crescendo.
“Giorno dopo giorno ci sono sempre più bambini a lavorare nelle strade, perché i rifugiati dall’Iran e dal Pakistan stanno tuttora tornando, e la gente è ancora sfollata a causa della guerra.”, dice l’ingegner Mohammed Yousef, fondatore e direttore di “Aschiana”, un rifugio per i bimbi di strada. Avendo la reputazione di essere pestiferi, spesso sono ignorati o cacciati via. Ma i bambini crescono. “Quando diventano adulti, impararenno altre cose dalla strada, e non ce ne saranno molte di positive.”, continua Mohammed Yousef, “In maggioranza i bimbi hanno talento, e se hanno l’opportunità di essere istruiti in un buon ambiente useranno il loro talento in modo positivo e diventeranno brave persone, altrimenti lo useranno in modo negativo.” Bambini non protetti possono cadere preda di ragazzi più vecchi che li indirizzano al crimine; sono anche un bersaglio per le gang criminali che trafficano persone e droga.
In Afghanistan, il numero dei tossicodipendenti sta vertiginosamente crescendo. Le ultime stime parlano di un milione e mezzo di persone: un quarto sono donne e bambini. Fra i bambini c’è il tredicenne Omid. Dapprima tenta di negare, dicendo che non è più dipendente, ma gli occhi dalle palpebre pesanti lo smentiscono. Infine ammette che sniffare colla allevia in qualche modo la sua difficile esistenza: “Ti senti come se fossi un gigante. Non avverti il peso di ciò che porti in spalla.”
Nel rifugio di “Aschiana”, i bambini ricevono qualche ora di istruzione combinandola con il lavoro di strada. I più cresciuti possono ricevere addestramento professionale, e a tutti i più piccoli è data la possibilità di giocare, e persino di sognare. Nargis è una di questi “fortunati”: alle lezioni sta seduta composta in prima fila, strizzata in mezzo ad altre bambine, su una lunga panca di legno. Chinata sul suo quaderno, dove scrive con linee impeccabili parole in lingua Dari, sembra fuggita in un mondo che le promette un futuro migliore.
Al 14enne Mahfouz, che sa citare a memoria i nomi di tutti i maggiori calciatori mondiali, “Aschiana” dà la possibilità di mettere da parte per qualche ora le sue preoccupazioni e di unirsi ad altri ragazzi per giocare a pallone. Ma fin troppo presto eccolo di nuovo al lavoro in strada, dove lava automobili per mantenere la sua famiglia. Mahfouz lo fa da quando aveva sette anni, da quando suo padre ha abbandonato la moglie per un’altra donna: “Ci ha rovinato la vita. Già eravamo poveri, e adesso io devo lavorare per guadagnare il pane a tutti.”
Il posto in cui sta lavorando ora si trova a breve distanza dal sito di un recente attentato suicida. “No, non ho più paura. Ho maneggiato questa cosa per la maggior parte della mia vita.”, dice Mahfouz, “Non sono più un bambino piccolo.” Nonostante le arie da adulto che si dà, questo ragazzo ha solo quattordici anni e lo si vede quando parla dell’assenza paterna: “Essere privati dell’abbraccio di un padre è una cosa assai triste.”
Anche Nargis lamenta il comportamento paterno, così come fa sua madre con una lacrima che le scorre sul viso: “Se avessimo denaro potremmo farlo disintossicare ed io non dovrei mandare mia figlia per le strade.”
“Io mi arrabbio quando mia madre piange.”, attesta Nargis più tardi, adottando un tono che apparentemente smentisce la sua giovanissima età. Ma subito dopo rompe in un fiume di lacrime. Alla fine di ogni giornata, Nargis scala l’ultima collina verso casa. Da una spalla le pende un sacchetto di stoffa stracciata in cui sta il suo quaderno. Dall’altra spalla le pende un’ampia borsa di plastica piena di piccole cose utili tratte da un mucchio di spazzatura.
Fin dalla nascita, i bambini afgani come Nargis portano sulle spalle le peggiori eredità della guerra.